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In vita di Charles Bukowski

il 9 marzo del 1994 moriva Charles Bukowski. Io avevo dodici anni e mi sbucciavo le ginocchia sul campo di pallone dell’oratorio. Segnavo una media di otto goal a partita, delle ragazze non mi importava niente, tornavo a casa sporco di fango e sudato, mamma mi sbatteva in doccia e io me ne uscivo coi capelli bagnati, facevo finta di cenare e raggiungevo i miei amichetti in giardino per giocare a nascondino prima del buio.

Bukowski l’ho scoperto solo a trent’anni circa, prima lo snobbavo perché piaceva a tutti e le sue pagine mi sembravano soltanto un pretesto per tirarsi seghe in mancanza di un settimanale illustrato. Avevo sentito parlare di lui perché in molti, negli anni novanta, specie tra i miei compagni del Liceo Classico Stefano Maria Legnani di Saronno, si firmavano Chinaski, che dei romanzi di Bukowski era l’eroe. Mi sembrava un vezzo cretino, io prendevo a prestito Benjamin, da Walter Benjamin, personalità poliedrica, mica semplice scrittore. Poi sono cresciuto, sono tornato a farmi chiamare Marco e Benjamin ci ho chiamato il mio cane.

Charlie Buk Bukowski, patrimonio infinito di citazioni, sporcaccione per eccellenza, bevitore, amante delle corse dei cavalli e tanto altro. Per capirne lo spirito, se proprio non lo conoscete e non avete letto i suoi libri o le poesie o un cartello dentro a un’enoteca che recita le sue parole, vi consiglio un bell’articolo di Fabrizio Sabatini pubblicato su Artnoise (http://www.artnoise.it/caro-hank-lesattezza-di-charles-bukowski/), è un testo mica male che sa cogliere lo spirito profondo di Charles e sa andare oltre a una certa mitologia infarcita di luoghi comuni.

Charlie, concedetemi il diminutivo perché ci sono scrittori che a furia di leggerli diventano amici, Charlie per me è tenerezza in una accezione poco nota, forse. È un uomo che rifiuta il mondo e il suo pensiero dominante, ma nel mondo ci deve vivere, per cui non disprezza il lavoro come qualsiasi bohemio della sua epoca, non disprezza nemmeno il denaro, quindi scrive anche su commissione e non se ne vergogna. È dotato di una sensibilità straordinaria, è vero, dannatamente e sempre vero e sincero.

Per scrivere e seguire la sua necessità più grande si fa assumere in posta, lavora di notte e dorme poco, vive fino a cinquant’anni in appartamenti di periferia in compagnia dei topi e di una macchina da scrivere, rifiuta ogni amicizia letteraria (anche se una volta famoso in tanti lo cercheranno), preferisce le donne, la sua “cipolla rossa” fa esperienza di parecchie femmine americane, sposa però donne dal fascino decadente, intelligenti e capaci di tenergli testa.

Bukowski non è un uomo solo, ama incontrare gente, tirare tardi e bere fino a non poterne più, poi cerca la solitudine, l’a tu per tu con la parola. In molti l’hanno considerato beat, ma un beat proprio non è, rifiuta quella parola che dopo la morte di Kerouac era diventata etichetta e moda. Bukowski era contro le mode, talmente contro da finire per diventare lui stesso moda.

È famoso un video di una sua lettura pubblica (su youtube.com lo trovate facilmente) in un teatro zuppo di persone che acclamano il suo nome, il nome di un uomo sbronzo che si siede a un tavolo sistemato sul palco e chiede una birra e usa un tono basso e lento, e ride e incespica sulle sue parole, e beve e il pubblico applaude come se sì, quell’uomo stesse indicando una via per tutti coloro che si vergognavano degli istinti, delle zone buie, che chiamavano libertà la luce e condannavano le tenebre. Bukowski mostrava le sue di tenebre e permetteva ai lettori, al pubblico, di vedere le loro e attraversarle. La sua parola era un’offerta di verità.

Con questo non voglio dire che Charles fu un santo, no, era un attaccabrighe dal brontolio facile, era manesco e quando sbronzo anche prepotente ma… tutto questo lo rendeva in fondo amabile, credibile, uomo.

I suoi romanzi ancora oggi mi appaiono zoppi, imperfetti, ma così ricchi d’umanità che suscitano un’empatia straordinaria in chi si mette in ricerca del suo vero io e sa che la perfezione non è del mondo.

Diceva Bukowski che chi tiene un diario per annotarci i suoi pensieri è un testa di cazzo, che lui lo faceva soltanto perché qualcuno glielo aveva proposto, dunque era anche lui una testa di cazzo, nemmeno originale, per giunta. Tutta la sua opera, però, si rivela come un grande diario che racconta la sensibilità rara di un uomo libero. Diario sono i suoi romanzi, le sue poesie, diario sono i suoi diari, addirittura la sceneggiatura di quel film hollywoodiano (Barfly) che gli rese tanto in denaro e fama.

Tutti, me compreso, credono di conoscere il caro vecchio Buk e ne parlano. Così, di voce in voce, di decennio in decennio, la sua fama si fa sempre più grande, le edizioni dei suoi scritti trionfano in libreria e sulle bancarelle. Il rischio che corriamo oggi è ridurre Bukowski a un Chinaski qualsiasi, a farlo personaggio e non più uomo, ma chissenefotte.

Il poeta si è fatto dono e la sua parola lo trascende. Ti incontrerò un giorno Charlie, penserò di conoscerti anch’io e mi smentirai, quel che farò sarà soltanto riconoscerti in mezzo a mille altri e abbracciarti perché sì, già ora, ti voglio bene. Perché grazie a te, qui, in questo mondo sghembo, mi sento meno solo.

Ora incazzati pure, e dimmelo che non dovevo scrivere quest’elegia del cazzo, ma quando si ricorda qualcuno… va sempre a finire che si esagera qui e là.

Vi lascio questa poesia, famosa e straordinaria. Questo è Charles Bukowski, oggi, per me.

Un uccello azzurro
nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma con lui sono inflessibile,
gli dico: rimani dentro, non voglio
che nessuno ti
veda.

nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io gli verso addosso whisky e aspiro
il fumo delle sigarette
e le puttane e i baristi
e i commessi del droghiere
non sanno che
lì dentro
c’è lui

nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io con lui sono inflessibile,
gli dico:
rimani giù, mi vuoi fare andar fuori
di testa?
vuoi mandare all’aria tutto il mio
lavoro?
vuoi far saltare le vendite dei miei libri in
Europa?

nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io sono troppo furbo, lo lascio uscire
solo di notte qualche volta
quando dormono tutti.
gli dico: lo so che ci sei,
non essere
triste

poi lo rimetto a posto,
ma lui lì dentro un pochino
canta, mica l’ho fatto davvero
morire,
dormiamo insieme
così col nostro
patto segreto
ed è così grazioso da
far piangere
un uomo, ma io non
piango, e
voi?

Foto: dalla rete.

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In morte di fratello Jack Kerouac

“A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione.”

Era il 22 ottobre 1969 e moriva Jack Kerouac. Era il 22 ottobre 1969 e tornava alla vita Jack Kerouac.

Fu il successo a ucciderlo, una solitudine invasa dalle telecamere, dai viaggi su aerei di prima classe che non facevano mai un ritardo e cosce sode di hostess ammiccanti, litigi a causa dell’ubriachezza e il peso troppo grande dell’essere diventato un punto di riferimento per una generazione, il padre di un movimento chiamato beat che comprendeva ormai hipster, capelloni e debosciati tutti e aveva perso così la sua identità profonda. Un movimento che considerò fallito, ne uscì come un santo, martire della sua stessa aspirazione all’altissimo.

La morte lo colse al culmine della vita, quarantasette anni per lui che visse molto e scrisse molto, e possedeva verità di storie da raccontare e strade da attraversare. Gli chiesero che ne pensi della guerra in Vietnam, rispose evidentemente alterato dall’alcol che ai vietnamiti piacevano le Jeep, il desiderio era la causa del conflitto. Se una donna lo intervistava provava a sedurla, ma quale seduzione? Soltanto una spinta alla follia delle intimità, alla complessità della vicinanza. Non solo un su e giù di sessi come alternativa alla solitudine della notte, ma un incontro tra anime nude.

Bisogna essere come Jack per capirlo fino in fondo o almeno cercare nelle tapparelle abbassate uno spiraglio di luce prima della sveglia e delle otto ore del lavoro quotidiano. La beat, non era soltanto droghe, eccessi e sessualità esibita, era incontro, stile non artefatto, prosa musicale, tensione assoluta verso la beatitudine, e tutto il resto solo chiacchiere, modaiolo vociare. Non esiste un’estetica che prescinda dal sentire, la parola beat cerca l’armonia e parte dalla verità dell’uomo, testimonia la sua infinita debolezza nella ricerca di una salvezza beata. Lontani i dandy nei loro pantaloni stretti e stirati, lontane le camicie chiuse all’ultimo bottone, sfilano villosi petti per le strade d’America e le spiagge del Marocco. L’occhio furbo di Burroughs, l’urlo liberatorio di Ginsberg, tutti quegli amici che in vecchiaia portarono barbe lunghe e i cui tratti del viso assunsero dolcezza.

Anche Jack fu un uomo dolce, pauroso, fu Jack un uomo rude, coraggioso, sportivo. Amava sua madre al punto da confidarle tutta l’allergia alle scrivanie degli uffici e la sua difficoltà nei rapporti duraturi, quando bastava una piega del mignolo a farlo innamorare. Poi colazioni a base di uova e bacon e notti insonni a battere sui tasti, poco equilibrio nei giorni, momenti di lucidità per scrivere un diario che assomiglia a un Vangelo da tenere sempre sul comodino. Domande sul senso.

“Qual è la tua strada amico? La strada del santo, la strada del pazzo, la strada dell’arcobaleno, la strada dell’imbecille, qualsiasi strada. È una strada in tutte le direzioni per tutti gli uomini in tutti i modi.”

Jack parlava così, in molti pensavano recitasse, spesso capita così quando non c’è distanza tra vita e alfabeto, si rischia di divenire incomprensibili ai più. Kerouac era la sua parola.

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Poteva una donna prendersi carico di tutta quell’irrequietezza, di un desiderio per la novità delle esperienza, di un’idea di rifugio che non è casa, ma viaggio, di un’interiorità che non rimane nascosta ma esplode in parole? Poteva una donna non rimanere affascinata dall’eloquio profondo e a tratti surreali, da un corpo da Cristo avvezzo ai piaceri, poteva una donna non temerlo e allontanarlo fino a relegarlo a un’infinita solitudine?

La scrittura era necessità salvifica, consolazione e anche professione, contava le battute scritte ogni notte il fratello Jack, correggeva, rifiniva e pensava: quando pubblicheranno i miei libri e non dovrò più preoccuparmi di guadagnarmi soldi per lo sconosciuto domani, potrò bere birra di qualità e far riposare la testa su un cuscino, quando avrò il denaro necessario per non chiedere l’elemosina a mamma, quando lei mi vedrà felice e sarà consolata in vecchiaia, quando… quando poi tutto arrivò non seppe reggerne l’impatto. Il suo ultimo romanzo fu Vanità di Duluoz, cambiò stile, meno istintivo, più semplice, ricordi di infanzia, la tensione verso la grande gioia ormai depotenziata, non guardava più avanti Jack e tirò fuori una prosa stanca e sofferente, poi non scrisse più.

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Diventò una star in vita questo un cantore dei vinti e della sconfitta. Non ebbe mai paura di mostrarsi fragile, beveva e beveva perché non si sentiva a suo agio nei salotti, quando abbandonava la strada per rifugiarsi nella sua stanza fatta di letto e scrivania il mondo si faceva troppo distante fino a divenire irraggiungibile, inabitabile e per questo insopportabile. L’unico rifugio, oltre alla carta, oltre alla strada, era la tavola con gli amici fidati: lo stesso alfabeto, lo stesso sguardo, fare notte a leggere poesia, confrontarsi su qualsiasi cosa, diventare surreali in discorsi e droghe e alcol e prendere sonno senza coscienza. Perché la coscienza fa impazzire.

“Sono hip, ma non esibizionisti, intelligenti, ma senza pedanterie intellettuali fin nelle dita dei piedi e sanno tutto-tutto su Pound eppure non la mettono dura e non si parlano addosso in continuazione e sono tranquilli e silenziosi come tanti cristi.”

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E alla mattina, lucido e provato dalle notti, si interrogava sul perché delle azioni quotidiane, della riflessione buddista, delle pagine del Vangelo e di un Cristo sempre più modello di vita:

“Una tazza di caffè e una sigaretta, perché fare zazen? E da qualche parte c’è chi sta combattendo con spaventose carabine, le mani incrociate sul petto, le cinture appesantite dalle granate, in preda alla sete, alla fame, al terrore, alla pazzia.”

E provava a rispondersi mentre tra gli haiku cercava la semplicità.

“Il cielo è blu perché tu vuoi sapere perché il cielo è blu.”

Poi mille e più propositi per una vita felice: “Inoltre oggi ho deciso di non ubriacarmi più, almeno non nel mio solito modo. E’ strano che non ci abbia mai pensato prima. Ho iniziato a bere a diciottanni, ma adesso, dopo otto anni di sbronze occasionali, non lo tollero più, sia a livello fisico sia mentale. E’ stato quando ero un diciottenne che la malinconia e l’indecisione si sono impadronite per la prima volta di me, di certo esiste un legame tra l’alcool e questi stati d’animo. Le ubriacature bloccavano quella che potrei dire l’andatura del mio carattere. Quando sono sbronzo crollare spiritualmente e mentalmente diventa la cosa più facile del mondo. Allora basta. Ci vorrà del tempo, però, prima di riuscire a tener fede a questa promessa, ma devo farlo. Sembra che io abbia una costituzione che non regge l’alcool e ancor di meno l’idiozia e l’incoerenza.”

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Immaginate ora Jack, seduto al vostro tavolo con la camicia a quadrettoni, la sigaretta accesa, il bicchiere sempre vuoto, che parla della luna e del sistema solare, delle serate ancora da vivere e di quelle già vissute, non mostra strade né prospettive, vi guarda e non sorride, ma lo sentite così vicino e presente, incapace di farvi dimenticare quella solitudine malinconica che non vi lascia mai, ma capace di stare al vostro fianco e di offrirvi una spalla e ascolto e racconto. Jack è più di uno scrittore, è compagno, fratello, oltre le pagine, oltre ai romanzi.

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“Devo essere felice o morire, perché la mia condizione terrena è piena di una tristezza insostenibile e io do la colpa a Dio anziché a me stesso.”

Questa felicità, questa felicità di cui tutti parlano che cos’è, fratello Jack Kerouac? Lo immagino scuotere la testa, poi appisolarsi sul divano, un sorso di whiskey, poi a bassa voce:

“Una macchina veloce, l’orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada.”

 

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A William Seward Burroughs nell’anniversario della sua nascita

Rimanere immobili è pericoloso, dicevi, tu che immobile non ci sei rimasto. Tu che hai fatto di tutto rendendo ogni lavoro degno del tempo, dell’attenzione. Senza borie vane, senza regola, né pensiero rivolto a futuri lontani.

Erano altri tempi, certo, non preoccuparsi del precariato perché c’era sempre bisogno di fare. Così a volte te ne andavi sulla spiaggia, là, a Essaouira, e ti riempivi le vene. Tu ti facevi per le strade della provincia d’America, nei cessi dei locali al suono del bebop e tra le gambe pelose di qualche amico.

Ti spogliavi con la naturalezza di chi cambia abito ogni giorno e usa il corpo come un appendino, nessuna paura del contatto fisico, nessun timore per l’esposizione al sole del giudizio. Così ti facevi, anche grande, ammettiamolo, e diventavi noto e stimato e frequentavi i salotti, sposavi donne per gentilezza o per la passione comune alle droghe, lasciavi il loro letto vuoto frequentando le schiene robuste degli uomini dei bassifondi. Chissà a quale dio ti rivolgevi col laccio emostatico e la siringa, i cucchiai sempre caldi e nessun brodo per sera, soltanto rituali per godimenti estatici e fuggivi.

Tutto è dolore e consapevolezza, e ti mettevi a scrivere e ti rivoltavi di barba e di ossa, non c’era tempo per sorrisi prolungati e gioie grandi, schiamazzi e grida, e dopo ogni fuga un’altra occasione da creare, un rischio da correre. Uccidesti tua moglie giocando a fare il Guglielmo Tell, nessuno se ne accorse, nessuno t’accusò, sapevi amare? Te ne sei andato rincorrendo canoe e carta, giù in Sud America e poi fino a Tangeri, il nero del Marocco, le case vuote e il fumo denso prima di prendere sonno, gli hammam per consumare l’amore.

Poi sulla spiaggia, sulla spiaggia ancora, tutto ci porta là, l’incontro con Jack e tu, fottuta pecora nera, drogato, frocio di buona famiglia, nel tempo che non chiede conti e porta falò per bruciare rimorsi, prendevi i tuoi scritti, cara grazia gli amici, e li mettevi insieme, ne usciva Pasto Nudo, lo pubblicarono e tu fosti famoso, mai indipendente.

I soldi della famiglia, perché dire no a chi tutto può. Così Parigi è un istante, tra le elite parigine non devi svelare molto, basta il vestito, il modo cortese, il fare arrogante. Tutto d’un pezzo, mai così diviso. Il tuo corpo si faceva più fine, i tuoi occhi più lunghi, il tuo culo, oh, ne parlavi sempre e nessuno ti ha mai detto di smetterla con la roba. Sacra lei più dell’alcool, i tuoi rituali, la tua spiritualità così ammirevole, sapevi tutto anche dei Maya.

Non lavoravi quasi più, chi non lavora pensa e contesta, lo sai, lo sappiamo entrambi perché affogavi le tue notti, imparavi, imparavi soltanto, non solo per necessità, ma per scelta, ti trascinavi qua e là soltanto per vedere cosa succedeva. E succedeva. Amavi il bardo Shakespeare, chissà com’è, chissà perché, raccontava storie, scomponeva la vita per poi ricomporla, tu invece, noi, beh, noi, che fine abbiamo fatto noi? Noi che eravamo disperati e felici, disperati e felici.

Rimpiangiamo il passato e sentiamo ancora il richiamo della strada, l’ululato del cane e le grida invadenti, là al tavolo ci sono le ragazze, vieni con noi, William? Certo, amico, non vorrai lasciarmi qui, solo, in compagnia delle foto bianche che mi ritraggono sempre più magro, sempre più solo. La mia malinconia, non si era soli allora, mai, e invece adesso? Si scrivono romanzi e finiscono sempre bene.

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