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E passavamo il tempo a perdonarci

Correggevamo il tiro ricorrendo agli spliff, chiusi in case mai deserte e senza soldi per le consumazioni obbligatorie. Mi dicevi fottiamocene e andiamo a ballare, corromperemo i buttafuori negri raccontando della nostra migrazione e dei viaggi nell’Africa del nord. Tre o più birre nello zaino e segni rossi sulle spalle, marchiati dai vizi raggiungevamo il centro. Qualcuno ci lanciava addosso bottiglie vuote, ci piaceva il suono che fa il vetro quando si fa in pezzi e scappavamo dalle schegge correndo a più non posso. E sempre correndo, ricordo, tu rubasti la sciarpa a una bionda niente male e ti facevi rincorrere e ridevi e lei ti guardava, quanto eri bello con quella barba incolta e i capelli dispersi sul collo! Così ti ha avvicinato e ansimavate forte, tu esageravi, poi l’hai abbracciata, le hai detto balliamo e l’hai stretta sui fianchi. Ti aveva legato la sciarpa intorno alla fronte, voi così gipsy e giacche bianche intorno. E mi sedevo sugli argini e bevevo senza sentire il sapore: guardavo gli altri buttare discorsi a pelo dell’acqua e mi scoprivo interessato solo quando si parlava di me, di quelle stupide teorie sulla vita che si seminano in solitudine. Mi sorprendevi piangere e davo sempre la colpa alla congiuntivite. E mi dicevi io me la sposo e che ogni ballo è un matrimonio e una promessa di un istante chissà quanto vale. E passavamo il tempo a perdonarci, a dirci è normale, che siamo giovani noi per quanto ancora poi? E chiedevamo scusa per tutte quelle parole gettate come ami in deserti in notti insonni. Non pescavamo nulla se non diffidenze. Vuoi smetterla di stringermi? Vuoi mettermi al muro e costringermi a guardarmi allo specchio? E dimmi le ragioni dei miei inseguimenti e ridonami la possibilità della barba sfatta. Torneremo a danzare noi due, in parole e sguardi, e cercheremo la nudità per sentirci a casa.

Foto: dalla rete.

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La primavera dei tuoi compleanni

Oggi uno specchio tra le vetrine, somiglio un sacco a papà. I modi e gli sguardi, questa nostra debolezza che scorgi tra i tagli delle mani.

Ai tuoi occhi malati e al fascino dei tuoi occhiali neri. Alle lenzuola consumate insieme e alle mutande che ci siamo sempre scambiati. Alle nostre camere separate da un corridoio. Alla tua scrivania ordinata e alla tua scrittura minuta. Alle lettere che ci scriviamo a Natale e agli sguardi d’intesa quando fuori tutto sembra esplodere.

Che ci mandavamo affanculo spesso e tu te la prendevi di molto, che sei un po’ permaloso e così buono che non ti si può nemmeno mangiare. Compiere gli anni in maggio è foglie verdi e canto del gallo per i tuoi ritorni a casa.

Abbiamo sulle spalle tutta la coscienza che ci siamo cuciti addosso, e qualche buco di sigaretta, gli occhi chiusi per cercarci una lampada dentro e far luce sul cuore. L’orologio appeso alla cintura per ricordarci che il tempo serve a vestirci a festa ogni giorno, apparecchiare la tavola e mangiare con gusto.

Dei nostri viaggi in Marocco e dei mille soli che disegni negli occhi. Di quando sei stanco e ti abbandoni al divano e dei discorsi nuovi con mamma e papà. La mia meraviglia per la maturazione in età adulta, di quando pensavo vuoi vedere che non cambi più e la marcia nuova dei nostri vecchi.

La quantità interminabile del Barolo bevuto a Natale e tu che mi tieni sveglio, la prima corsia in autostrada per il concerto di Vinicio Capossela e quei ritorni dove regna in silenzio sulla A1, Claudio va a finire che dorme e le luci della strada accese sui cazzi nostri. La lontananza fa chiari i contorni e tira fuori tutte le frasi che non riuscivamo a dirci. Così un ti voglio bene non è mai banale e torneremo un giorno in quella casa a tirare al canestrino a ventosa appeso al soffitto di camera mia, porca miseria quanto eri alto, così elegante, quasi irraggiungibile.

Foto: Nicoletta Branco

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WooA!

Le gole ubriache di vita, le strade piene e le labbra bagnate, noi pronti ad accarezzare il mattino nelle spalle morbide e magre delle ragazze della notte, prendere un taxi all’alba e domandarsi se un letto può diventare lo scompartimento di un treno.

Poi i discorsi degli sconosciuti e i nostri pfff sbuffati e molte effe di compatimento. Che dovremmo vivere al posto di guardarci da fuori e fare della bocca una zip chiusa mentre dentro c’è un cazzo che pulsa. Trattenere i silenzi e accumulare saggezze e fantasie, poi farle esplodere in un grande WOOA.

Quando tutta questa pazienza sarà premiata. Temo la vittoria, le scarpe lustre del successo e le gite fuori porta, l’amore perverso verso gli animali e i desideri di volontariato di chi ha avuto troppo e non sa come né a chi rendere grazie.

Mi piace inciampare sul marciapiede e alzare gli occhi sul passante, chiedermi chissà come si muove ai concerti e il suo cantante preferito, chissà se sa disegnare, magari suona, e poi chissà cosa legge. E non frequento i circoli accademici densi di parole precise e nomi eclatanti. Non riesco a parlare a lungo degli stoici e nemmeno di Epicuro, figurati di Lacan. Mi soffermo sul significato delle rughe sul viso e sul pensiero che sta dietro a un taglio di capelli. Forse non tutti possono essere dei Pasolini, dei Carlo Emilio Gadda o magari non è il tempo per fare il verso a Tolstoj, quello che so è che ci sediamo al tavolo con la domanda del cosa ci faccio qui e cerchiamo una soluzione. E non ci lasciamo stare, abbiamo un vulcano che ribolle e nessuna risposta, né schieramento politico pronto a difenderci dalle eruzioni.

Desideriamo per noi l’umanità e ci facciamo servi nello sguardo. Abbiamo sviluppato un’attitudine impotente e non sappiamo imporci perché guardiamo oltre lo strato della menzogna e riconosciamo l’umano nel passo, nel cristallino e nella modulazione della voce, e non è poi così importante quante parole ci rimbalzano addosso, che misuriamo il tempo in sguardi.

Vorrei pregare ora, farmi silenzio e sacrificare tutti quei giorni che mi sono sentito colpevole per qualcosa che non ho mai scelto, ma che mi apparteneva in nascita. La conoscenza passa attraverso gli inferni, il puzzo di piscio fuori da casa, il vomito nei cessi degli sconosciuti e le istruzioni d’uso dei preservativi.

Quel Cristo che perde l’equilibrio sui rosari di strada viene a cancellare questa colpa che ci hanno appiccicato addosso. La conoscenza salvifica del nostro corpo e l’energia sessuale che esplode in conoscenza, e creazione, e wooa! Ancora WooA!

E ora è notte tra i sampietrini, il barista fuma l’ultima sigaretta guardando il bancone, le madri controllano l’orologio in attesa di folli vergini adolescenti e i padri russano e voltano la testa dall’altra parte, che in fondo, e lo sai, ci sono due sguardi che ci fanno da casa. Quello che aspetta e poi quello che se ne fotte, si volta, e poi, prima o poi, qualcuno aspetta.

E intanto, nel cielo, tra le automobili e nelle camere d’albergo, e altrove, scoppiano stelle, e lunghi sibili nei nostri silenzi, e lunghi WoooA, WoooA, WoooooooA.

Foto: Alban Grosdidier

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E ora vorrei parlarti dell’amore, di puttanieri e puttane

Ci siamo giocati il linguaggio noi sconfitti dal tempo, quando una memoria e una soltanto manco esiste, il ricordo dimenticato, sudato, annegato tra gli sforzi d’unicità dei più grandi. Sei così noto che tutto è permesso, potresti vendere auto col tuo nome inciso e pitture scarse, bibite zuccherate e corsi di cucina.

Vecchie bottiglie nei nostri mari e messaggi indecifrabili, l’Alessandria d’Egitto è Babele e tutto vi si mischia cercando l’ultimo gradino, quando mi abbassi le mutande per farti forza su me, io senza pantalone controllo l’intimo e perdo di vista la testa.

Così le voci si rincorrono inutili e vane, puttanieri e puttane e la retorica di fori intasati, le traversine portano tutto lo sporco alla fogna.

Mi riconosco nel rap che dà alle cose un nome e le unisce in ritmica e stile, e disconosco il mischiare i ruoli: io cantante, tu polis.

Non agli artisti è chiesta l’opinione, l’artista interroga e si interroga, la risposta è volgare. Usiamo il punto per raccontare storie.

Così voi giornalisti se fate cronaca, fate la cronaca e poi basta. Altrimenti ditelo, metto l’io davanti all’oggetto, perché molto ho letto, molto ho guardato, molto ho compreso, e vi stringeremo mani a più riprese, esulteremo perché non ci sentiremo così tanto soli. Ma di retorica Basta! Siete voi, voi che ci fate schiavi, voi che create la dinamica del servo e infarcite la lingua borghese di neologismi, e confondete coscienze col diritto di replica del fasullo. Il mass media è uno strumento di potere,  cosidetto libero o privato che sia, non c’è libertà quando tutto è già stato scelto e si chiede l’adesione o la non adesione, come ai tempi delle gite scolastiche, la religione nelle ore di scuola. Potreste dirmi che fare? Non c’è alternativa alcuna. E’ un mestiere, un lavoro, ben più nobile d’altri, più che un mestiere una necessità. E avete pure le vostre ragioni, e passione e un credo, chi sono io per imputarvi mea culpa? Io con le mutande bagnate di piscio, il bicchiere pieno, la borsa vuota. Io che rifiuto ogni volgare abbraccio e che stringo amicizie con gli sconosciuti con la scusa della sensibilità. Io che non ho una stanza, una porta, perché rifiuto la seggiola girevole e quando siedo a capotavola desidero che tutti prendano parola. Mangino bene. A sazietà.

Si aprissero le porte della prigione del nascondimento per contenere la mia sete di fama e il fascino eterno dei talk-show. Sogno di notte Daria Bignardi, io, Fabri Fibra e Marrakesch a interrogarci sul senso nuovo della parola. E sputare in mare, e togliere fascino ad albe e a tramonti.

La compagnia è il migliore strumento di fidelizzazione.

Se chiedi alle cosce riceverai risposte da cosce. Se chiedi il culo, un culo ti verrà donato. Chiedi alla fica, mio caro e da lì prenderai senno.

Tutto è parziale, non c’è armonia nella tua sete di sapere, non c’è risposta alcuna al tuo bisogno.

Sali la scala difficile della strada, fatti chiamare folle e abita lo spazio fatato del pasto, del vino, il silenzio dei luoghi del culto e il brusio delle coscienze disperse. Chiedi aiuto alle mani degli altri e interrogati con loro sul senso di questo tuo andare. Chi costruisce i palazzi e chi li abita, chi partorisce i figli e poi chi li cresce, chi si è tatuato, come un bollino che si appiccica alle banane, la parole diverso o egoista soltanto perché ha scelto il sentiero del discernimento assoluto e la rincorsa interminabile al folle che è altro dalla folla, folle è colui che tutti racchiude e si dà un nome soltanto quando negli altri coglie il colore delle sue labbra.

E ora venite a parlarmi di camicie di forza, di madri irrequiete e delle preoccupazioni di nostro fratello marchese. Non è così, la burocrazia ci tiene all’ordine e stirare le camicie per l’indomani niente ha a che fare con lo stile, ma con lo spazio.

Dipingere se stessi come un quadro ben noto, fare attenzione alla luce e alle ombre, i pieni, i vuoti. E ti ribellerai alle cornici con la tua forza inconoscibile e vera, risalirai negli occhi degli altri e percorrerai gole e gesti minuti o enormi. Immagina l’urlo quando farai paura, immagina l’abbraccio e il battito del cuore di chi ti verrà vicino.

E ora vorrei parlarti dell’amore. Quando diviene tutto un lungo silenzio. E quando apri la bocca è soltanto un sospiro lungo. E poi silenzio, ancora. E ancora.

Immagine: Ben Shahn

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Corrimi incontro quando scendo dal treno

E poi ci sono le redazioni, gli orari frenetici delle ultime notizie e l’accavallarsi di stampe su fogli A4 e banchi spersonalizzati, le foto dei nostri figli e i cioccolatini da mettere in tasca alla moglie, pile di post it come arcobaleno.

Le luci bianche di neon asettici per ricreare la luce del giorno e dire che sì, il lavoro nobilita così tanto che non arriverà un’altra notte, non dormiremo mai più pensando ai nostri figli che a 16 anni si rasano i capelli sui lati e domandano i diritti del terzo mondo e poi una scuola che permetta loro di entrare nel giogo del lavoro.

A 18 anni viaggiare, sperimentare dolcezze infinite e deserti acidi, e poi amare e trovarsi la sera a suonare, a scambiarsi le idee perverse di mondo e la libertà di fumare sigarette lunghissime lontano dagli occhi dei grandi. Quando tutto questo sarà finito piegherete la testa al denaro e vi ritroverete gobbe in mezzo alla schiena, vittime voi degli slogan e dei megafoni.

Che a 20 anni bisogna pensare a sé e trovare passione e credo e desiderio del fare e i bisognosi verranno dopo, non pensare, incontrare, le riflessioni sugli altri valgono poi, in nascita, in morte e in maturità.

Tornare a casa con la borsa a tracolla, realizzati, schivi, comprare una pizza in cartone, magari una birra, un sushi d’asporto. La polvere del mondo fuori di casa, la porta chiude bene, doppia mandata, non verranno a interromperci questa sera. E così il beat elettronico di Deezer e i piedi nudi sul pavimento per dirci ancora una volta che anche le scarpe sono una prigione, figurarsi i muri.

Nel sesso gli sfoghi, guardavi ai due buchi come a una liberazione e mi insegnavi a fottere le regole soltanto col movimento perverso della tua bocca. Non quello cercavo, volevo le tue braccia dietro la schiena, la tua bocca capace di pronunciare parole che io neanche immagino, vederti inventare tramonti di bottoni e laghi di carta stagnola.

Verrà un giorno in cui faremo insieme l’albero di Natale, andremo a prenderlo in foresta e ti mostrerò il luogo in cui sono nato.

Non voglio parlare di quel che succede nel mondo, indossa il vestito leggero, quello che si muove col vento e corrimi incontro quando scendo dal treno.

Foto: Charles Moore

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E’ nata Rebecca, lo sai?

Mi sono dimenticato di andare a teatro. L’hai abbandonato troppo presto, ti dicevo, e indicavo il tuo cavallo a dondolo.

Della leggerezza delle tue pastasciutte, dei tuoi capelli finissimi e poi dei miei: quadri astratti dipinti col vento.

Com’era bella la tua campagna: i pascoli in fiore tra le tue labbra e i torrenti in cascata delle tue dita. Non ci sfioriamo mai io e te, di quella volta che mi hai annusato il polso e avevo finito il profumo.

E poi le nostre conoscenze degli esiliati, che penso troppo, dicevi, e non cedo mai ai compromessi e tolgo il cappello soltanto quando varco la soglia di casa.

Il mio passo svelto e le frenate brusche. Il cappotto lungo e la sciarpa rossa. Il pugno alzato soltanto per salutare o in discoteca, a incitare gli adolescenti e pensare che non è ancora il tempo di guardare tutto da fuori e formulare ipotesi, opinioni e poi incastrarle su un foglio da inviare ai quotidiani.

Dovremmo metterci qui ogni sera a contarci le parole e a trovare un titolo per ogni nostra intuizione.

Non sarai certo di quelle coi tacchi alti, le gambe accavallate appoggiate sul tavolo. Mi scrivevi che sono un narciso soltanto perché posto su facebook i miei primi piani, ti dicevo che è soltanto un lavoro e in fondo mentivo.

E oggi è un giorno di ricorrenze, le piazze zuppe di turisti e i cortei. Le cascate delle camere Vaticane e il seggio vacante ci lavano via la stanchezza e rimpiazzano certe malinconie. Gli uomini buoni, gli uomini belli e la mosca all’orecchio per dirci hai sentito male, non può essere vero.

Nei miei week end la routine scarsa della programmazione del Piccolo Teatro di Milano mista al rock and roll di Filippo Timi, l’onda lunga del contenitore televisivo e la ricerca necessaria dei gruppi indipendenti.

E ci dicevamo che è tutta ricerca, ci ritroveremo un giorno, un prima o un poi, e racconteremo ai nostri figli la fatica necessaria del tirarsi insieme e far dei cocci un voto.

E’ nata Rebecca, lo sai? La speranza silenziosa degli ospedali di tutto il mondo.

E’ nata Rebecca, lo sai?

Così mi pettinavo i capelli con la riga di lato e indossavo la giacca più bella, poi nella piazza grande a guardare le giostre. I voli artificiali dei nostri corpi pesanti e la prospettiva dall’alto. E non avevo più paura a pronunciare la parola miracolo.

Foto: Carl De Keyzer

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La Belcostume

In fondo il pericolo sono i buoni, i buoni a tutto, i buoni a niente. Buoni con in piazza archi sorridenti, vestiti fini, modi gentili.

In superficie le tracce della belcostume: il buongiorno all’incontro, un inchino al saluto. E un’educazione spropositata coi sottoposti.

La viltà delle posizioni di testa, che evitano i tagli grossi e sparpagliano il fuoco delle parole sincere nei cessi dei bar e nell’attesa del verde davanti alle strisce pedonali.

I dolci comprati in pasticceria, le mance al cameriere e le cene ordinate sotto casa.

In fondo il pericolo sono i volontari: a disperdere la vita nei sorrisi degli altri, cercare il senso nelle dita tese, nei tamponi deboli alla sofferenza.

In fondo il pericolo sono i volti noti, la retorica della prima serata, le interviste possibili delle ventuno e trenta.

Prendimi per il bavero e dimmelo in faccia che la tua donna non la devo guardare, prendimi a pugni le guance e fammi nero, avrai così un motivo per sentirti diverso. Diverso da te. Coi tuoi desideri di possesso, il fascino immortale delle borse di Gucci e il mio zaino firmato Invicta.

Controlla ora cos’hai nelle tasche. Biglietti dei tuoi spostamenti usati, il cinema il mercoledì e l’accendino per dar fuoco alle tue ansie da poco.

Da quando hai smesso di fumare sei ingrassato, lo sai?

Puoi accarezzarmi ancora la pancia per sentirti migliore, puoi misurare il mio fallo e poi fare i confronti.

Mio caro, mio uomo, ti fermi sempre al di qua del confine, soltanto perché tu, il confine, l’hai inventato. E hai perso in coraggio, vinto in paura.

Che se pensassi di meno, tu meno studiato, meno posato, meno educato, forse lasceresti le redini e segni nuovi sulla tua schiena, unghie rotte e morsi rossi sul tuo collo morbido.

E non fossi già olimpico, affermato, adorato, applaudito, cercheresti il senso nelle attenzioni al tuo fare, al tuo dire, per non piacere agli altri, piacere a te, che sei il tuo vestire, che sei il tuo andare.

Così tenderai le mani e ammetterai anche tu

che hai bisogno di un abbraccio,

di un bacio,

di perdere il senno,

di perdere il sonno

e scriverai parole che rimandi da tempo

in una notte di carne, notte di testa, notte d’amore,

tu non più solo, al comando.

Foto: Elliott Erwitt

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Quando saremo vaso e fiore avremo sconfitto la morte

Quanti comignoli nel fumo grigio del cielo di Gennaio.                                                                               E tetti abitati, finestre illuminate.

Il ticchettio della pioggia dei giorni nuovi. Coi rumori di casa a comporre melodie elettroniche.

Le serrature chiuse per proteggermi dalla nostalgia delle mie infanzie a cavallo delle siepi. Le corse calciando il pallone sotto al sole di luglio e suonare i campanelli e ridere e poi scappare via. Signora, le mancheranno le mie invadenze.

Rimanevamo colpiti dei mondi che ci circondano, non siamo i soli sotto ai lampioni. Non siamo soli, i treni partono in ritardo e gli aerei atterrano. Penso ai bus notturni per i viaggi di mille chilometri tra le Ande e i piatti stranieri al sapore di conoscenza. L’intontimento per gli alfabeti degli altri.

Non ci capiamo a parole e ora non bastano nemmeno gli sguardi. Sei così lontana che dovrei mettere un . e poi andare a capo.

Le lettere non spedite e quelle che tieni sul davanzale della finestra: le dichiarazioni di umanità nelle debolezze.

La libertà di un ti amo.

L’emozione soffre se non si fa carne, accumula forza come le molle e poi non saltella

                                                                                    se non togli il dito

                 .e le permetti lo scarico

E’ una questione di spinte lo sai, che anche la fisica sa di poesia.

E con la sindrome della donna angelo ci siamo strofinati come si fa con le auto nuove, la tua pelle di daino e le mie corna fosforescenti.

E se mi guardo allo specchio trascuro i contorni e mi soffermo sui difetti.

Dimmi soltanto che quando saremo due ci sosterremo senza farci grucce, dimmi che troverò un volto che accolga lacrime e due cosce per il riposo delle mie vacuità.

Quando saremo vaso e fiore avremo sconfitto la morte.

             E dai nostri capi svaniranno le ombre.

Il popolo nero dell’alba, quando proiettavamo sulla strada le nostre paure e aspettavamo mezzogiorno per schiacciarle sotto ai piedi: un piatto di pasta, un bicchiere di vino.

Gli amici che accompagnano le partenze e la fotografia dei nostri momenti più belli.

La nostalgia non è un momento, la malinconia non è una scelta. E per la gioia levighiamo ancora le nostre estremità, come fa il mare coi pezzi di vetro, come fa il cielo con le meteoriti.

E finiremo per incontrarci,

quando anche il tempo si sarà fatto da parte e ti accorgerai che la porta è aperta, che non ci sono chiavi e per le illusioni lascerai il posto ai maghi.

Foto: Ray K. Metzker

Philadelphia, 1983, City Whispers series

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