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Verrà poi Draxler alla Juve?

Sarà il calciomercato, l’avvicinarsi di settembre, dormire con le finestre chiuse, respirare sempre la stessa aria da troppi giorni. Un treno, rotaie lunghissime, aria condizionata e poi prati verdi, bicchieri di vino e case bianche. Questo ci vuole, cambiare aria al pesce, spostare latitudini. Mi hai scritto proprio ora lo stress è come un bicchiere d’acqua, se lo prendi in mano è leggero, se lo reggi per un’ora è insopportabile. Mollare bisogna, non preoccuparsi dei vetri e del rumore al contatto col suolo, sedersi dove capita, ferirsi coi ricordi e lasciare che il sangue sgorghi un poco, poi il tempo, le piastrine e tutto il resto, il taglio si rimargina e il dolore che porta diventa un ricordo. Certo che l’ansia di non sapere se Draxler verrà finalmente a regalare poesia all’attacco bianconero per me rimane un peso. Verrà il trentuno del mese e avremo chiuso con tutte le dicerie e i discorsi fuorvianti e sarà tempo di fare i conti con quel che c’è, decidere il modulo, dare fiducia al capitano e sudare e sudare negli allenamenti per fiorire in partita e vincere, vincere, vincere non trascurando il bel gioco. È il quinto caffè che mi annerisce lo stomaco, è il terzo sonno dalle tre del mattino, dovresti smetterla, colora di bianco i tuoi denti, dici così, a me, intollerante ai latticini e ai consigli. E mentre tutti tornano noi partiamo, e mentre tutti dormono noi dormiamo. Smettila di cercare l’orizzonte, dici ancora, e io che gli orizzonti li ho sempre inseguiti ora che faccio? Basterà un balcone? Un letto? Una finestra? È inevitabile. Guarda i miei occhi ora nuovi, ne ho consumati un paio o forse più, guardaci dentro e dimmi che vedi. Io ancora niente, sono in rodaggio. Comincio con te, rimani qui, proprio davanti, e prima metto a fuoco e poi mi guardo intorno, così che tutto, questa volta, lo sai, parte da te, che sei mio occhio, mia destra, mio inaspettato orizzonte.

Foto: © Giulia Bersani

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Per la nostra beatitudine, buon compleanno Jack Kerouac!

“Ah ma «non so, chi se ne frega, non importa» sarà l’estrema preghiera umana.”

Sono parole di Jack Kerouac, nato il 12 marzo di novantatré anni fa. Le ha scritte in uno dei tanti momenti di smarrimento, di quell’infinita, desolata tristezza che vieta di immaginare futuri sorridenti. Io, che sono ancora sulla terra dei vivi, dei “chi se ne frega” e dei “non importa” non so che farmene. Sono uno che scrive alle sue ex ragazze per sapere come stanno, sono uno che non accetta di voler male a una persona solo perché quella mi ha fatto del male. Sono capace dell’odio e dello scherno, ma basta una bottiglia, del vino e un polso magro, una camicia bianca e capelli lunghissimi a cui scrivere parole e rabbia, invidia e ideali di morte si trasformano in umano compatire e paroline d’amore.

Oggi è il tuo compleanno Jack e come ogni anno ti scrivo, vorrei dire che dovunque tu sia mi leggerai, ma è una stronzata perché nessuno li legge i testi degli aspiranti scrittori. Dovevo sedermi di fianco a te in un bar, coglierti alla sprovvista e leggerti le mie cose, ma di solito dopo un wow iniziale questo mi porta verso dolorosi insuccessi, quindi meglio così, che per evidenti questioni d’età l’occasione non si sia mai presentata. Ora non desidero parlarti di me, ma dirti qualcosa che forse non sai. Quando sei diventato famoso non hai più smesso di bere e ti è scoppiato il fegato, non sei nemmeno riuscito a contarle le ventisei trasfusioni che ti hanno fatto, non ti sei svegliato più e avevi solo quarantasette anni. Quello che non sai è che dopo che sei morto tutti quei cravattini che ti compativano quando arrivavi ubriaco alle interviste nei loro mosci talk show sono venuti al tuo funerale e hanno raccontato di quanto eri gentile, dolce, poetico, fantastico, sorvolando su tutte quelle risse da bar in cui sei finito invischiato e sui tuoi giudizi poco lusinghieri nei confronti dei loro salotti. Sai, quando non ascoltiamo gli altri possono dire tutto e la realtà è fatta per sentito dire. Lascia perdere, perché in molti hanno riconosciuto il tuo valore, pure gli hippy che tanto criticavi hanno cominciato a sformare le tasche dei loro jeans attillatissimi per infilarci i tuoi libri. Beh, On the road è diventato un mito, lo era già quando tu eri in vita, eh, ma ora mi è capitato di prenderlo in biblioteca e trovarci scritto con inchiostro colorato e cuoricini: “Il beat è la vita, leggete On the road” o “Jack Kerouac uno di noi”.

Siamo nell’anno 2015 e la maggior parte degli scrittori odia stare in gruppo e condividere una certa idea di letteratura. Mi viene in mente quando te ne sei andato in Marocco da Ginsberg e ti sei messo a battere a macchina il suo manoscritto, eri famoso allora, vivevi ancora con tua madre anche se avevi da parte dei bei dollaroni, continuavi a dire che avevi un sacco di soldi ma i soldi erano soltanto soldi e allora andavi a trovare i tuoi amici perché con loro ti sentivi proprio tu e l’alcol non era una fuga ma una condivisione che esaltava i caratteri e i discorsi. Sei stato fortunato, sai? Sono ancora convinto che Ginsberg ti volesse bene ma che tu abbia giovato non poco alla sua carriera, che Burroughs fosse un bel tipino da frequentare ma l’incontro decisivo della tua vita è stato Neal. Perché Cassady era un bel fusto, amava lo sport, rubava le auto, era contro tutte le convenzioni e amava la letteratura, ma che vuoi di più da un amico? Se quelli si drogavano da fare schifo e l’energia lisergica animava le vostre discussioni con Neal tu avevi trovato quell’umanità che ti mancava, l’amico vero, ci parlavi di poesia, gli facevi leggere i tuoi scritti come facevi con gli altri, ma quello che più conta è che andavate insieme per le strade, in cerca di una beatitudine che pensavate di poter sfiorare, in cerca delle guance di donne incontrate sulla via, di storie raccontate dai vecchi in coda dai benzinai o nelle baite in montagna. Quello che ti voglio dire è che mi sarebbe piaciuto incontrarvi e andarcene tutti a vivere sui monti, a seguire la dottrina di Thoreau, forse avrei scritto degli haiku più belli dei tuoi, ci saremmo sfidati davanti al fuoco per annullare la noia. Perché non c’erano gli smartphone ai tempi tuoi e non ci si continuava a distrarre inutilmente alle luci dei pixel. Mi sarei stancato in fretta come ti sei stancato tu, perché gli amici prima o poi prendono le loro strade e tu ti ritrovi da solo e non sai che fare, perché amico mio, tu sei finito quando ti sei sentito solo. Quando Burroughs e Ginsberg si davano alla gioia dei salotti, quando Neal si era accoppiato e lo sai che le donne cambiano tutti gli equilibri. Tu non eri fatto per la vita da marito, perché hai continuato a sposarti? Credevi forse che prima o poi qualcuna potesse raccogliere tutto il tuo amore? Ne avevi troppo e una donna non era abbastanza.

Ti hanno chiamato folle e all’inizio ti faceva piacere, poi ti sei ribellato, dicevi che se i folli fossero felici i manicomi sarebbero oasi di gioia. Il tuo alfabeto per anni è stato incomprensibile. Tutti pensavano che le tue parole fossero dono dell’alcol, del narcisismo, della presunzione, perché tu parlavi come scrivevi, tu parlavi come vivevi. Non ti vergognavi di chiamare in causa Dio e di chiedergli il perché dell’infelicità dell’esistenza. Ricordi quando hai detto che Dio era il contrario di cane (nella tua lingua certo, ti riferivi a God e a Dog), te lo ricordi quando scrivevi che Dio era Winnie Pooh? Provocatorio sempre. Eppure ci credevi davvero nel Cristo e ti dava noia Tolstoj perché troppo ingessato mentre in Dostoevskij trovavi un Gesù vivo.

Io ti capisco, sai, perché non hai mai imparato la pazienza ed eri sincero e istintivo, e spaventavi, oh come spaventavi, perché eri anche bello e profondo e sensibile. Tutto questo non può essere del mondo, non lo era quando eri in vita e non lo è nemmeno ora. Siamo gente che finisce male perché seminiamo la fiducia e cambiamo rotta di continuo per un amico, per una caviglia stretta, per una nevicata o per vedere il mare. Ci dovessimo chiedere dove siamo che risponderemmo? Hai risposto tu per tutti noi, con mille case, senza una casa, con mille amori, senza un amore, con una musa che non vuole attenzioni. Cosa ci resta? Gli amici e i loro rifugi e poi la strada, noi siamo là, come tanti autostoppisti, pronti a cogliere il presente e godere dei tragitti, incapaci della sosta, amanti del rischio di essere uomini tra i robot.

Lo sai bene che ho letto tutto quello che hai scritto e trovo i tuoi diari inarrivabili. Perché oltre alla scrittura riveli tutta la tua imperfezione, la tua umanità. Ho smesso di conoscere gli artisti che ammiro perché sono sempre rimasto deluso da quello che c’è dietro al personaggio, si rivelano spesso costruiti, non falsi, no, è un altro il discorso che faccio. Tu eri tu sempre, magari avremmo fatto a botte, sono certo ci saremmo abbracciati e avresti provato a baciarmi in bocca come si fa tra amici ubriachi. Aver letto tutti i tuoi libri ha fatto sì che io uscissi dalle categorie del bello o del brutto, del mi piace o non mi piace, ma cominciassi a compatirti, a sentire con te. Così nelle tue pagine ci sono tutte le contraddizioni, i dubbi, i desideri, le gioie e le sconfinate tristezze della vita di un uomo bello e sensibile, l’ho detto e lo ripeto, amante delle lettere, dello sport, ma sopra tutto dell’esistenza, delle persone, del vino.

Sei morto di vino e di solitudine. Sei morto perché ti sei donato completamente. Come il tuo Cristo.

Sai, ora a Lowell arrivano i bus che trasportano i turisti a vedere la tua casa, c’è una biblioteca che ospita le bozze originali dei tuoi scritti, a San Francisco una via porta il tuo nome. Organizzano letture pubbliche e provano il ritmo bebop della tua parola libera. Io col tuo nome ci chiamo la strada, io col tuo nome ci chiamo tutte le mie velleità di scrittore. Gli uomini come te rimangono, mentre le stelle cadono e provano a confonderci, siete bagliori che guidano lo sguardo sulla strada vera, quella che porta a una non precisata, indefinibile, beatitudine.

Foto: dalla rete.

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In vita di Charles Bukowski

il 9 marzo del 1994 moriva Charles Bukowski. Io avevo dodici anni e mi sbucciavo le ginocchia sul campo di pallone dell’oratorio. Segnavo una media di otto goal a partita, delle ragazze non mi importava niente, tornavo a casa sporco di fango e sudato, mamma mi sbatteva in doccia e io me ne uscivo coi capelli bagnati, facevo finta di cenare e raggiungevo i miei amichetti in giardino per giocare a nascondino prima del buio.

Bukowski l’ho scoperto solo a trent’anni circa, prima lo snobbavo perché piaceva a tutti e le sue pagine mi sembravano soltanto un pretesto per tirarsi seghe in mancanza di un settimanale illustrato. Avevo sentito parlare di lui perché in molti, negli anni novanta, specie tra i miei compagni del Liceo Classico Stefano Maria Legnani di Saronno, si firmavano Chinaski, che dei romanzi di Bukowski era l’eroe. Mi sembrava un vezzo cretino, io prendevo a prestito Benjamin, da Walter Benjamin, personalità poliedrica, mica semplice scrittore. Poi sono cresciuto, sono tornato a farmi chiamare Marco e Benjamin ci ho chiamato il mio cane.

Charlie Buk Bukowski, patrimonio infinito di citazioni, sporcaccione per eccellenza, bevitore, amante delle corse dei cavalli e tanto altro. Per capirne lo spirito, se proprio non lo conoscete e non avete letto i suoi libri o le poesie o un cartello dentro a un’enoteca che recita le sue parole, vi consiglio un bell’articolo di Fabrizio Sabatini pubblicato su Artnoise (http://www.artnoise.it/caro-hank-lesattezza-di-charles-bukowski/), è un testo mica male che sa cogliere lo spirito profondo di Charles e sa andare oltre a una certa mitologia infarcita di luoghi comuni.

Charlie, concedetemi il diminutivo perché ci sono scrittori che a furia di leggerli diventano amici, Charlie per me è tenerezza in una accezione poco nota, forse. È un uomo che rifiuta il mondo e il suo pensiero dominante, ma nel mondo ci deve vivere, per cui non disprezza il lavoro come qualsiasi bohemio della sua epoca, non disprezza nemmeno il denaro, quindi scrive anche su commissione e non se ne vergogna. È dotato di una sensibilità straordinaria, è vero, dannatamente e sempre vero e sincero.

Per scrivere e seguire la sua necessità più grande si fa assumere in posta, lavora di notte e dorme poco, vive fino a cinquant’anni in appartamenti di periferia in compagnia dei topi e di una macchina da scrivere, rifiuta ogni amicizia letteraria (anche se una volta famoso in tanti lo cercheranno), preferisce le donne, la sua “cipolla rossa” fa esperienza di parecchie femmine americane, sposa però donne dal fascino decadente, intelligenti e capaci di tenergli testa.

Bukowski non è un uomo solo, ama incontrare gente, tirare tardi e bere fino a non poterne più, poi cerca la solitudine, l’a tu per tu con la parola. In molti l’hanno considerato beat, ma un beat proprio non è, rifiuta quella parola che dopo la morte di Kerouac era diventata etichetta e moda. Bukowski era contro le mode, talmente contro da finire per diventare lui stesso moda.

È famoso un video di una sua lettura pubblica (su youtube.com lo trovate facilmente) in un teatro zuppo di persone che acclamano il suo nome, il nome di un uomo sbronzo che si siede a un tavolo sistemato sul palco e chiede una birra e usa un tono basso e lento, e ride e incespica sulle sue parole, e beve e il pubblico applaude come se sì, quell’uomo stesse indicando una via per tutti coloro che si vergognavano degli istinti, delle zone buie, che chiamavano libertà la luce e condannavano le tenebre. Bukowski mostrava le sue di tenebre e permetteva ai lettori, al pubblico, di vedere le loro e attraversarle. La sua parola era un’offerta di verità.

Con questo non voglio dire che Charles fu un santo, no, era un attaccabrighe dal brontolio facile, era manesco e quando sbronzo anche prepotente ma… tutto questo lo rendeva in fondo amabile, credibile, uomo.

I suoi romanzi ancora oggi mi appaiono zoppi, imperfetti, ma così ricchi d’umanità che suscitano un’empatia straordinaria in chi si mette in ricerca del suo vero io e sa che la perfezione non è del mondo.

Diceva Bukowski che chi tiene un diario per annotarci i suoi pensieri è un testa di cazzo, che lui lo faceva soltanto perché qualcuno glielo aveva proposto, dunque era anche lui una testa di cazzo, nemmeno originale, per giunta. Tutta la sua opera, però, si rivela come un grande diario che racconta la sensibilità rara di un uomo libero. Diario sono i suoi romanzi, le sue poesie, diario sono i suoi diari, addirittura la sceneggiatura di quel film hollywoodiano (Barfly) che gli rese tanto in denaro e fama.

Tutti, me compreso, credono di conoscere il caro vecchio Buk e ne parlano. Così, di voce in voce, di decennio in decennio, la sua fama si fa sempre più grande, le edizioni dei suoi scritti trionfano in libreria e sulle bancarelle. Il rischio che corriamo oggi è ridurre Bukowski a un Chinaski qualsiasi, a farlo personaggio e non più uomo, ma chissenefotte.

Il poeta si è fatto dono e la sua parola lo trascende. Ti incontrerò un giorno Charlie, penserò di conoscerti anch’io e mi smentirai, quel che farò sarà soltanto riconoscerti in mezzo a mille altri e abbracciarti perché sì, già ora, ti voglio bene. Perché grazie a te, qui, in questo mondo sghembo, mi sento meno solo.

Ora incazzati pure, e dimmelo che non dovevo scrivere quest’elegia del cazzo, ma quando si ricorda qualcuno… va sempre a finire che si esagera qui e là.

Vi lascio questa poesia, famosa e straordinaria. Questo è Charles Bukowski, oggi, per me.

Un uccello azzurro
nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma con lui sono inflessibile,
gli dico: rimani dentro, non voglio
che nessuno ti
veda.

nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io gli verso addosso whisky e aspiro
il fumo delle sigarette
e le puttane e i baristi
e i commessi del droghiere
non sanno che
lì dentro
c’è lui

nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io con lui sono inflessibile,
gli dico:
rimani giù, mi vuoi fare andar fuori
di testa?
vuoi mandare all’aria tutto il mio
lavoro?
vuoi far saltare le vendite dei miei libri in
Europa?

nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io sono troppo furbo, lo lascio uscire
solo di notte qualche volta
quando dormono tutti.
gli dico: lo so che ci sei,
non essere
triste

poi lo rimetto a posto,
ma lui lì dentro un pochino
canta, mica l’ho fatto davvero
morire,
dormiamo insieme
così col nostro
patto segreto
ed è così grazioso da
far piangere
un uomo, ma io non
piango, e
voi?

Foto: dalla rete.

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In morte di fratello Jack Kerouac

“A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione.”

Era il 22 ottobre 1969 e moriva Jack Kerouac. Era il 22 ottobre 1969 e tornava alla vita Jack Kerouac.

Fu il successo a ucciderlo, una solitudine invasa dalle telecamere, dai viaggi su aerei di prima classe che non facevano mai un ritardo e cosce sode di hostess ammiccanti, litigi a causa dell’ubriachezza e il peso troppo grande dell’essere diventato un punto di riferimento per una generazione, il padre di un movimento chiamato beat che comprendeva ormai hipster, capelloni e debosciati tutti e aveva perso così la sua identità profonda. Un movimento che considerò fallito, ne uscì come un santo, martire della sua stessa aspirazione all’altissimo.

La morte lo colse al culmine della vita, quarantasette anni per lui che visse molto e scrisse molto, e possedeva verità di storie da raccontare e strade da attraversare. Gli chiesero che ne pensi della guerra in Vietnam, rispose evidentemente alterato dall’alcol che ai vietnamiti piacevano le Jeep, il desiderio era la causa del conflitto. Se una donna lo intervistava provava a sedurla, ma quale seduzione? Soltanto una spinta alla follia delle intimità, alla complessità della vicinanza. Non solo un su e giù di sessi come alternativa alla solitudine della notte, ma un incontro tra anime nude.

Bisogna essere come Jack per capirlo fino in fondo o almeno cercare nelle tapparelle abbassate uno spiraglio di luce prima della sveglia e delle otto ore del lavoro quotidiano. La beat, non era soltanto droghe, eccessi e sessualità esibita, era incontro, stile non artefatto, prosa musicale, tensione assoluta verso la beatitudine, e tutto il resto solo chiacchiere, modaiolo vociare. Non esiste un’estetica che prescinda dal sentire, la parola beat cerca l’armonia e parte dalla verità dell’uomo, testimonia la sua infinita debolezza nella ricerca di una salvezza beata. Lontani i dandy nei loro pantaloni stretti e stirati, lontane le camicie chiuse all’ultimo bottone, sfilano villosi petti per le strade d’America e le spiagge del Marocco. L’occhio furbo di Burroughs, l’urlo liberatorio di Ginsberg, tutti quegli amici che in vecchiaia portarono barbe lunghe e i cui tratti del viso assunsero dolcezza.

Anche Jack fu un uomo dolce, pauroso, fu Jack un uomo rude, coraggioso, sportivo. Amava sua madre al punto da confidarle tutta l’allergia alle scrivanie degli uffici e la sua difficoltà nei rapporti duraturi, quando bastava una piega del mignolo a farlo innamorare. Poi colazioni a base di uova e bacon e notti insonni a battere sui tasti, poco equilibrio nei giorni, momenti di lucidità per scrivere un diario che assomiglia a un Vangelo da tenere sempre sul comodino. Domande sul senso.

“Qual è la tua strada amico? La strada del santo, la strada del pazzo, la strada dell’arcobaleno, la strada dell’imbecille, qualsiasi strada. È una strada in tutte le direzioni per tutti gli uomini in tutti i modi.”

Jack parlava così, in molti pensavano recitasse, spesso capita così quando non c’è distanza tra vita e alfabeto, si rischia di divenire incomprensibili ai più. Kerouac era la sua parola.

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Poteva una donna prendersi carico di tutta quell’irrequietezza, di un desiderio per la novità delle esperienza, di un’idea di rifugio che non è casa, ma viaggio, di un’interiorità che non rimane nascosta ma esplode in parole? Poteva una donna non rimanere affascinata dall’eloquio profondo e a tratti surreali, da un corpo da Cristo avvezzo ai piaceri, poteva una donna non temerlo e allontanarlo fino a relegarlo a un’infinita solitudine?

La scrittura era necessità salvifica, consolazione e anche professione, contava le battute scritte ogni notte il fratello Jack, correggeva, rifiniva e pensava: quando pubblicheranno i miei libri e non dovrò più preoccuparmi di guadagnarmi soldi per lo sconosciuto domani, potrò bere birra di qualità e far riposare la testa su un cuscino, quando avrò il denaro necessario per non chiedere l’elemosina a mamma, quando lei mi vedrà felice e sarà consolata in vecchiaia, quando… quando poi tutto arrivò non seppe reggerne l’impatto. Il suo ultimo romanzo fu Vanità di Duluoz, cambiò stile, meno istintivo, più semplice, ricordi di infanzia, la tensione verso la grande gioia ormai depotenziata, non guardava più avanti Jack e tirò fuori una prosa stanca e sofferente, poi non scrisse più.

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Diventò una star in vita questo un cantore dei vinti e della sconfitta. Non ebbe mai paura di mostrarsi fragile, beveva e beveva perché non si sentiva a suo agio nei salotti, quando abbandonava la strada per rifugiarsi nella sua stanza fatta di letto e scrivania il mondo si faceva troppo distante fino a divenire irraggiungibile, inabitabile e per questo insopportabile. L’unico rifugio, oltre alla carta, oltre alla strada, era la tavola con gli amici fidati: lo stesso alfabeto, lo stesso sguardo, fare notte a leggere poesia, confrontarsi su qualsiasi cosa, diventare surreali in discorsi e droghe e alcol e prendere sonno senza coscienza. Perché la coscienza fa impazzire.

“Sono hip, ma non esibizionisti, intelligenti, ma senza pedanterie intellettuali fin nelle dita dei piedi e sanno tutto-tutto su Pound eppure non la mettono dura e non si parlano addosso in continuazione e sono tranquilli e silenziosi come tanti cristi.”

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E alla mattina, lucido e provato dalle notti, si interrogava sul perché delle azioni quotidiane, della riflessione buddista, delle pagine del Vangelo e di un Cristo sempre più modello di vita:

“Una tazza di caffè e una sigaretta, perché fare zazen? E da qualche parte c’è chi sta combattendo con spaventose carabine, le mani incrociate sul petto, le cinture appesantite dalle granate, in preda alla sete, alla fame, al terrore, alla pazzia.”

E provava a rispondersi mentre tra gli haiku cercava la semplicità.

“Il cielo è blu perché tu vuoi sapere perché il cielo è blu.”

Poi mille e più propositi per una vita felice: “Inoltre oggi ho deciso di non ubriacarmi più, almeno non nel mio solito modo. E’ strano che non ci abbia mai pensato prima. Ho iniziato a bere a diciottanni, ma adesso, dopo otto anni di sbronze occasionali, non lo tollero più, sia a livello fisico sia mentale. E’ stato quando ero un diciottenne che la malinconia e l’indecisione si sono impadronite per la prima volta di me, di certo esiste un legame tra l’alcool e questi stati d’animo. Le ubriacature bloccavano quella che potrei dire l’andatura del mio carattere. Quando sono sbronzo crollare spiritualmente e mentalmente diventa la cosa più facile del mondo. Allora basta. Ci vorrà del tempo, però, prima di riuscire a tener fede a questa promessa, ma devo farlo. Sembra che io abbia una costituzione che non regge l’alcool e ancor di meno l’idiozia e l’incoerenza.”

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Immaginate ora Jack, seduto al vostro tavolo con la camicia a quadrettoni, la sigaretta accesa, il bicchiere sempre vuoto, che parla della luna e del sistema solare, delle serate ancora da vivere e di quelle già vissute, non mostra strade né prospettive, vi guarda e non sorride, ma lo sentite così vicino e presente, incapace di farvi dimenticare quella solitudine malinconica che non vi lascia mai, ma capace di stare al vostro fianco e di offrirvi una spalla e ascolto e racconto. Jack è più di uno scrittore, è compagno, fratello, oltre le pagine, oltre ai romanzi.

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“Devo essere felice o morire, perché la mia condizione terrena è piena di una tristezza insostenibile e io do la colpa a Dio anziché a me stesso.”

Questa felicità, questa felicità di cui tutti parlano che cos’è, fratello Jack Kerouac? Lo immagino scuotere la testa, poi appisolarsi sul divano, un sorso di whiskey, poi a bassa voce:

“Una macchina veloce, l’orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada.”

 

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LETTERA A UN POETA

Caro,

ti scrivo anche se non ci conosciamo, ti scrivo perché ho bisogno di confidarmi a qualcuno senza essere accusato di invadenze.

Siamo pietre che quando rimbalzano sui fiumi piatti saltellano e lasciano scie tonde, poi affondano e riposano nascoste ai più in attesa che qualcuno si tuffi per raccoglierle.

Così i nostri scritti. Proiettiamo le nostre interiorità sul bianco e rischiamo la critica, il giudizio e il riso. Lo facciamo per necessità e per sentire.

Come è difficile, amico mio, qui il mondo si guarda allo specchio e non ci accarezza le guance. Siamo così narcisi che ci specchiamo nelle vetrine per sapere quello che gli altri dicono alle nostre spalle. La nostra camminata e le sporgenze dei nostri bacini.

Non esistono più i gruppi o le correnti e così ci ritroviamo fermi sulle sedie con la testa china a cercare il plauso sui social network per sentirci meno soli. Che ne è del gruppo ’63 o degli under25 tanto cari a Tondelli? Il massimo che riusciamo a fare è organizzare serate nei piccoli locali e circondarci di amici sensibili. Ma frequentarci in scrittura è un’altra cosa. Quanto sarebbe bello stare intorno al tavolo e leggere di noi. Lasciar consumare i sigari al vento per il desiderio di farci ascoltare. E farci accarezzare i capelli soltanto al mattino. Magari tu a casa hai qualcuno che ti aspetta.

Nessuno ci aiuta, è vero, ma noi non ci aiutiamo. I nostri vecchi piangeranno le nostre morti, incuranti e inconsapevoli macchine per la distruzione. Il fatto è che vogliono salvare questa nave che è affondata da tempo e lasciano indietro il futuro. Sono così legati ai modelli che tutto è giudicato secondo parametro e dove c’è il talento non si fa nulla perché questo emerga. Fuori dai binari non viaggiano i treni.

Non siamo qui a darci la colpa, ti scrivo perché mi manchi. Mi mancano le tue parole, le tue lettere, i tuoi giudizi schietti, l’affetto dato dalla rivelazione delle nostre intimità.

Sai quanto mi piacerebbe parlare dell’amore e poter dire: vorrei morire per l’incavo delle sue scapole senza sentirmi un inetto. Questo nulla che ci sovrasta oggi risplende, nascosto, nel cielo azzurro di Milano. Nemmeno le nuvole osano contraddirlo. I passi sono stanchi e gli occhi appiccicati ai cellulari. Abbiamo le tasche più consumate di sempre.

Caro amico, dove sei? Dammi notizie di te. Scrivimi, cercami. Facciamo qualcosa. Li vedi i musicisti che stringono amicizia, fanno le jam e magari non si piacciono, ma si stimano, si aiutano. Perché noi no? Perché ancora cerchiamo la soddisfazione personale soltanto? Perché?

Al posto di trascorrere le nostre giornate sulle reti per tastare il polso al paese reale e poi farci pagare i laboratori per sopravvivere, facciamo così: trascuriamo quella boria che ci vuole insegnanti, neghiamo le cattedre e apriamoci al confronto, diamoci degli appuntamenti, apriamo le nostre case e decidiamo di leggerci e guardarci.

Potrei mettermi in ginocchio per ascoltare le tue parole, o in piedi sull’attenti, o seduto con le gambe incrociate, chiudere gli occhi, magari piangere o urlare. Sorseggerei del vino.

Preferisci finire anche noi come i nostri padri, su quelle scrivanie a decidere i destini dell’umanità? Domandami cosa c’è sotto al banco, pensa ai polpastrelli consumati, alle rughe dell’espressione, alle crisi di nervi davanti ai loro figli, ai mariti, alla frustrazione nell’osservazione dei muscoli altrui.

Finiremo noi come i filosofi e ci circonderemo di giovinette?

Indossiamo pure i nostri cappotti invernali, copriamoci di ridicolo ordinando un vino pregiato nei bar milanesi. Facciamoci invitare a cena dai nostri amici più ricchi e poi raccontiamocelo. Condividiamo questa povertà, è uno spazio raro, durerà poco, troveremo il modo per cavarcela, lo sai e non saremo più quelli che siamo ora.

Prepariamoci al tuffo, alle mani che verranno a raccoglierci, facciamolo insieme, che le correnti logorano chi le contrasta e modellano a loro piacimento. Facciamoci forti, facciamolo insieme e diventiamo diga.

O amico caro,

a presto.

Marco

Foto: dalla rete, Corso e Ginsberg.

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Quando dimentico la testa tra le tue gambe è soltanto per smettere di pensare

Gli ippopotami sott’acqua si muovono leggeri, mulinano le zampe e sembrano camminare nell’aria. Così dovresti accorgerti che non parlo d’amore, ma lo attraverso.

Esplodono le pentole a pressione e tutti gli schizzi di pomodoro sui miei jeans per prepararti una pasta di merda, che tanto non te ne sei accorta preoccupata com’eri a decifrarmi le labbra. La terra trema e non c’è verso di andare insieme a un festival di quelli estivi, con le canotte larghe e lunghe fino alle ginocchia.

Viviamo a più dimensioni ed è per questo che porti gli occhiali. E in fondo al mio letto ci trovi le mutande scadute della settimana scorsa, che quando dormiamo insieme ti ripeto che voglio essere libero. E poi mi alzo la notte a pisciare e quando torno ti guardo dormire. Mi appoggio sul fianco e penso alle distanze incancellabili delle nostre origini e al fatto che è colpa delle nostre nascite se vediamo le cose in maniera diversa.

Mentre non chiudono i teatri occupati e i luoghi chiusi dai figli dell’alta borghesia, che mettono casa in affitto e dormono tutti insieme sotto le stelle delle televisioni spente. E quei musici che ho amato tanto le cantano al primo maggio con la presunzione degli arrivati. Dei prosciolti. Degli ex rivoluzionari. Dei giornalisti d’opinione e degli invecchiati sui banchi delle scuole. E di quelli come me che non hanno ancora il coraggio di raccontare storie e ammettere che nell’immediato non servono a niente.

Mentre Gondry presenta il film che attendevo con ansia, la schiuma dei giorni sulla punta del mio sesso e la rabbia contro le industrie del cinema che ci sottraggono in immaginario. E poi ammettere che quando scrivo è soltanto per scoparti a distanza e godere premendo i tasti e scoprire il respiro saltare dalla finestra e cercare riposo sui davanzali in compagnia dei passeri. Mentre a Parigi non ci sono panni stesi sui balconi e quanto mi mancano le discese ripide del centro Italia e l’odore dei faggi. Quando dimentico la testa tra le tue gambe è soltanto per smettere di pensare.

Nel corno d’Africa raccoglievo carte di caramelle per non sporcare la terra, e venivano bambini con gli arti gonfi ad insegnarmi a non aver paura dei serpenti e quattordicenni madri di due figli con i piedi duri come rocce e la dolcezza nelle cicatrici sul viso.

E al ritorno mi son scoperto così egoista da lasciare la ragazza di allora e sudare la camicia bianca del volontariato e abbandonare alle velleità la distruzione dei futuri prossimi in vista del progetto colossale della salvezza del mondo. Trovare il Cristo fuori dalle chiese e nelle strade e raggiungere il tempio poco prima dell’ora di chiusura per dar riposo alla lingua, farmi silenzio e disperdere lo sguardo sugli affreschi.

Entreremo nell’età d’oro della grazia spogliandoci del superfluo dei nostri progetti di notorietà e incastrando le reni, non avremo paura dei semafori gialli e delle metropolitane affollate, e guarderemo all’ufficio come all’esercizio quotidiano di nostra sorella pazienza, abbiamo progetti più grandi e belli delle scrivanie squadrate.

E ora portami a ballare, dimmi che così è normale, che non c’è vergogna nel tirare mattino e ha ancora senso barcollare tra i muri con l’alito striato di birra, e lanciami la lingua addosso per farmi del male, piega la schiena e appoggia il tuo sedere al muro, alza le mani che io ti sparo. Tanto poi al mattino non me lo ricordo, e mi gira la testa e incrocio indice e medio e prometto: non bevo più, non mangio più, non guardo la Tivù.

Foto: Allen Ginsberg, James Franco

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C’è il sole, fammi compagnia

Sono i piccioni i primi a salutare il blu.

Senza avvisare prende il suo posto la primavera e scivolano veloci tra le scollature sguardi d’uomini d’ogni età.

Quando abbiamo preso la via per lasciarci alle spalle le installazioni colorate delle serate mondane, l’electro beat adatto ad accompagnare lo svago e i pensieri fumosi del dopocena. Ti guardavo di profilo cercando una qualche somiglianza con le sfingi d’Egitto. Che avevi gli occhi strani e una certa inclinazione alle allitterazioni, e ripetevi sempre la stessa frase, che te ne fregavi di tutto e pensavi soltanto a te e a quanto è bello vivere il momento. Eri ubriaca, camminavi come i pulcini appena nati, senza direzione, con lo sguardo appassito e i tacchi consumati. E mentre ti aggrappavi alle mie braccia pensavo che forse avrei dovuto studiare la fisica per comprendere che non tutti i corpi s’attraggono. Interessante, certo, ma non abbastanza, e poi che significa tutto questo?

Quando fai tardi hai bisogno di ridere, e districarti nell’arzigogolo dei discorsi, e dimenticarti i cominciamenti, giungere a massime che segnerai sulla strada come apoftegmi per i camion della pulizia di quartiere. E un giorno ancora ad ignorare il tempo perché lui ignora me. Questa è la logica disumana delle relazioni, misuriamo tutto sull’orologio del cellulare e non ce ne facciamo nulla delle attese degli altri.

Il lavoro stanca, il lavoro piega, il lavoro seduce col soldo e ti rende l’utile mettendo ordine tra le tue giornate. Progetteremo un futuro quando incorniceremo sul muro i nostri contratti indeterminati.

E nelle mie relazioni non c’è coerenza che brucio le radici col dire e il fiore appassisce in fretta.

Nei versi di Majakovskij una rabbia che non posso permettermi. Vorrei indossare un’abito elegante, colorato però, e un papillon consumato e largo. Farti delle fotografie sull’erba come fanno gli adolescenti. E per un’istante evitare lo specchio e lo sguardo dall’alto.

E quanto poi sarebbe bello che mi corressi incontro con le braccia aperte. Hai presente quando ti accompagnavo al treno e mangiavamo un panino a Mcdonalds e chi se lo ricorda il sapore che m’ero perso sulle tue labbra. Tu scartavi sempre il cetriolo e mi dicevi dovremmo mangiare meglio andrà a finire male così. E poi non è proprio finita perché non è mai cominciata.

Vorrei la leggerezza delle canzoni di Marco Levi o di Dente. Ho i capelli di Devendra e lo spirito di Kerouac. E così va a finire che mi confondo.

Ed ora sono su un balcone a Lisbona, e griglio agnello e bevo del rosso, e scrivo felice e tu mi aspetti sul letto, mi urli è pronto e ti dico non ancora, vestiti e vieni fuori, c’è il sole, fammi compagnia.

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Corrimi incontro quando scendo dal treno

E poi ci sono le redazioni, gli orari frenetici delle ultime notizie e l’accavallarsi di stampe su fogli A4 e banchi spersonalizzati, le foto dei nostri figli e i cioccolatini da mettere in tasca alla moglie, pile di post it come arcobaleno.

Le luci bianche di neon asettici per ricreare la luce del giorno e dire che sì, il lavoro nobilita così tanto che non arriverà un’altra notte, non dormiremo mai più pensando ai nostri figli che a 16 anni si rasano i capelli sui lati e domandano i diritti del terzo mondo e poi una scuola che permetta loro di entrare nel giogo del lavoro.

A 18 anni viaggiare, sperimentare dolcezze infinite e deserti acidi, e poi amare e trovarsi la sera a suonare, a scambiarsi le idee perverse di mondo e la libertà di fumare sigarette lunghissime lontano dagli occhi dei grandi. Quando tutto questo sarà finito piegherete la testa al denaro e vi ritroverete gobbe in mezzo alla schiena, vittime voi degli slogan e dei megafoni.

Che a 20 anni bisogna pensare a sé e trovare passione e credo e desiderio del fare e i bisognosi verranno dopo, non pensare, incontrare, le riflessioni sugli altri valgono poi, in nascita, in morte e in maturità.

Tornare a casa con la borsa a tracolla, realizzati, schivi, comprare una pizza in cartone, magari una birra, un sushi d’asporto. La polvere del mondo fuori di casa, la porta chiude bene, doppia mandata, non verranno a interromperci questa sera. E così il beat elettronico di Deezer e i piedi nudi sul pavimento per dirci ancora una volta che anche le scarpe sono una prigione, figurarsi i muri.

Nel sesso gli sfoghi, guardavi ai due buchi come a una liberazione e mi insegnavi a fottere le regole soltanto col movimento perverso della tua bocca. Non quello cercavo, volevo le tue braccia dietro la schiena, la tua bocca capace di pronunciare parole che io neanche immagino, vederti inventare tramonti di bottoni e laghi di carta stagnola.

Verrà un giorno in cui faremo insieme l’albero di Natale, andremo a prenderlo in foresta e ti mostrerò il luogo in cui sono nato.

Non voglio parlare di quel che succede nel mondo, indossa il vestito leggero, quello che si muove col vento e corrimi incontro quando scendo dal treno.

Foto: Charles Moore

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E sistemo un cuscino al mio fianco perché prenda il tuo posto

E dire a una donna che l’ami perché viene un tempo per dare un nome alle cose.

Le frasi pensate al mattino e una bottiglia di vino per confidare alla notte che non è il tempo di uscire, legarti alla tenebra che porti dentro e ubriacare i pensieri per renderli innocui.

Scartavo fette biscottate e le trasformavo in briciole, la frustrazione della solitudine che riempie le stanze del ticchettio dell’acqua sullo stagno, il rubinetto chiuso male dei miei desideri.

Ti immagino là, nella bellezza gentile delle tue luci bianche, i tavoli in legno pesante e l’ultima moda del vestire, titoli di libri meravigliosi e la cura dei tuoi vecchi. Nelle lenti degli occhiali grandi la possibilità del fuoco, il sole di primavera brucia foglie secche, si spengono le velleità dell’inverno, il cambio generazionale per elezione e gemme nuove sull’albero grigio del seggio di Pietro.

Ho allungato le braccia, chiesto siringhe e droga per rifarmi forza, magari uno splif, i tuoi seni nudi, i tuoi denti distanti, ancora un altro sigaro in bocca per atteggiarmi da dandy, ma non ho abbastanza cura nel vestire e il culo troppo grosso.

Parigi di notte è ancora più sporca.

E ti dicevo delle città senza fiume, la litania delle finestre illuminate e le nuove campane di Notre Dame tra le vecchie campagne di Benetton, i profumi di Hermès.

Quando mi sveglio leggo la Bibbia e poi i diari di Kerouac. E nella notte penso agli amplessi, alle lontananze, agli affetti.

E sistemo un cuscino al mio fianco perché prenda il tuo posto.

L’amore non amato è necessario,

l’amore non amato è tensione verso l’alto, scala che conduce ai cirri,

spegne gli incendi grandi e lascia braci sotto la cenere.

E così come il due penetra l’infinito, il sentimento che rimane dopo il rifiuto è beatitudine.

Mi chiameranno pazzo perché voglio vivere desiderando.

E di me dirò che sono strano per scusarmi un poco, per dirmi che forse c’è un’altra via e che non è mai troppo tardi, ma un’altra via davvero non c’è. Che abbiamo fame e sete di vita, che non rinunciamo all’imprevisto, non perdiamo mai l’ultimo treno e rincorriamo gli autobus a notte fonda. Rientriamo a casa a piedi e sudiamo d’inverno. E poi per strada fermiamo le frange curate delle adolescenti, le labbra rosse delle quarantenni. Stapperò una birra e un’altra ancora.

Che fuori è tutto un classificare, la Juve è prima a 62 punti e Conte rimane anche il prossimo anno, e i blog si soffermano sulla nomenclatura: sono ancora di moda gli hypster e Repubblica è il Manifesto di quei fighetti che adesso sono radical e pure chic.

E Gramellini ha scritto un romanzo. Fai bei sogni.

E mentre ascolterai David Bowie ti firmerò lo schiena e tu non lavarti mai che tra qualche anno potrai rivenderti e ti pagheranno pure un casino.

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Il mio regno non è di questo mondo

Caffè nero sui pantaloni e un taccuino. Due tiri di spliff della notte passata e vino buono in bottiglie da 375 cl. Assaporare il gusto dei ricchi e sporcarci le guance nella solitudine delle nostre piccole stanze.

Ho cominciato a parlare con gli acari e nelle veglie notturne declamo le poesie di Dalla. Telefonami tra vent’anni o mandami un messaggio per dirmi che esisti anche lontano dagli occhi.

Mentre facciamo del nostro passo rasoio e tra le palizzate alte dei cantieri e i caschetti gialli si nasconde la dignità delle vittime del pensiero dominante.

Ci concentriamo sui master, la lingua straniera e la disponibilità del denaro per vestire di buone parole la carne nuda degli altri. Il resto è malalingua e imbarazzo. E quando accarezzi l’animale ti ricordi del soffio che ti scuote le viscere, l’anima viva del tuo respiro e il calore del pollice opponibile.

Davanti alle ingiustizie le rassicurazioni del codice della strada per i nostri rapporti superficiali. Ricordati che il lavoro è soltanto lavoro, pensa a te stesso e fai attenzione agli specchi, alle tue immagini fotocopiate appese ai muri come carta da parati. Quando perderai in novità e forze rinfrescheranno le pareti e farai la fine dei mangianastri. Il sorriso, un inchino, ma non pensare che tu per loro sia un uomo, ti pensano a scale e fanno di tutto per montarti sopra senza che tu te ne accorga. Finché muovi la coda ti lanceranno la palla, correrai a prenderla e riceverai carezze e ossa. Ma i premi invecchiano e le corse stancano, digrigna i denti e abbaia, difendi il pelo, trascura il branco. Manifestare la rabbia è la necessità che va oltre le piazze e si fa quotidiano. A culo le nostre educazioni borghesi: i pugni alzati e i gomiti appoggiati alla tavole rotonde.

Sai che ti dico, amico? Non trascurare i tuoi modi, la dignità dei tuoi punti neri e le forme eccentriche del tuo vestire, ma allenta il nodo alla cravatta, non affogare nelle adorazioni rituali degli altri. Nei buonasera e nei come va gli indizi della povertà del linguaggio.

Vorrei parlarti ora degli interventi riusciti, delle piazze in festa e della mia fiducia nell’essere umano. Vorrei parlarti di Gesù Cristo senza il peso di Tolstoj. Ma non ci riesco. E solo tu puoi aiutarmi. Che non ho braccia per le mie notti insonni e trovo gioia nel divenire del sole e nei venti ghiaccio di fine febbraio. E il tuo vestito a pois bianchi è soltanto una mia invenzione che sei così impegnata nelle disabilità degli altri che finisci per dimenticarti la mia.

Quando credo che non esista un amore universale se non concretizzi in carezze, parole, attenzioni da niente. Amare il proprio sangue è facile, l’albero genealogico delle tue amiche e le tue radici di nascita, poi la saggezza stanca degli adulti che ti circondano. Ma è nel diverso che scorgo redenzione di noi e conoscenza. Io per te straniero, io vagabondo, io battuto, io beato.

E poi tu e quel pensiero che mi fa nebbia intorno, come in via Paolo Sarpi, come in corso di Porta Romana, come in Boulevard Saint Martin, tu e ancora tu.

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