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A te, Jack, nell’anniversario della tua morte

“Vertiginosa, dolce, le più belle caviglie delle vostre meravigliose bellezze non potevano reggere il confronto con un atomo della carne di Maggie nella cavità delle ascelle, tutti i loro occhi, i diamanti e i vizi nessun confronto con la mia personale e intensa visione di Maggie polvere di stelle.”

Sono parole d’amore, di visioni intense e personali quelle che mi vengono in mente oggi. Maggie Cassidy è il suo libro preferito, uno dei tanti a dire il vero, l’unico però dalla prosa che le appartiene e appartenendo a lei appartiene anche a me. Lei è una mia amica, un’amica di quelle che ce ne sono una e basta che le incastri al cuore e quello sanguina ma poi si abitua al chiodo e se lo togli comincia a sputare sangue qua e là e poi muori perché così è la vita in solitudine, un disfacimento lento farcito di cinismo. Sono passati 46 anni dal tuo ultimo giorno, amico mio, e le parole che di te ricordo son quelle dell’amore. Sarà per la mia età, trent’anni che saranno mai, diresti tu, alza il culo e vai a gioire, amico. Che “Non abbiamo tempo, è una notte eccitante in cui sta accadendo tutto non solo a te ma a tutti quanti perché sta accadendo a te! Siamo raggianti, sazi, malati di felicità.”

La felicità come malattia, come l’amore. L’ho realizzato ieri a notte inoltrata mentre il mio motorino ronzino di ferro mi riportava a casa sfilando le rotaie dei tram. Sono guarito, Neve non è più, o almeno, è ancora e sempre sarà, il lungo inverno del mio cuore bianco. Sono solo e ramingo ora, pugni chiusi e rovinati per le battaglie con lo specchio, sguardo ancora sporco, quanto ci vorrà per lavarmi l’anima? Vorrei parlare a tu per tu, io e te, chissenefrega dei cantanti, chissenefrega dei filosofi, mi annoiano, sai. Tu e i tuoi campi infiniti, i viaggi coi pantaloni sporchi sulle ginocchia le camicie tese tra le tue spalle larghe. Tu che mi inviti alla felicità e mi assomigli in sentire e profondità e debolezze e perdizione e disordine. Il tuo alfabeto mi scardina le costole e arriva a bussarmi alle viscere. Io ti comprendo, tu mi comprendi. Sei annegato nell’alcol, non ce l’hai fatta e potrò mai fartene una colpa? Se fossi vissuto più a lungo ti avrei cercato come un fratello di cui s’ignora l’esistenza fino alla rivelazione improvvisa e alla rincorsa. Avremmo bevuto, questo lo so, poi lunghi silenzi, lo sguardo basso sui culi delle cameriere e delle passanti, sulle caviglie fini che ci ha disegnato Truffaut, basta così. Stare insieme e nulla più. Avremmo parlato disprezzando qualsiasi cosa perché è il nostro modo di amare, la nostra dolcezza, viene fuori così, come gli astici, noi.

È una stronzata scriverti ora, nell’anniversario della tua morte, il punto più alto della tua debolezza. Ma i pensieri degli uomini hanno bisogno di appuntamenti, ieri tutti sono impazziti per l’anniversario un futuro di fantasia, io impazzisco per tutto quello che mi è vietato vivere, per la difficoltà dell’amore, per quel calore che soltanto la tavola sa dare. “Vuoi sederti qui, con me? A fare cosa? Nulla. A passare il tempo. A stare nel tempo.” Che importanza ha tutto quello che veloce scorre intorno quando poi un paio di caviglie, capelli neri lunghissimi e colori pastello ci fanno perdere il senno?

Amico mio, carissimo, amico mio, compagno, nel paradiso di tutti i paradisi tu sei perché là sei sempre stato. Se siamo nati così, imperfetti, indecisi, irascibili, amanti dell’alcol e dell’amore bianco, orfani della grazia, travolti dalla nostra sensibilità, irresponsabili amanti degli esseri umani, seguaci del viaggio e ricercatori saltuari del silenzio, se siamo nati così l’importante è riconoscere un nostro simile per non sentirci soli. Tu sei, sei stato, ci sarai, chissenefrega della retorica amico mio. Ti vorrò bene oggi e ancora e ancora.

Marco

“Conoscevo gioie non per nome ma perché mi attraversavano il petto che raggrumava il sangue caldo e scomparivano senza aver conosciuto nome, ignote, non comunicate ai pensieri di altri ma ordinate nello stesso modo e quindi come i pensieri del negro, intensi, normali. Fu più tardi che ci gettarono giù dal cielo apparecchi radar per confonderci i sensi. Basta con gli eccessi di Rimbaud! Piansi ricordando il bel volto della vita quella notte.”

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Per la nostra beatitudine, buon compleanno Jack Kerouac!

“Ah ma «non so, chi se ne frega, non importa» sarà l’estrema preghiera umana.”

Sono parole di Jack Kerouac, nato il 12 marzo di novantatré anni fa. Le ha scritte in uno dei tanti momenti di smarrimento, di quell’infinita, desolata tristezza che vieta di immaginare futuri sorridenti. Io, che sono ancora sulla terra dei vivi, dei “chi se ne frega” e dei “non importa” non so che farmene. Sono uno che scrive alle sue ex ragazze per sapere come stanno, sono uno che non accetta di voler male a una persona solo perché quella mi ha fatto del male. Sono capace dell’odio e dello scherno, ma basta una bottiglia, del vino e un polso magro, una camicia bianca e capelli lunghissimi a cui scrivere parole e rabbia, invidia e ideali di morte si trasformano in umano compatire e paroline d’amore.

Oggi è il tuo compleanno Jack e come ogni anno ti scrivo, vorrei dire che dovunque tu sia mi leggerai, ma è una stronzata perché nessuno li legge i testi degli aspiranti scrittori. Dovevo sedermi di fianco a te in un bar, coglierti alla sprovvista e leggerti le mie cose, ma di solito dopo un wow iniziale questo mi porta verso dolorosi insuccessi, quindi meglio così, che per evidenti questioni d’età l’occasione non si sia mai presentata. Ora non desidero parlarti di me, ma dirti qualcosa che forse non sai. Quando sei diventato famoso non hai più smesso di bere e ti è scoppiato il fegato, non sei nemmeno riuscito a contarle le ventisei trasfusioni che ti hanno fatto, non ti sei svegliato più e avevi solo quarantasette anni. Quello che non sai è che dopo che sei morto tutti quei cravattini che ti compativano quando arrivavi ubriaco alle interviste nei loro mosci talk show sono venuti al tuo funerale e hanno raccontato di quanto eri gentile, dolce, poetico, fantastico, sorvolando su tutte quelle risse da bar in cui sei finito invischiato e sui tuoi giudizi poco lusinghieri nei confronti dei loro salotti. Sai, quando non ascoltiamo gli altri possono dire tutto e la realtà è fatta per sentito dire. Lascia perdere, perché in molti hanno riconosciuto il tuo valore, pure gli hippy che tanto criticavi hanno cominciato a sformare le tasche dei loro jeans attillatissimi per infilarci i tuoi libri. Beh, On the road è diventato un mito, lo era già quando tu eri in vita, eh, ma ora mi è capitato di prenderlo in biblioteca e trovarci scritto con inchiostro colorato e cuoricini: “Il beat è la vita, leggete On the road” o “Jack Kerouac uno di noi”.

Siamo nell’anno 2015 e la maggior parte degli scrittori odia stare in gruppo e condividere una certa idea di letteratura. Mi viene in mente quando te ne sei andato in Marocco da Ginsberg e ti sei messo a battere a macchina il suo manoscritto, eri famoso allora, vivevi ancora con tua madre anche se avevi da parte dei bei dollaroni, continuavi a dire che avevi un sacco di soldi ma i soldi erano soltanto soldi e allora andavi a trovare i tuoi amici perché con loro ti sentivi proprio tu e l’alcol non era una fuga ma una condivisione che esaltava i caratteri e i discorsi. Sei stato fortunato, sai? Sono ancora convinto che Ginsberg ti volesse bene ma che tu abbia giovato non poco alla sua carriera, che Burroughs fosse un bel tipino da frequentare ma l’incontro decisivo della tua vita è stato Neal. Perché Cassady era un bel fusto, amava lo sport, rubava le auto, era contro tutte le convenzioni e amava la letteratura, ma che vuoi di più da un amico? Se quelli si drogavano da fare schifo e l’energia lisergica animava le vostre discussioni con Neal tu avevi trovato quell’umanità che ti mancava, l’amico vero, ci parlavi di poesia, gli facevi leggere i tuoi scritti come facevi con gli altri, ma quello che più conta è che andavate insieme per le strade, in cerca di una beatitudine che pensavate di poter sfiorare, in cerca delle guance di donne incontrate sulla via, di storie raccontate dai vecchi in coda dai benzinai o nelle baite in montagna. Quello che ti voglio dire è che mi sarebbe piaciuto incontrarvi e andarcene tutti a vivere sui monti, a seguire la dottrina di Thoreau, forse avrei scritto degli haiku più belli dei tuoi, ci saremmo sfidati davanti al fuoco per annullare la noia. Perché non c’erano gli smartphone ai tempi tuoi e non ci si continuava a distrarre inutilmente alle luci dei pixel. Mi sarei stancato in fretta come ti sei stancato tu, perché gli amici prima o poi prendono le loro strade e tu ti ritrovi da solo e non sai che fare, perché amico mio, tu sei finito quando ti sei sentito solo. Quando Burroughs e Ginsberg si davano alla gioia dei salotti, quando Neal si era accoppiato e lo sai che le donne cambiano tutti gli equilibri. Tu non eri fatto per la vita da marito, perché hai continuato a sposarti? Credevi forse che prima o poi qualcuna potesse raccogliere tutto il tuo amore? Ne avevi troppo e una donna non era abbastanza.

Ti hanno chiamato folle e all’inizio ti faceva piacere, poi ti sei ribellato, dicevi che se i folli fossero felici i manicomi sarebbero oasi di gioia. Il tuo alfabeto per anni è stato incomprensibile. Tutti pensavano che le tue parole fossero dono dell’alcol, del narcisismo, della presunzione, perché tu parlavi come scrivevi, tu parlavi come vivevi. Non ti vergognavi di chiamare in causa Dio e di chiedergli il perché dell’infelicità dell’esistenza. Ricordi quando hai detto che Dio era il contrario di cane (nella tua lingua certo, ti riferivi a God e a Dog), te lo ricordi quando scrivevi che Dio era Winnie Pooh? Provocatorio sempre. Eppure ci credevi davvero nel Cristo e ti dava noia Tolstoj perché troppo ingessato mentre in Dostoevskij trovavi un Gesù vivo.

Io ti capisco, sai, perché non hai mai imparato la pazienza ed eri sincero e istintivo, e spaventavi, oh come spaventavi, perché eri anche bello e profondo e sensibile. Tutto questo non può essere del mondo, non lo era quando eri in vita e non lo è nemmeno ora. Siamo gente che finisce male perché seminiamo la fiducia e cambiamo rotta di continuo per un amico, per una caviglia stretta, per una nevicata o per vedere il mare. Ci dovessimo chiedere dove siamo che risponderemmo? Hai risposto tu per tutti noi, con mille case, senza una casa, con mille amori, senza un amore, con una musa che non vuole attenzioni. Cosa ci resta? Gli amici e i loro rifugi e poi la strada, noi siamo là, come tanti autostoppisti, pronti a cogliere il presente e godere dei tragitti, incapaci della sosta, amanti del rischio di essere uomini tra i robot.

Lo sai bene che ho letto tutto quello che hai scritto e trovo i tuoi diari inarrivabili. Perché oltre alla scrittura riveli tutta la tua imperfezione, la tua umanità. Ho smesso di conoscere gli artisti che ammiro perché sono sempre rimasto deluso da quello che c’è dietro al personaggio, si rivelano spesso costruiti, non falsi, no, è un altro il discorso che faccio. Tu eri tu sempre, magari avremmo fatto a botte, sono certo ci saremmo abbracciati e avresti provato a baciarmi in bocca come si fa tra amici ubriachi. Aver letto tutti i tuoi libri ha fatto sì che io uscissi dalle categorie del bello o del brutto, del mi piace o non mi piace, ma cominciassi a compatirti, a sentire con te. Così nelle tue pagine ci sono tutte le contraddizioni, i dubbi, i desideri, le gioie e le sconfinate tristezze della vita di un uomo bello e sensibile, l’ho detto e lo ripeto, amante delle lettere, dello sport, ma sopra tutto dell’esistenza, delle persone, del vino.

Sei morto di vino e di solitudine. Sei morto perché ti sei donato completamente. Come il tuo Cristo.

Sai, ora a Lowell arrivano i bus che trasportano i turisti a vedere la tua casa, c’è una biblioteca che ospita le bozze originali dei tuoi scritti, a San Francisco una via porta il tuo nome. Organizzano letture pubbliche e provano il ritmo bebop della tua parola libera. Io col tuo nome ci chiamo la strada, io col tuo nome ci chiamo tutte le mie velleità di scrittore. Gli uomini come te rimangono, mentre le stelle cadono e provano a confonderci, siete bagliori che guidano lo sguardo sulla strada vera, quella che porta a una non precisata, indefinibile, beatitudine.

Foto: dalla rete.

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In morte di fratello Jack Kerouac

“A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione.”

Era il 22 ottobre 1969 e moriva Jack Kerouac. Era il 22 ottobre 1969 e tornava alla vita Jack Kerouac.

Fu il successo a ucciderlo, una solitudine invasa dalle telecamere, dai viaggi su aerei di prima classe che non facevano mai un ritardo e cosce sode di hostess ammiccanti, litigi a causa dell’ubriachezza e il peso troppo grande dell’essere diventato un punto di riferimento per una generazione, il padre di un movimento chiamato beat che comprendeva ormai hipster, capelloni e debosciati tutti e aveva perso così la sua identità profonda. Un movimento che considerò fallito, ne uscì come un santo, martire della sua stessa aspirazione all’altissimo.

La morte lo colse al culmine della vita, quarantasette anni per lui che visse molto e scrisse molto, e possedeva verità di storie da raccontare e strade da attraversare. Gli chiesero che ne pensi della guerra in Vietnam, rispose evidentemente alterato dall’alcol che ai vietnamiti piacevano le Jeep, il desiderio era la causa del conflitto. Se una donna lo intervistava provava a sedurla, ma quale seduzione? Soltanto una spinta alla follia delle intimità, alla complessità della vicinanza. Non solo un su e giù di sessi come alternativa alla solitudine della notte, ma un incontro tra anime nude.

Bisogna essere come Jack per capirlo fino in fondo o almeno cercare nelle tapparelle abbassate uno spiraglio di luce prima della sveglia e delle otto ore del lavoro quotidiano. La beat, non era soltanto droghe, eccessi e sessualità esibita, era incontro, stile non artefatto, prosa musicale, tensione assoluta verso la beatitudine, e tutto il resto solo chiacchiere, modaiolo vociare. Non esiste un’estetica che prescinda dal sentire, la parola beat cerca l’armonia e parte dalla verità dell’uomo, testimonia la sua infinita debolezza nella ricerca di una salvezza beata. Lontani i dandy nei loro pantaloni stretti e stirati, lontane le camicie chiuse all’ultimo bottone, sfilano villosi petti per le strade d’America e le spiagge del Marocco. L’occhio furbo di Burroughs, l’urlo liberatorio di Ginsberg, tutti quegli amici che in vecchiaia portarono barbe lunghe e i cui tratti del viso assunsero dolcezza.

Anche Jack fu un uomo dolce, pauroso, fu Jack un uomo rude, coraggioso, sportivo. Amava sua madre al punto da confidarle tutta l’allergia alle scrivanie degli uffici e la sua difficoltà nei rapporti duraturi, quando bastava una piega del mignolo a farlo innamorare. Poi colazioni a base di uova e bacon e notti insonni a battere sui tasti, poco equilibrio nei giorni, momenti di lucidità per scrivere un diario che assomiglia a un Vangelo da tenere sempre sul comodino. Domande sul senso.

“Qual è la tua strada amico? La strada del santo, la strada del pazzo, la strada dell’arcobaleno, la strada dell’imbecille, qualsiasi strada. È una strada in tutte le direzioni per tutti gli uomini in tutti i modi.”

Jack parlava così, in molti pensavano recitasse, spesso capita così quando non c’è distanza tra vita e alfabeto, si rischia di divenire incomprensibili ai più. Kerouac era la sua parola.

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Poteva una donna prendersi carico di tutta quell’irrequietezza, di un desiderio per la novità delle esperienza, di un’idea di rifugio che non è casa, ma viaggio, di un’interiorità che non rimane nascosta ma esplode in parole? Poteva una donna non rimanere affascinata dall’eloquio profondo e a tratti surreali, da un corpo da Cristo avvezzo ai piaceri, poteva una donna non temerlo e allontanarlo fino a relegarlo a un’infinita solitudine?

La scrittura era necessità salvifica, consolazione e anche professione, contava le battute scritte ogni notte il fratello Jack, correggeva, rifiniva e pensava: quando pubblicheranno i miei libri e non dovrò più preoccuparmi di guadagnarmi soldi per lo sconosciuto domani, potrò bere birra di qualità e far riposare la testa su un cuscino, quando avrò il denaro necessario per non chiedere l’elemosina a mamma, quando lei mi vedrà felice e sarà consolata in vecchiaia, quando… quando poi tutto arrivò non seppe reggerne l’impatto. Il suo ultimo romanzo fu Vanità di Duluoz, cambiò stile, meno istintivo, più semplice, ricordi di infanzia, la tensione verso la grande gioia ormai depotenziata, non guardava più avanti Jack e tirò fuori una prosa stanca e sofferente, poi non scrisse più.

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Diventò una star in vita questo un cantore dei vinti e della sconfitta. Non ebbe mai paura di mostrarsi fragile, beveva e beveva perché non si sentiva a suo agio nei salotti, quando abbandonava la strada per rifugiarsi nella sua stanza fatta di letto e scrivania il mondo si faceva troppo distante fino a divenire irraggiungibile, inabitabile e per questo insopportabile. L’unico rifugio, oltre alla carta, oltre alla strada, era la tavola con gli amici fidati: lo stesso alfabeto, lo stesso sguardo, fare notte a leggere poesia, confrontarsi su qualsiasi cosa, diventare surreali in discorsi e droghe e alcol e prendere sonno senza coscienza. Perché la coscienza fa impazzire.

“Sono hip, ma non esibizionisti, intelligenti, ma senza pedanterie intellettuali fin nelle dita dei piedi e sanno tutto-tutto su Pound eppure non la mettono dura e non si parlano addosso in continuazione e sono tranquilli e silenziosi come tanti cristi.”

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E alla mattina, lucido e provato dalle notti, si interrogava sul perché delle azioni quotidiane, della riflessione buddista, delle pagine del Vangelo e di un Cristo sempre più modello di vita:

“Una tazza di caffè e una sigaretta, perché fare zazen? E da qualche parte c’è chi sta combattendo con spaventose carabine, le mani incrociate sul petto, le cinture appesantite dalle granate, in preda alla sete, alla fame, al terrore, alla pazzia.”

E provava a rispondersi mentre tra gli haiku cercava la semplicità.

“Il cielo è blu perché tu vuoi sapere perché il cielo è blu.”

Poi mille e più propositi per una vita felice: “Inoltre oggi ho deciso di non ubriacarmi più, almeno non nel mio solito modo. E’ strano che non ci abbia mai pensato prima. Ho iniziato a bere a diciottanni, ma adesso, dopo otto anni di sbronze occasionali, non lo tollero più, sia a livello fisico sia mentale. E’ stato quando ero un diciottenne che la malinconia e l’indecisione si sono impadronite per la prima volta di me, di certo esiste un legame tra l’alcool e questi stati d’animo. Le ubriacature bloccavano quella che potrei dire l’andatura del mio carattere. Quando sono sbronzo crollare spiritualmente e mentalmente diventa la cosa più facile del mondo. Allora basta. Ci vorrà del tempo, però, prima di riuscire a tener fede a questa promessa, ma devo farlo. Sembra che io abbia una costituzione che non regge l’alcool e ancor di meno l’idiozia e l’incoerenza.”

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Immaginate ora Jack, seduto al vostro tavolo con la camicia a quadrettoni, la sigaretta accesa, il bicchiere sempre vuoto, che parla della luna e del sistema solare, delle serate ancora da vivere e di quelle già vissute, non mostra strade né prospettive, vi guarda e non sorride, ma lo sentite così vicino e presente, incapace di farvi dimenticare quella solitudine malinconica che non vi lascia mai, ma capace di stare al vostro fianco e di offrirvi una spalla e ascolto e racconto. Jack è più di uno scrittore, è compagno, fratello, oltre le pagine, oltre ai romanzi.

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“Devo essere felice o morire, perché la mia condizione terrena è piena di una tristezza insostenibile e io do la colpa a Dio anziché a me stesso.”

Questa felicità, questa felicità di cui tutti parlano che cos’è, fratello Jack Kerouac? Lo immagino scuotere la testa, poi appisolarsi sul divano, un sorso di whiskey, poi a bassa voce:

“Una macchina veloce, l’orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada.”

 

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A William Seward Burroughs nell’anniversario della sua nascita

Rimanere immobili è pericoloso, dicevi, tu che immobile non ci sei rimasto. Tu che hai fatto di tutto rendendo ogni lavoro degno del tempo, dell’attenzione. Senza borie vane, senza regola, né pensiero rivolto a futuri lontani.

Erano altri tempi, certo, non preoccuparsi del precariato perché c’era sempre bisogno di fare. Così a volte te ne andavi sulla spiaggia, là, a Essaouira, e ti riempivi le vene. Tu ti facevi per le strade della provincia d’America, nei cessi dei locali al suono del bebop e tra le gambe pelose di qualche amico.

Ti spogliavi con la naturalezza di chi cambia abito ogni giorno e usa il corpo come un appendino, nessuna paura del contatto fisico, nessun timore per l’esposizione al sole del giudizio. Così ti facevi, anche grande, ammettiamolo, e diventavi noto e stimato e frequentavi i salotti, sposavi donne per gentilezza o per la passione comune alle droghe, lasciavi il loro letto vuoto frequentando le schiene robuste degli uomini dei bassifondi. Chissà a quale dio ti rivolgevi col laccio emostatico e la siringa, i cucchiai sempre caldi e nessun brodo per sera, soltanto rituali per godimenti estatici e fuggivi.

Tutto è dolore e consapevolezza, e ti mettevi a scrivere e ti rivoltavi di barba e di ossa, non c’era tempo per sorrisi prolungati e gioie grandi, schiamazzi e grida, e dopo ogni fuga un’altra occasione da creare, un rischio da correre. Uccidesti tua moglie giocando a fare il Guglielmo Tell, nessuno se ne accorse, nessuno t’accusò, sapevi amare? Te ne sei andato rincorrendo canoe e carta, giù in Sud America e poi fino a Tangeri, il nero del Marocco, le case vuote e il fumo denso prima di prendere sonno, gli hammam per consumare l’amore.

Poi sulla spiaggia, sulla spiaggia ancora, tutto ci porta là, l’incontro con Jack e tu, fottuta pecora nera, drogato, frocio di buona famiglia, nel tempo che non chiede conti e porta falò per bruciare rimorsi, prendevi i tuoi scritti, cara grazia gli amici, e li mettevi insieme, ne usciva Pasto Nudo, lo pubblicarono e tu fosti famoso, mai indipendente.

I soldi della famiglia, perché dire no a chi tutto può. Così Parigi è un istante, tra le elite parigine non devi svelare molto, basta il vestito, il modo cortese, il fare arrogante. Tutto d’un pezzo, mai così diviso. Il tuo corpo si faceva più fine, i tuoi occhi più lunghi, il tuo culo, oh, ne parlavi sempre e nessuno ti ha mai detto di smetterla con la roba. Sacra lei più dell’alcool, i tuoi rituali, la tua spiritualità così ammirevole, sapevi tutto anche dei Maya.

Non lavoravi quasi più, chi non lavora pensa e contesta, lo sai, lo sappiamo entrambi perché affogavi le tue notti, imparavi, imparavi soltanto, non solo per necessità, ma per scelta, ti trascinavi qua e là soltanto per vedere cosa succedeva. E succedeva. Amavi il bardo Shakespeare, chissà com’è, chissà perché, raccontava storie, scomponeva la vita per poi ricomporla, tu invece, noi, beh, noi, che fine abbiamo fatto noi? Noi che eravamo disperati e felici, disperati e felici.

Rimpiangiamo il passato e sentiamo ancora il richiamo della strada, l’ululato del cane e le grida invadenti, là al tavolo ci sono le ragazze, vieni con noi, William? Certo, amico, non vorrai lasciarmi qui, solo, in compagnia delle foto bianche che mi ritraggono sempre più magro, sempre più solo. La mia malinconia, non si era soli allora, mai, e invece adesso? Si scrivono romanzi e finiscono sempre bene.

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Buon compleanno, fratello Jack Kerouac

A te che sei nato oggi, alle tue scarpe consumate, alle tue colazioni improbabili, alle guance sporche di nero e alle ferrovie americane.

Le palle lanciate sui campi da baseball, le fotografie in bianco e nero e la mascella squadrata.

Ai tuoi amici bellissimi, all’omosessualità esibita sulle spiagge marocchine, ad Essaouira e al grande sud.

A chi ti descrive come un vagabondo, un furfante, un piacione. Ai film americani e alle attrici bellissime. Alle tue prime serate e agli scrittori che sanno leggere a voce alta. Al bebop jazz della nostra scrittura che prende forma nell’aria e negli occhi e fugge dai classici.

Noi orrore delle case editrici: le frustrazioni degli editor per le nostre ansie.

Alle tue camicie a quadri, alle tue mani forti.

Alle sedie troppo basse, a quelle troppo alte, alla nostra schiena storta. Ai fogli stracciati e dispersi. Al ticchettio della macchina da scrivere. Ai vuoti delle bottiglie di birra, ai rutti sonori, i vaffanculo fuori dai locali, le gonne leggere delle adolescenti e labbra rosse per morire da vergini.

Il beat nervoso della tua voce, le lunghe pause e gli haiku per cercare la pace.

Ti presentavi alle interviste ubriaco per rispondere alle domande insensibili del pubblico adulto. Ti capisco, amico, quando cercavi la beatitudine e ti trovavi davanti il rispetto educato dei tailleur e le cravatte a righe dei professionisti della questua.

Ed io lo so che avresti preferito pisciare dai tetti o il petting spinto tra le auto parcheggiate a fila. E poi il senso di colpa della nostra istruzione cattolica, le ore spese in pigrizia e chiedersi il perché delle performance senza tregua degli altri.

Spaventiamo le femmine con le nostre domande sudate, l’impervia scalata del cuore degli altri mette in conto il sangue.

Tagliavamo pane e salsiccia per rimanere in contatto con la natura. E Gesù il Cristo in croce sui nostri letti, la benedizione alle nostre notti insonni, alle mattine trascorse a riprenderci.

E combattevamo la retorica del cielo, e usavi la parola stella perché prima o poi esplodessimo in luce. La necessità della scrittura come una doccia, i nostri abiti sporchi del pensiero nero e della debolezza incredibile che sapevamo riconoscere, ma non lasciavamo mai.

Che nei primi anni della nostra vita ci vergognavamo ad usare parole come seno, e sesso, e successo, ed ora andiamo di cuore e lasciamo la fica alle bocche degli altri. Che preferiamo i particolari, gli occhiali grandi e le vene pronunciate, le dita lunghe e le unghie curate.

Ti ho scoperto in via Festa del Perdono, Milano di luglio e motorini in festa. Ho comprato il tuo diario al Libraccio, On the Road lo avevo impilato tra le velleità della mia gioventù, tra la mia Africa e il Baobab della savana eritrea.

Che beat è beatitudine, cercare la purezza nelle viscere del proprio io, il sangue in grumi alla nascita e il desiderio dell’amore universale che non riesce a prendere forma.

Per questo versiamo cenere sui pavimenti in legno delle nostre case piccole, chiediamo scusa al mondo per le nostre domande di troppo e raggiungiamo il mare per dare sfogo alla nostra ricerca dell’infinito.

E come le onde torniamo sempre, il moto perpetuo del nostro sentire, ti scriverò ancora, e un’altra volta, una ancora, che per me sei oggi e buon compleanno, fratello Jack Kerouac.

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