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La luna dell’altro ieri

Se ci fossimo detti addio tutto questo avrebbe avuto forse senso. Invece no, non lo abbiamo fatto, l’ultima volta è stato soltanto prepararsi a un arrivederci che non è mai avvenuto. Lo hai visto il cielo di ieri? La luna dell’altro ieri? All’ora del tramonto vengono le luci calde ad accarezzarci le spalle, consolazioni alle ore trascorse al lavoro o nell’inganno di quel che non siamo. Io che ti cerco tra le foto di Instagram tu che saltuariamente mi metti un like, ma non ci pensi che sono cose mie, che sono io, è la tua routine. Io invece sono oltre le foto, oltre gli status, oltre tutta quella finzione che è la rete dei social. A manifestare le nostre debolezze, tra malinconia, tatuaggi arte e umorismo, siamo diventati bravissimi. Vorrei sedere ancora di fronte a te, viso a viso, occhi e occhi e mille fughe sulle pareti, sulla superficie del tavolo, rifugiarsi nei bicchieri e non sapere più cosa dirsi, desiderare soltanto l’abbraccio e il contatto. Fare del silenzio uno stare e respirare grazia e grazia soltanto finché mi chiedi una definizione di quel che siamo e io ti accarezzo le dita e mica parlo, non parlo più.

Foto: © Léa HabourdinLea-Habourdin-04

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La nostra fortuna

Mi scrivi ho camminato a lungo fino a non averne più, chilometri e chilometri in compagnia dei campi di grano che fanno dello sguardo oro e pensieri di luce e milioni e miliardi di pensieri, scie luminose di mosche e ragnetti, com’è tutto confuso qui, come posso isolare un’idea dalle altre, quel che mi rimane è il corpo e va sfiancato, perché finalmente io dorma e mi senta appagata del giorno, contenta dell’essere arrivata sana e salva e farmi accarezzare dal vento e attendere la notte come un pasto caldo. Dimenticarsi del tempo è cosa semplice, dici, e confondere i giorni, i numeri e tutte le vite passate. In tutto quell’esercizio di gambe e di fronte sudata c’è la tua sfida al buio, io cerco il sole, dici, fatico a comprenderlo lo sai, io che trascorro ore persiane chiuse e luci artificiali, camicie aperte fino al terzo bottone, cuscini sudati e citazioni di questo o di quell’altro per cercare di dar forma alle intuizioni della sensibilità. E mentre intorno tutto si muove, tutti si muovono, tra Bali e il west, gambe nude e cannucce nel cocco, alzo le mani per abbracciare la vita del qui e dell’adesso, non preoccupandomi del male, delle preoccupazioni future dell’inevitabile dolore dei giorni. E mentre tu, lassù o chissà dove, sei estate eterna, spiga fiorita in pane, io sono autunno di foglie, lacrime calde a bagnare il terreno, dei fuochi oltre la collina l’odore di cenere e poi il vento a confondere i capelli, il gusto aspro della vite, il dolce dei fichi e le mani sporche, l’anima greve che prova a sollevarsi e questo corpo di piedi che affondano nell’erba. Tutti i legami che ho costruito, il sangue che mi confonde al padre, alla madre, il loro dolore, il mio, le loro gioie, le mie e le difficoltà a trovare oasi. Non abbiamo scelta, non c’è cuore capace di solitudine, non c’è silenzio che prima o poi non venga interrotto. Nell’ego spropositato delle strade di Milano, di quel capelli nuovi di parrucchiere, in quelle creme che colorano pelli raggrinzite, negli editoriali stanchi che provocano al vuoto, nell’invito al selfie e al libro, l’imbonitore parole di zucchero, accuse e camicie stirate, quel che rimane sui quotidiani dell’uomo delle città. Nelle tue braccia lunghe, nel nostro muoverci impacciato e bocche sporche di vino, le preghiere d’essere ascoltati, compresi. Ci hanno fatto troppo male, mi dici, questa è stata la nostra fortuna. Ci faremo del bene ti dico, mi baci gli occhi, così vedi meglio, dici, mi chiudi la bocca, impara a restare, ora, qui, e nel silenzio siamo tutto un respiro e nel costato che fa su e giù ora sappiamo che siamo vivi, io e te.

Foto: © Claude Rouyer

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Viva le foto su Instagram!

Ora che le mura disperdono il calore del giorno, dalla finestra frinire di irrigatori automatici, un vento leggero che muove le foglie, sul mio letto sudore e seme. Il cuscino e le pieghe sul viso, mi guardo allo specchio, chiudo gli occhi e non sono più, li apro e sono di nuovo. Chissà domani, chissà tra un anno, chissà tra dieci, che ne sarà del mio viso? Ci sarà una mano conosciuta capace di trasformarsi in carezza? E io esisterò ancora? La domanda sciocca che presuppone la fine, i piani sul futuro per sconfiggere la morte. Pensa all’oggi, dici, tu che al ‘de Medici proprio non assomigli. A che serve, spiegarti il perché il mio stomaco si contorce, perché i pensieri col buio si fanno molesti. Nell’ora in cui le zanzare scompaiono e i pipistrelli riposano guardandoci alla rovescia siamo stravolti anche noi, d’ansie, di desideri e del pensiero che anche quest’anno la nostra posta sarà avida di cartoline, nessuno più ci manderà un saluto scritto a penna e sullo sfondo un tramonto, un mare blu, tette tonde e sode, culetti depilati, muscoli e olio, grand hotel, madonne e monumenti storici. E le persone, anche le persone, non sono più quelle di ieri, sono cambiate loro o sei cambiato tu? Seghe! Meglio pensare alla mancanza di souvenir, al mio odio per i poster dei rotocalchi. Che appenderò al muro? Mi chiedi. Tieni lontano i designer dalle pareti della tua stanza, rispondo io, ora che le foto riposano nei cellulari e sulle mura regna il bianco che pulisce lo sguardo quando questo s’innalza, noi appoggiamo il peso sulle spalle per lucidare gli occhi tra i pixel, per essere sempre altrove, mai qui, mai ora. Vorrei dirti una cosa sciocca, tipo che il formichiere non ha i denti, soltanto lingua, chissà che succhiotti! Divento greve, lo vedi? Vorrei dirti una cosa saggia, tipo che il numero trentasei è chiamato Mondo dai Greci perché è la somma dei primi quattro numeri pari e dei primi quattro dispari, così abbiamo tutto il tempo per sentirci inadatti, poi viene l’intero, la coscienza del tutto, basta saper aspettare. Trentasei e sei Mondo, mica uno qualsiasi. Il tuo profumo, invece, non lo ricordo. Se fossi qui saliremmo sul tetto a fumare, a guardare i balconi e le finestre degli altri a chiederci quali altre vite potremmo vivere, come in quella casa in corso di Porta Romana, come quando Andrea tornava dal lavoro, due Moretti ghiacciate e una sigaretta, a dirci che se vuoi andare a Roma mica ci vai camminando all’indietro quando hanno inventato il Frecciarossa e pure Italo per nobile concorrenza, che la tecnologia è importante, fanculo le cartoline, viva le foto su Instagram. Ricordi. Il ventilatore qui, non si concede tregua, gira, gira, gira e non si lamenta, io invece sono pausa e timore, incapace d’attesa sono l’enorme mio sfogo, per essere qui e volere l’altrove, per l’impossibilità di fare del finito infinito. Di te.

Foto: © Philip-Lorca diCorcia

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Al concerto di Jovanotti ci entro senza biglietto

Ho trent’anni e sono iscritto a Facebook. Tra i tanti “mi piace” anni fa devo aver cliccato sulla pagina ufficiale di Jovanotti e ora ricevo tutti i suoi bla bla bla di video e annunci e recensioni a libri che l’hanno fatto godere di brutto, tipo quelli di Aldo Nove che pure a me piacciono un casino, pure le foto con Roberto Saviano a New York. È un uomo simpatico, quel Jovanotti, uno che wow, ottimismo a go go, power flower e cose belle, uno che io dico, vorrei essere lui perché invece io sto imparanoiato la maggior parte del tempo e mi prendo male spesso e, dice chi mi conosce, mi porto pure sfiga da solo. Per un certo periodo mi sono anche vestito soltanto di nero. Beh, Jova suona a Milano, allo stadio di San Siro, promette uno show wow wow wow con uno schermone a forma di fulmine che proietterà chissà quali immagini psichedelia e minimal di chenesoio provenienza. Poi un palco enorme e passerelle dappertutto che io già me lo vedo correre e saltare di qui e di là con quelle sue gambe lunghe e braccia lunghe tutto colorato tatuato com’è, modaiolo quanto basta, elegante e sportivo assieme, quell’inumano Jovanotti, sempre un passo avanti, anzi, un salto avanti. Su quella pagina ufficiale prepara i fan al supershow e annuncia una dopo l’altra le sue idee e le anticipazioni del live show. Io lo guardo, mi lascio ipnotizzare da tutti quei colori felici e dalla sua “s” che suona sempre perfetta, io al suo concerto ci voglio andare.

I biglietti sono finiti ma chisseneimporta. Quel giorno là mi metto in fila davanti ai cancelli tra ragazzine un sacco carine e mamme carine e mamme un po’ meno carine e ragazzini con magliette carine e bandane inguardabili e scritte sulle braccia e tatuaggi dappertutto. Poi bambini in spalla ai papà un passo indietro alle mamme che fanno comunella e ancora bla bla bla, che siamo tutti pronti per la festa, c’è un sole che abbaglia, si suda, io in fila penso che non ho ancora il biglietto ma chisseneimporta che prima o poi lo troverò per un prezzo decente o qualcuno addirittura me lo regalerà perché l’atmosfera e woa e tutti ci stanno dentro un casino e cantano e bevono Red Bull e Coca Cola.

I minuti passano, poi le ore, il caldo è insopportabile, nessuno mi regala il biglietto. La gente sfila davanti a me ed entra nel grande stadio. Io da fuori sento già le urla e i cori e gli applausi e le voci che scandiscono il nome “Lorenzo” e lo ripetono forte: “LORENZO LORENZO LORENZO.”

Devo entrare anche io costi quello che costi pure se non ho i soldi che il mio lavoro è precario e la generazione è quello che è e bla bla bla ancora bla bla bla. Mi metto in fila, arrivo davanti a un agente di polizia che mi guarda e vede che non ho lo zaino e non ho bottiglie di vetro e neppure la faccia da violento che sono pure bianco caucasico e mi lascia andare e così arrivo dal tipo che controlla i biglietti che mi guarda e io faccio finta di nulla e cammino e lui mi lascia passare ma poco più avanti un altro controllore mi domanda il biglietto e io gli dico che l’ho perso, poi che me l’hanno rubato, poi che porca troia fa troppo caldo e lui non cambia mai espressione, rimane serio e mi allontana, dice di tornare indietro, che senza biglietto non si entra.

E io torno indietro e mentre tutti sono contenti io mi guardo intorno e comincio a odiare i tatuaggi a colori e i cori e le madri che parlano con le bambine e i padri rassegnati che accompagnano queste old adolescenti in post rivoluzione ormonale.

Mi volto, prendo la rincorsa e corro verso l’entrata, supero i poliziotti, supero il primo controllore, supero il secondo, corro verso la scalinata che porta allo stadio, corro e sono felice, intravedo il fulminone acceso che è tutto luci fosforescenti. Mi sento tirare la maglietta, mi hanno preso, bastardi, sono per terra, sono in quattro, uno mi tiene fermi i polsi quell’altro ha un’intero braccio intorno al mio collo: “Dove volevi andare?” “Al concerto di Jovanotti.” Rispondo io, come se la cosa non fosse ovvia. “Senza biglietto non puoi, amico.” “Ma io il biglietto ce l’ho,” Dico io. E quelli rispondono “Ah, sì.” e cominciano a cercarmelo addosso e non lo trovano e continuano a cercarlo e mi toccano dappertutto mentre le mamme chiudono gli occhi alle bambine e le adolescenti vociano e lo stadio non smette di inneggiare.

Mi sollevano a forza i poliziotti e mi portano in un angolo. “Mi volete picchiare?” Chiedo io. Quelli si mettono a ridere, dicono che guardo troppa televisione, che fa troppo caldo, che sono padri di famiglia, che lo capiscono che voglio andare a vedere il concertone, ma che senza biglietto non posso. Uno propone pure di lasciarmi andare perché pure lui una volta è entrato a un concerto senza pagare, gli altri gli dicono che è scemo, che è colpa di quelli come lui se il mondo va male. Io sono seduto a terra con tutti questi uomini intorno, la gente passa e mi guarda, Giulia, che è stata mia compagna d’università, che passa lì vicino col suo ragazzo mano nella mano, mi riconosce, mi chiama per nome, io la guardo, i poliziotti la guardano. Giulia dice: “Ma che ti hanno arrestato?” Io faccio sì con la testa. “Spaccio?” Io faccio sì con la testa. I poliziotti ridono. Giulia dice: “Sei un grande.” e mi manda un bacio. I poliziotti ridono. Lei dice: “Non fategli del male, oggi è una festa e lui è bellissimo così.” I poliziotti le fanno segno di andarsene. Lei se ne va, mi guarda, io la guardo, lei mi guarda e il suo ragazzo la trascina verso l’entrata.

“Carina, eh”. Dice un poliziotto. Io alzo le spalle.

“Beh, che vogliamo fare?” Dice un altro.

Il concerto è cominciato, il cielo è buio, Lorenzo canta, il fulminone inonda il pubblico di luci psichedeliche, la vita è così bella questa sera.

Mi accompagnano fuori dai cancelli e mentre mi accompagnano dei loro colleghi stanno correndo verso chissà dove e fanno loro cenno di seguirli, c’è qualcuno da arrestare, dicono, contraffazione e spaccio e c’è pure un ubriaco che mena le mani, diamoci sotto, questa volta entriamo duri. I ragazzi stringono i denti, Lorenzo Jovanotti, proprio lui, canta e la gente è felice, io sono ormai fuori dal cancello, i poliziotti battono un tempo veloce nei loro stivali neri, qualcuno urla e poi piange, c’è sangue sul cemento. Fortuna che sono bianco, io. Fortuna che sono fortunato, fortuna che non sono nemmeno ubriaco.

Con la testa appoggiata alle sbarre del cancello non riesco a pensare a niente. Guardo quel qualcuno che soffre e io non ci posso fare niente, sento quei qualcuno che sono felici e io non ci posso fare niente.

“Dietro ai cancelli non c’è vita. E non c’è gioia e non c’è nemmeno tristezza. Soltanto malinconia”, scrivo su Whatsupp, lo invio a lei e tanto so che non risponderà perché sono incomprensibile.

Poi raggiungo casa mentre rimbomba ovunque la voce di Lorenzo io vado a letto, mi fischiano le orecchie, mi gira la testa.

Alle cinque di notte ricevo un messaggio su Facebook, mi sveglio, è Giulia che scrive: “Ma ti hanno arrestato poi? Appena esci di prigione usciamo insieme. Promesso?”

Rispondo sì.

Foto: dalla rete.

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Bellissima davvero

La macchina fotografica a tracolla, con l’eskimo verde e i capelli biondi rasati sui lati trascorri il pomeriggio tra cieli bianchi e fabbriche, su questi campi feriti a verga, a far domande agli operai in pausa, pance gonfie di birra e mani sporche di grasso. Non c’è traccia di contadini là dove i bambini avevano le labbra umide d’uva, tutte quelle madri in camice che trovano in un gesto meccanico e ripetitivo il senso di una vita una volta immaginata e ora vissuta così, nel quotidiano svegliarsi all’alba, nel caffè sul fuoco e nei ritorni a casa col figlio che corre loro incontro, mani intorno al collo, col cane che appoggia la testa sulle loro gambe e si addormenta.

Non scatti tu, non ancora, chiedi loro come si fa a decidere di scendere dalla giostra dei divertimenti e dei viaggi, delle emozioni di notti trascorse a muovere il bacino tra le luci al neon, come si fa, signore mie, madri del mondo? C’è Giulia che è albanese, Giulia che ha i capelli neri lunghissimi, che dice in un italiano povero di accenti che quando fai un bambino e sei famiglia ti decentri, dice proprio così, che ti decentri e non vivi più per te. Le chiedi se è felice, risponde di sì, ti domandi se lei conosce davvero il senso di quella parola, non glielo chiedi. Poi decidi di fotografarla, lei non sorride, tiene le mani lungo i fianchi, ti chiede se hai finito che è ora di tornare al lavoro. Tu dici sì, grazie e lo ripeti quel grazie. Lei se ne va. Ti guardi intorno, gli occhi di tutte le altre, decidi di fotografare anche loro per non fare torto a nessuno, tutte dalla stessa distanza, per non fare preferenze, non ce n’è una che accenna una posa, qualcuna sorride, altre guardano in terra. Fai in fretta, che è ora, il lavoro le chiama e loro rispondono in fila indiana.

Te ne torni a casa quando il cielo si colora di rosa prima del buio, alla doccia il compito di far nuovo il corpo; ti abbassi le mutandine, ti guardi il culo allo specchio e accendi l’acqua, vai di vapore, il vetro tradisce la sua trasparenza. In radio una canzone che ti si ferma sulle labbra, così muovi la schiena che tanto nessuno ti guarda, muovi le mani e ti stringi le spalle, poi il seno, muovi le mani e ne desideri altre, magari sincere questa volta. Sgocciolano i tuoi capelli sul pavimento, il profumo dolce del bagnoschiuma e la lingua amara a domandarsi il perché di quel tuo disperato tentativo di capire gli altri. Non sei come loro tu, non finirai mai in fabbrica tu, i tuoi genitori ti hanno fatta studiare, non vogliono nemmeno che ti stanchi troppo, non ti domandano nemmeno che fai perché sanno che tu al momento opportuno glielo dirai e li convincerai della bontà dei tuoi giorni.

Un asciugamano sui capelli, crema sulle cosce, crema sulla pancia, crema sul seno, sulle spalle, sulla schiena, qualche pagina di un libro, un’occhiata ai tumblr preferiti, poi riguardarsi le foto del pomeriggio sullo schermo grande del Mac, cosa ti distingue da quelle donne in camice? Certo che sono bellissime, davvero bellissime, chissà se lo sanno, chissà se c’è qualcuno che glielo dice. A te lo dicono spesso, a te che poserai per le fotografie di un amico, a te che non hai timore a svelare il tuo corpo, a te che scegli la musica da far ballare ai tuoi coetanei nelle notti milanesi.

Mica te lo senti di dirti migliore, mica te la sente di dirti perfetta, eppure lo pensi, così domandi ancora un perché, il perché di tutto quel vuoto che ti sorprende nel mezzo delle notti, della tua incapacità di stare seduta a una tavola senza fare nulla, di dormire senza tranquillanti. Un messaggio, il cellulare vibra, poi suona, tu non rispondi. Ti vesti, una canotta larga, nessun reggiseno, i soliti pantaloni skinny neri come le tue unghie. Prendi un trolley e ci infili qualche mutandina, dei tacchi e un body. Fuori è buio e freddo, una giacca di pelle e una felpa col cappuccio, scarpe da ginnastica. L’amico fotografo ti accoglie nella sua casa tutta bianca, un caffè, la birra no che ti fa venir sonno. Lui prende la macchina fotografica, tu ti spoglia, ti cambia, tacchi e mutande, il trucco pesante, lui ti guarda, inquadra, ti dice di non sorridere, ti chiede di muoversi lenta, così pieghi la schiena, alzi le mani sopra la testa, gli occhi risplendono tra i flash. E si fa tardi, quasi mattina. Le sveglie suonano, qualcuno si sveglia, un bambino bacia le guance a mamma, mamma si lava la faccia. Tu appari su Instagram, bellissima, così, proprio bellissima, bellissima davvero.

Foto: © Giulia Bersani

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Infinitamente da me

Ormai magra da sentirsi pronta, Giulia si guarda un’altra volta allo specchio, sposta il peso sulle spalle perché la pelle si ritiri mostrando le costole; riesce a contarle, arriva fino a tre, poi il body verde fosforescente che le fascia due mammelle appena accennate, i capezzoli si sporgono un poco puntellando il tessuto. Ora lo specchio riflette il profilo, non ha mai avuto il culo così piccolo e sodo, i leggings in ecopelle non fanno altro che sottolinearlo. Il trucco è pesante, righe nere sopra e sotto gli occhi, raccoglie i lunghi capelli in un’unica coda. Le scarpe hanno la suola alta, completa il tutto una specie di kway col cappuccio giallo fosforescente.

Il telefono squilla, ciao ciao allo specchio, Giulia raggiunge l’amica Luna, due baci sulle guance, come stai? sei una favola, amo, anche tu. Poi un righino bianco, magari due, un po’ di Ghb: addio freni, addio inibizioni e stronzate da scolarette. Addio madre e addio padre, addio ansia e psicofarmaci, addio pensieri di domani stanchi, addio cielo bianco milanese e benvenuta notte e benvenuta dimenticanza.

Col freno di un taxi bianco, i profumi dolci, le gambe magre, labbra che risplendono e collane lunghe fino all’ombelico. Il rosso dei semafori negli occhi di Giulia proiettati fuori dal finestrino. La consoleranno due spalle nude, un petto depilato? Adrenalina sotto la sua lingua. Dai amo, siamo arrivate, ti apro la portiera, stai attenta alle pozzanghere. Luna ha una borsa piccola e fucsia, tira la cerniera, le cinquanta euro di papà possono bastare, il taxista non parla, decine d’euro di resto.

Là fuori tutti vestiti di nero, il giallo fosforescente del cappuccio illumina gli occhi dei ventenni, saltano la coda Giulia e Luna, conoscono tutti loro, il culo di Giulia poi ha un discreto successo, Luna la trascina avanti tenendola per mano, inciampa su tacchi troppo alti, sulle gambe grasse; le sue tette gonfie che si affacciano da un vestitino troppo stretto salutano i buttafuori, quelli rispondono un buonasera con accento straniero. E ancora baci sulle guance per le nuove arrivate, rituale lunghissimo. Ma quanto tempo, sei così dimagrita, amo, sei bellissima. Frasi sussurrate alle orecchie, la techno corrompe i timpani. Non ti sento, amo, parla più forte amo, bevi qualcosa amo.

Gli occhi di Giulia semichiusi per ripararsi dai neon, le braccia alzate a cercare un ritmo, il cappuccio sulla testa, sempre più fosforescente, si muove Giulia, si muove e non guarda da nessuna parte, svela le costole, tutte e tre, svela i capezzoli, tutti e due, Luna la guarda, goffa, appoggiata al bancone, col suo profumo dolce, con le sue labbra che grondano rossetto. Non più amo, né come stai, erano due e ora sono sole, la serata comincia, la musica spacca le tempie. Luna succhia dalla cannuccia un Gin Tonic, un ragazzo le si avvicina chiedendole se è italiana. Luna alza le spalle, succhia ancora dalla cannuccia cercando qualche parola per rispondere a un’ovvietà.

Giulia si muove a tempo nel mezzo del locale, le luci la cercano, lei ha gli occhi chiusi, i ragazzi la circondano, lei ha gli occhi ancora chiusi, le costole, i capezzoli sempre in mostra. Qualcuno la avvicina, le appoggia il bacino tra le cosce, lei apre gli occhi, avara d’espressioni, fa un passo indietro e ricomincia a ballare come se niente fosse successo.

Le labbra di Luna hanno perso il rossetto, contro il bancone lingue nascoste dentro a due bocche così vicine. Portami in bagno, dice, anzi portami a casa. Ci sono i miei amici, siamo appena arrivati. Portami in macchina, dice lei, ce l’hai la macchina? Lui la macchina ce l’ha e ce la accompagna.

Giulia, oh, Giulia, tenera Giulia, piccola Giulia. Le tue altalene e il parco, il cane Roostie che ti leccava le mani. Eri riserva nella squadra di pallavolo, arrivavi sempre per prima agli allenamenti, ti inventavi soprannomi per tutti, che ti è preso Giulia, che ti sei messa a leggere, Giulia? Perché non giochi più? Tua madre è preoccupata, Giulia, dice che non le parli più. E mangia, Giulia, non chiuderti in camera, non è vero che basta la musica. 

Ha i capelli rasati Ivan, avvicina Giulia, mantiene una distanza di trenta centimetri, è così magro Ivan, è così nero, due gambe come trespoli, le spalle strette, si muove così bene Ivan, dieci centimetri, Giulia ne avverte la presenza, apre gli occhi, lo fissa, regala un mezzo sorriso, Ivan fa finta di niente. Ballano vicini, giallo fosforescente e nero, cinque centimetri, due, ora si sfiorano Ivan e Giulia.

Una fotografia incornicia i loro vent’anni, tutto in un flash, li pubblicheranno domani su Facebook, questi anni bellissimi.

Luna ha terminato il su e già sopra un sedile poco profumato, si fa portare a casa, chi se ne importa di Giulia, il suo l’ha avuto, anche troppo in fretta, ma a che serve aspettare, a che serve annoiarsi, un’altra puntata di Fargo la aspetta, a casa c’è tutto. Fuori fa freddo.

Giulia e Ivan raggiungono il bagno, sempre ballando, naso contro naso, polvere bianca sul lavandino. Leccami le dita, ti voglio. Non ora, non mi va, non c’è problema. I neon li aspettano, torna a brillare il cappuccio. Non riesco più a chiudere gli occhi, nemmeno io, guardami ora, domani non ti ricorderai di me. Baciami adesso, domani non ti ricorderai di me.

Giulia, perché ora vuoi tutto dimenticare? Che te ne fai di tutto quel malessere? Sii felice, Giulia, cosa ti frena? Ho solo vent’anni, continui a rispondere.

Ivan la stringe, tornano a sfiorarsi. Tutti intorno li guardano, qualcuno li invidia.

E tu Ivan, dove l’hai lasciata la tua ragazza? Al paese, Ivan, se ti vergogni di lei non la ami. Cosa cerchi, amico? Ti sei scoperto bellissimo e ora non la sai gestire questa tua bellezza? Cosa ci trovi in Giulia, cosa manca a Caterina? 

Escono insieme dal locale Ivan e Giulia, non salutano nessuno, si abbracciano, si accarezzano, si baciano. Vieni a casa mia, non posso, voglio che ti ricordi di me, non posso. Perché? Mi farai male. Non puoi saperlo, lo so, siamo nati per farci del male, poi arriva la morte. Ci assomigliamo troppo, appunto, non ti farei mai del male, me lo farai invece, vieni a casa mia.

Giulia ci pensa. Ivan la stringe da dietro, camminano e inciampano spesso. Ci facciamo così sintetici che poi se vuoi dimentichi tutto, e se decidi di non dimenticare puoi stare da me finché vuoi, infinitamente da me. Ne hai? Ne ho. Tanta? Tantissima. Voglio suonare per te. Se tu suoni per me io ballo per te. Lo fai davvero? Tanto poi me lo dimentico. Perché vuoi suonare per me? Non suono mai per nessuno. Tutti suonano per qualcuno. Io perché sto male. Sto male anch’io. Possiamo stare male insieme. Non è la morte questa? Io dico vita. Che scemo. Chi? Tu. Io? Che discorso del cazzo. Io? Tu. Perché parli ancora? Suona. Ok. Tu balli? Sì. Per me? Per te.

Foto: © Vanessa Winship

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Per scongelare il Polo sud

Si divertiva a staccare le stalattiti di ghiaccio che si formavano sulle grondaie.

Abitavano al quinto piano ed era semplice allungare il braccio e ruotare il polso, sentire il freddo sul palmo della mano, stringere il pugno, riportare il braccio dentro alla finestra e cominciare a leccare il bastoncino trasparente come si fa coi ghiaccioli perché in fondo un ghiacciolo è solo che non sa di niente e non ha il bastoncino per cui bisogna consumarlo in fretta per evitare che sgoccioli dappertutto. A Valentina piaceva tenere in bocca quella specie di carota ghiacciata e stringerla coi denti per liberare le mani e potersi sfilare il maglione, poi la t shirt bianca di American Apparel e infine le mutandine. Era eccitata nell’accorgersi delle prime gocce d’acqua che le scendevano sul collo, sul seno, fino all’areola, per tracciare il contorno del capezzolo e poi striarle la pancia bianca, tra quei suoi tre nei sporgenti, per scomparire nell’ombelico.

“Se migliaia di uomini si dessero un appuntamento al Polo sud e si spogliassero contemporaneamente con il loro calore farebbero sciogliere l’intero continente. È figo, non credi? Il problema sarebbe che poi questi uomini nudi, prima di avere il tempo di rivestirsi e scongiurare così il congelamento finirebbero morti affogati perché il ghiaccio sul quale camminavano non esisterebbe più.”

Marco ci pensò ancora un po’, poi aggiunse: “Sarebbe un bel sacrificio, è vero, ma un modo originale di cambiare il mondo. Darebbero lavoro a un sacco di cartografi per ridisegnare la mappa del pianeta e poi, poi insomma, tutto si modificherebbe di conseguenza? Se un continente intero scomparisse all’improvviso.” Fece silenzio e guardò il corpo di Valentina bagnato da decine di gocce che facevano a gara per raggiungerle l’incavo delle cosce.

“Non migliaia, forse milioni, sì, milioni di uomini ci vorrebbero. Forse tutti gli uomini della terra, là, nudi, uno sopra l’altro, a correre, ad accoppiarsi, ad alitarsi addosso, non lo so, così, col sacrificio di milioni di uomini cambiare il mondo è possibile. Perché nessuno ci ha mai pensato, eh?” Faceva girare il mappamondo e continuava a ripetere la parola “milioni”.

Valentina mise in bocca quel che rimaneva della stalattite, la frantumò coi denti, poi succhiò il ghiaccio e infine ingoiò. “Non mi diverto più come quando mi guardavi.” Marco twittò “milioni e milioni di uomini nudi al Polo Sud”, poi la guardò e le disse: “Non siamo più dei ragazzini.” “Ti eccitava moltissimo.” Riprese lei. “Pensi sempre al sesso.” La rimproverò lui. “Forse bisognerebbe fare una gara per scegliere gli esseri più meritevoli a rimanere sulla terra e lasciarne due per continente. Dovranno essere giovani, fertili e preparati ad ogni evenienza. Dovranno…”

“Stai dicendo soltanto cazzate fasciste, elitarie, stupide stupide stupide. Queste sono gocce che si sciolgono col calore del corpo, là si parla di Iceberg. È impossibile, Marco.” Fece una pausa. “Trovi ancora belle le mie tette?” Lo disse toccandosele, lo disse sperandoci.

“Anzi, no! Una coppia giovane e una coppia vecchia, perché i giovani siano educati dai vecchi, perché possano osservare una morte per cause naturali, perché possano prendersi del tempo per loro e lasciare i figli ai nonni.” Marco sorrise compiaciuto, prese un foglio bianco e si mise seduto alla scrivania a disegnare qualcosa che assomigliava al contorno dell’Europa.

Lei gli saltò in braccio e lo baciò sulle labbra, lui la scostò, lei cadde per terra, nuda allargò le braccia e fece finta di nuotare sul pavimento. “In questi giorni partono aerei e aerei che portano tutti al caldo, perché non ci facciamo un viaggio anche noi?”

Marco twittò: “La mia ragazza è sul pavimento e muove le braccia come un gabbiano. La mia ragazza è un gabbiano.” “Sei un gabbiano tu.” Le disse.

Lei annuì e continuò il suo volo. “Dovremmo drogarci di meno, io sono stufa dell’odore del tuo sangue. Dei tuoi discorsi mistici del cazzo. Non mi piace più! Mi piace volare, sì, così, volare.” Continuava a muovere quelle braccia su e giù e a ogni movimento piccoli ammassi di polvere si sollevavano nell’aria. “Come Bastian, il fortunadrago. Lo sai perché penso al sesso? Perché sono Bastian e se mi cavalchi ti porto nel mondo che non c’è!” Scoppiò a ridere, rise forte, così forte che lui smise di guardare i messaggi dei suoi amici sul gruppo di Whatsupp e disse: “Che cazzo ridi?”

Lei continuava, lui batté sui tasti del cellulare: “Sto pensando all’estinzione del genere umano, non credo di uscire. La mia ragazza ride.”

Lei smise all’improvviso di volare, portò le ginocchia al petto e le strinse forte, si fece seria, poi iniziò ad ansimare, a singhiozzare. Le lacrime le bagnavano le guance, la bocca, le ginocchia, correvano fino alle dita dei piedi, erano calde.

Marco si alzò dalla sedia: “Piangere dovrebbero! Piangere! Brava cazzo, brava! Piangere, piangere, piangere! Immaginateli là al Polo, tutti nudi, e tristi. Prendiamo gli ultimi, i depressi, le persone sole, i carcerati, tutti quelli che non hanno motivi di felicità e portiamoli là, tutti insieme! Brava, cazzo, brava!” Si avvicinò a Valentina, la strinse forte, lei si ribellò, poi lasciò che lui la stingesse, pianse ancora più forte, poi smise, si aggrappò ai capelli di lui.

“No! Ho detto una cazzata!” Sussurrò sulla spalla di lei, lasciò l’abbraccio. Si sedette per terra. “Se mettiamo insieme tutti i tristi del mondo va a finire che si consoleranno, che si abbracceranno, che si sentiranno meno soli e quindi più felici! No, prendiamo i più felici, separiamo le madri dai neonati, gli innamorati dal loro amore, gli uomini in carriera dal loro lavoro, i cinofili dai loro cani… così, piangeranno per tutti, per quelli già disgraziati, per noi che ce ne stiamo qui al riparo delle nostre mura a inventare il mondo nuovo, che nascerà dalla felicità, dal sacrificio della fe-li-ci-tà! Vieni qui.”

Valentina lo guardò, lui aveva gli occhi rossi e gonfi. Non riuscì a dire nulla, non riuscì ad avvicinarsi, lui si piegò sul lato e si addormentò. Fu allora che lei fece forza sui polpacci e si mise in piedi, raccolse la maglietta, il maglione, li indossò, si infilò anche le mutandine. Salì sul letto, guardò fuori dalla finestra. Grandi gocce cadevano dalle stalattiti e sbattevano contro l’asfalto. Faceva freddo fuori.

Valentina fissò lui, il suo naso rosso, i capelli sporchi. Sul pavimento i cartoni di sei pizze sei, erano in quella camera da due giorni, la Coca-Cola era rimasta aperta, lui l’avrebbe trovata sgasata al risveglio, si sarebbe arrabbiato. Valentina cercò il tappo, la chiuse con forza. “Dovrei andarmene da qui, dovrei lasciarlo solo.” Ma aveva la passione per i ghiacciai, provò a piangergli addosso, provò a scaldarlo. Al risveglio lui trovò soltanto una Coca-Cola sgasata e il profumo di lei sul petto. Del Polo Sud sembrò non importargli più nulla.

Foto: dalla rete.

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I pressapoco della mia lontananza

E poi il vino e pensieri deformi, i tuoi vent’anni e i pressapoco della mia lontananza. Tra studi classici e maledizioni col dito medio in fotografia, poi bluse a fiori, caratteri sparsi sul tavolo del nostro ieri. Tensione verso l’alto e bacino orizzontale sempre in movimento, al riparo dei cuori candidi, delle tende nomadi dei raccoglitori di gioventù. Con gli ideali per cappello, i pantaloni che si arrendono alla presunzione del passo. Andremo avanti fin quando ci fermeranno, faremo fatica a distinguere tra il noi e il loro, concentrati come siamo al presente. Tutto intorno movimenti visibili e invisibili, tettonica zolle e la velocità supersonica delle navicelle spaziali, cantieri interminabili intorno a piazza ventiquattro maggio. Ci addestriamo alla guerra e diventiamo capaci di lanciare soltanto lo sguardo, le nostre visioni mistiche sui canali di stato, quei trecentossessanta gradi di speranze che fanno i tuoi piedi il sabato sera. Faranno fatica a comprenderci, noi fuori dai televisiori, fuori dai bar e lontano dalle piazze, a cercare gli angoli, gli sguardi nascosti e privilegiati sull’oggi. Lingue su lingue penderanno sui nostri soffitti, avremo spalle forti, guance trasparenti. Saremo belli, finalmente belli e sconfitti, diventeremo invincibili soltanto quando sarà tardi, troppo tardi. Impareremo ad amare, terremo in tasca il desiderio irrinunciabile del ricevere attenzioni. E carezze e abbracci, quelli che arrivano troppo tardi, quelli che arrivano il giorno che non te l’aspetti. Tu, creatrice di rane di carta, di barchette da far galleggiare nella vasca da bagno, tu, donna nuda con la sciarpa lunghissima, orchidea blu, tu passo incerto, neo nero, tu, mia simile, amica.

Foto: © Anthony Goicolea

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Ti ho scritto ti bacio, mi hai risposto ti bacio

Lui le aveva comprato un biglietto per quel concerto, gliel’aveva infilato in una busta chiusa nella cassetta delle lettere. Lei aveva ventitré anni, viveva in affitto e la cassetta della lettere non l’apriva mai. Passarono tre mesi, venne il padrone di casa a ritirare la posta, prese la busta, lesse il suo nome e gliela mise sotto la porta. Lei strappò la carta, vide il biglietto, si chiede il perché di un invito a un evento ormai passato da tempo. Lesse la dedica col nome di lui, si ricordò di una sera, fuori da un bar in Ticinese, quel ragazzo bello e ubriaco, quello vestito male, col trench blu e le scarpe rosse. Si ricordò perché non gli aveva più risposto: un esame a breve in università, il pensiero a un uomo che la scopava per bene ma non l’amava e poi il futuro così incerto. Decise di contattarlo su Whatsupp, gli scrisse: “Ehi, la prossima volta se mi avvisi prima magari ci penso.” Lui ricevette il messaggio mentre era sul cesso e ascoltava I Cani che urlavano dei pariolini di diciott’anni che comprano e vendono cocaina, lo lesse e si ricordò di quella busta, si chiese perché proprio ora che stava uscendo con una ragazza carina che non lo faceva impazzire, ma sì, gli piaceva e non gliene importava nulla se l’aveva trovata su Tinder. Lesse il messaggio ancora, e ancora, poi appoggiò il telefono sul pavimento, l’applicazione si chiuse e anche la musica cessò. Si pulì il culo per bene e non dimenticò di lavarsi le mani. Poi riprese il telefono e le rispose: “Dopo tre mesi ti fai sentire così? Al concerto sono andato da solo.” Sotto al messaggio si accesero due virgole blu, lei aveva letto. Non rispose subito, lui chiamò, così impulsivo. Lei rispose, lui non sapeva che dirle, lei rideva, lui azzardò un “Perché non ci vediamo stasera?” Lei rispose “Perché no?” Lui disse ancora: “Vengo a prenderti alle nove” Lei rispose ancora: “Ci vediamo alle colonne di san Lorenzo.”  Lui: “Meglio sul Naviglio allora.” “Colonne o niente.” disse lei. “Ok.” Terminò lui. “A dopo.” terminò lei. Si fecero una doccia, si vestirono, si profumarono, uscirono ciascuno dalla propria casa, lei in ritardo, lui in anticipo, dopo pochi passi si chiese se avesse chiuso per bene la porta, tornò indietro a controllare, quella era chiusa, lui era agitato. Quando si incontrarono si strinsero la mano, lei rise, lui trovò il coraggio per baciarle le guance, qualche secondo per decidere dove andare, le mani in tasca. Finirono al bar Cuore, c’era un concerto, lei conosceva tutti, lui no, presero da bere, pagò lui, lei si intrattenne con la barista, glielo presentò, incespicò sul suo nome, poi se lo ricordò. Si sistemarono a un tavolo, lei sorseggiava, lui tracannava. Il bicchiere di lui ormai vuoto, un po’ di domande sul frattempo, svelato l’arcano della busta. “Dovevo pensarci prima.” Lei gli chiese a cosa, lui disse: “Al fatto che chi è in affitto non sempre controlla la posta.” Lei disse soltanto: “Era un bel concerto, sarei venuta, forse.” Poi gli raccontò del passato, fece ipotesi sul futuro, gli propose di fumare fuori. Lei uscì, lui le guardò il culo, poi i capelli lunghi, avrebbe voluto si scoprisse le spalle, lei indossò il cappotto. Lei fumava, lui no, molto silenzio. “Ma non ti piacevo proprio?” “Be’ sì. Certo che un po’ mi piacevi, non ti avrei dato il mio numero altrimenti.” “Ma perché poi non mi hai più risposto?” “Non lo so.” “Posso baciarti?” “C’è anche da chiederlo?” Lei lo baciò, lui ne fu sorpreso. Le labbra si cercarono, le lingue si affacciarono timide, poi presero coraggio, labbra su labbra, lingua su lingua, via a mulinello, una mano scendeva sulla schiena, l’altra cercava il muro, lei si staccò, gli disse: “Mi sembra sufficiente.” Il respiro di lui ci mise un poco a ritornare normale. Un gruppo di ragazzi si avvicinava, uno di loro indossava un cappello, uno di loro alzava una mano, uno di loro, sempre lo stesso, le andava incontro, la abbracciava forte, la prendeva in braccio la faceva girare tutto intorno, lei era felice. Quando sei tornato? Oggi, proprio oggi, rispose quel ragazzo. Lei si avvicinò alle labbra di lui che erano più rosse del solito, gli disse soltanto: “È un mio amico, non lo vedo da tanto, vuoi scusarci un secondo?” Lui annuì e si appoggiò al muro, sulle prime li guardò, poi fissò la strada, controllò nervosamente il telefono, poi ritornò a guardarli, lei si divertiva, non smettevano di abbracciarsi, di toccarsi, lei lo prese per mano, entrarono nel bar, ordinarono da bere, si abbracciarono ancora, li osservava dal vetro. Appoggiò una sigaretta alle labbra, la accese, due tiri e la gettò per terra, fece per entrare, il ragazzo col cappello la stringeva, lui decide di andarsene, poi se ne andò. Tornò alle colonne, si guardava intorno e si grattava le dita, e i discorsi superficiali, e bottiglie di birra vuote che rotolavano per terra e rossetti rossi tutt’intorno. Vide una coda, capelli biondi, abito nero, le disse: “Ehi.” Lo ripeté due volte, poi pronunciò il suo nome. Lei gli chiese se si conoscevano, lui fu capace di spiegarle che si scrivevano su Facebook, si ricordò anche di tutto quello che si erano scritti, anche lei ricordò, lui la aveva abbordata con una scusa, lei lo trovava carino, si strinsero la mano. “Sto andando a casa.” Disse lei. “Se vuoi ti accompagno.” Propose lui. Lei fece sì con la testa, camminavano vicini. “Sembri triste.” Ruppe il silenzio. “Ho avuto una serata di merda, scusa.” “Ma hai incontrato me.” “Anche questo è vero.” “Ricordi che ci siamo baciati su Facebook?” Domandò lui. “Non ricordo, l’abbiamo fatto davvero?” “Sì.” “E come è stato?” “Bello credo. E per te?” “Se è stato bello per te lo sarà stato anche per me.” “Ma come abbiamo fatto?” Lui spiegò: “Io ti ho scritto ‘ti bacio’ e tu mi hai risposto ‘ti bacio’, e così ci siamo baciati.” Lei era dubbiosa. “E come lo sai che era un bacio vero?” “Lo so, lo sentivo,” disse lui convinto, “e lo sentivi anche tu.” “Dovremmo riprovarci.” “Magari riproveremo.” “Perché non adesso?” “Perché non siamo in chat.” “Se lo facessimo davvero?” “Non credo funzionerebbe.” Lui domandò il perché. “Quel che succede in rete resta sulla rete.” “Ne sei convinta?” “Certo.” “A me sembra tutto vero, anche tra i pixel.” “Non ti ammalare.” “No.” Disse lui.

Lo ripeté più volte quel no, non sembrava convinto. Erano arrivati sotto casa di lei. “Sono arrivata.” “Lo so. Ci siamo fermati.” “Domani mi sveglio presto, scusa.” “Non c’è problema.” Lui provò ad avvicinarsi per baciarla, lei offrì la guancia. “Devi avere pazienza.” Disse. “Chiamami domani, se vuoi, ci beviamo una birra. Sai dove abito.” “Va bene, buonanotte.” “Buonanotte.” Rispose lei, corse sulle scale, sparì dalla sua vista. Lui accese un’altra sigarette e rimase là, immobile, a mischiare il passato e il futuro.

Il telefono squillò, era la ragazza del Cuore. “Dove sei finito? Ti ho cercato ovunque.” “Me ne sono andato.” “E perché?” “Così.” Disse lui, lo ripeté e gli venne da ridere. “E ti sembra il modo?” Lui rispose di sì, che gli sembrava il modo e che era stato un errore rivedersi, che erano passati tre mesi, che erano diversi, che lui l’aveva immaginata diversa. Lei gli continuava a ripetere: “Ti sei ingelosito?” Lui disse: “Avrei dovuto?” Lo disse ironico. Lei gli urlò VAFFANCULO e lui rispose grazie, poi terminò la conversazione e si avviò verso casa.

Si domandò più volte cosa significasse essere gelosi, si rispose soltanto che lui era di troppo e niente lo faceva felice. I baci, quelli sì, con quelli si dimenticava delle insicurezze, delle domande sul senso di tutto il mondo e di quella vita che non gli dava né soddisfazione né stimoli né voglia di alcun domani. Si specchiò a una vetrina e si trovò bello, poi pensò a quel no detto alla ragazza di Facebook, decise che non l’avrebbe mai più richiamata. Poi tornò a casa e si addormentò molto tardi. Il giorno dopo le scrisse che sì, era geloso, lei non rispose. Due spunte blu, aveva letto, ma non rispose.

Foto: dalla rete, Chez Jeannette, Paris.

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Dopo quella sera

Dopo quella sera, seduti al tavolo di un bar, un fungo alimentato a butano per riscaldarci. Un bicchiere di vino e un’altro ancora, gli stessi sigari, goffo io fino a scomparire nel fumo. Dopo quella sera, tra i sampietrini fino a casa tua, le scarpe che illuminavano i miei occhi e la camminata ciondolante e finalmente i tuoi numeri sul mio cellulare. Tornare a casa a piedi, sempre a piedi, a ricordarmi le frasi dette e i momenti di vuoto, a sorridere senza sapere il perché e ritrovarsi appiccicato addosso lo sguardo di uno sconosciuto, poi proseguire fino al divano, non prendere sonno fino a mattina, chiedersi se tutto è vero, se l’emozione è in grado di cancellare ogni accesso ai ricordi.

Dopo quella sera, pochi giorni al tuo compleanno, cercare un giradischi, cercarlo di legno, perché lo chiedeva il bianco delle tue pareti, perché lo chiedeva il tuo sguardo, il ritmo delle tue parole no, la sola piccola contraddizione che trova spiegazione nelle spinte opposte che t’abitano. In contraddizioni sanabili soltanto in tempo e cura.

Il giradischi costava un sacco, ho scelto il più bello, mi sono fatto spiegare il funzionamento, ho detto soltanto: “Metto insieme i soldi e torno, lo tenga via, lo allontani allo sguardo, lo tenga al riparo.” Le labbra nascoste dai baffi disegnarono un sì, tornai a casa canticchiando una canzone di De Gregori che si chiama Anna e Marco, anche se tu non ti chiami Anna e ogni volta che pronuncio il tuo nome poi me ne pento.

I dischi, mi dicevo, i dischi, odio il silenzio soprattutto quando è imposto. Dalle situazioni, dalle lontananze, dalla paura, dall’assenza di un supporto in questo caso. La scelta era semplice, avrei aspettato la domenica e al mercatino dell’antiquariato avrei acquistato del jazz, magari Vian. Ero felice, stavo diventando povero, ma non mi importava, nulla. Mi ripetevo che è necessario mettersi in situazioni di non ritorno, avere in testa la meta e non trovare scuse né strade alternative.

Decisi di scriverti, magari eri senza alternative anche tu. Il mio primo messaggio fu una foto che mi ritraeva da piccolo, la pancia piena, il viso gonfio, mossa sbagliata, ogni tanto le relazioni vivono di strategia, tu rispondesti fredda, io capii subito. Mi avevi promesso non sparirò, non questa volta. L’hai fatto.

Non ho comprato il giradischi, i dischi invece, per quelli era troppo tardi, li ho lasciati in quattro bar diversi: uno in Porta Venezia, uno in via Vigevano, uno in Garibaldi e l’altro in Brera. Su tutti una citazione di un libro, una scritta poi cancellata, perché si capisse che c’era, ma che non voleva essere letta, o meglio, fosse letta e poi dimenticata. Magari qualcuno ha sorriso.

Chissà che fine ha fatto quel giradischi, se il signore coi baffi mi aveva preso sul serio sistemandolo al riparo. Chissà se qualcuno l’ha poi comprato, chissà che musica ha suonato, magari è in casa tua, io voglio immaginarlo là, a decorare i tuoi giorni.

Sai, questa è soltanto una storia, una di quelle che scrivo per ricordarmi di aver vissuto dietro all’amore senza mai raggiungerlo, vissuto sì. Perché l’esistenza non è cerchi in lega e nemmeno frontiera. La mia trova vita in un aggeggio di legno, in sogni e vorrei. La tua, beh, la tua è felice, perché il tuo campanello suona, la tua tavola è ricca, i tuoi occhi sempre più belli.

Ho raccontato questo a un daino, ieri notte, in un bosco, lui ha capito, è scappato al galoppo e ha pianto per me prima di addormentarsi sul ventre gonfio di una madre preoccupata che gli chiedeva che c’è. La sensibilità è animale, ho scritto su un post it, gli umani dimenticano.

Foto: dalla rete.

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