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Verrà poi Draxler alla Juve?

Sarà il calciomercato, l’avvicinarsi di settembre, dormire con le finestre chiuse, respirare sempre la stessa aria da troppi giorni. Un treno, rotaie lunghissime, aria condizionata e poi prati verdi, bicchieri di vino e case bianche. Questo ci vuole, cambiare aria al pesce, spostare latitudini. Mi hai scritto proprio ora lo stress è come un bicchiere d’acqua, se lo prendi in mano è leggero, se lo reggi per un’ora è insopportabile. Mollare bisogna, non preoccuparsi dei vetri e del rumore al contatto col suolo, sedersi dove capita, ferirsi coi ricordi e lasciare che il sangue sgorghi un poco, poi il tempo, le piastrine e tutto il resto, il taglio si rimargina e il dolore che porta diventa un ricordo. Certo che l’ansia di non sapere se Draxler verrà finalmente a regalare poesia all’attacco bianconero per me rimane un peso. Verrà il trentuno del mese e avremo chiuso con tutte le dicerie e i discorsi fuorvianti e sarà tempo di fare i conti con quel che c’è, decidere il modulo, dare fiducia al capitano e sudare e sudare negli allenamenti per fiorire in partita e vincere, vincere, vincere non trascurando il bel gioco. È il quinto caffè che mi annerisce lo stomaco, è il terzo sonno dalle tre del mattino, dovresti smetterla, colora di bianco i tuoi denti, dici così, a me, intollerante ai latticini e ai consigli. E mentre tutti tornano noi partiamo, e mentre tutti dormono noi dormiamo. Smettila di cercare l’orizzonte, dici ancora, e io che gli orizzonti li ho sempre inseguiti ora che faccio? Basterà un balcone? Un letto? Una finestra? È inevitabile. Guarda i miei occhi ora nuovi, ne ho consumati un paio o forse più, guardaci dentro e dimmi che vedi. Io ancora niente, sono in rodaggio. Comincio con te, rimani qui, proprio davanti, e prima metto a fuoco e poi mi guardo intorno, così che tutto, questa volta, lo sai, parte da te, che sei mio occhio, mia destra, mio inaspettato orizzonte.

Foto: © Giulia Bersani

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Bandiera

Mi riferisco all’esperienza umana di chi è deputato, onorevole. Di chi è prete, suora, monaco o che altro. Di chi è cittadino impegnato, di chi è laico. Di chi è maestra, maestro, professore, docente, preside, rettore. Di chi è secondino, appuntato. Di chi è prigioniero, di chi è parente di un condannato, di un militare all’estero. Parlo di un medico, di un primario, parlo di un paziente.

Parlo ai di chi, e mi riferisco all’uomo.

Le istituzioni dai muri scrostati e la scarsa fiducia del prossimo. Che il massimo della generosità è il dono di una sigaretta fuori da un locale.

Tutta questa sfiducia nell’altro e noi vittime delle sentenze saccenti delle istituzioni sacre: il governo, la chiesa, la scuola, il carcere, l’ospedale.

Figlie e figli di un epoca che ha costruito grattacieli ideati in fantascienza e padiglioni iper-accessoriati, che ha lasciato le case basse alle campagne.

Io figlio, io cittadino, io adulto, io giovane. I giovani non esistono c’è scritto sul muro della mia scuola superiore.

C’è un atrio dell’università statale che mi interroga sul presente. Che siamo ancora nel ’68? Gli stessi slogan, gli stessi vestiti e pure i libri di allora. I cinquantenni hanno perso, miei cari, di quella generazione sconfitta cantava Gaber al Jamaica, e così è. Ci hai preso mai da bere al Jamaica? Hai consumato la notte in un Arci? Hai ballato mai il Sudamerica per le strade strette della Milano che dorme? Ci si ritrova anche oggi, si suona, si canta, si balla, si scrive e si crea. Che siamo un po’ confusi e non sappiamo fare gruppo, ma ci siamo anche noi. Non siamo giovani, non siamo niente. Non siamo corrente, non siamo i sessantatre, non siamo primavere né futuri probabili, non siamo, non siamo, non siamo?

E continuiamo a ragionare per categorie e abbiamo lasciato l’impegno civile ai nostri discorsi la sera tarda al bar, parliamo di politica come si fa col calcio, analizziamo schemi che non esistono e i caratteri dominanti della classe dirigente. Mi è simpatico. E’ antipatico, come Mourinho, ma dice quello che pensa e ci sa fare coi giornalisti.

Precario il mio pensiero di oggi, parole in bell’ordine per dare forma al vuoto e domanda di senso.

I miei pantaloni a quadri bucati sulla tasca sinistra e il peso del portafoglio. Il desiderio dell’estero per mettere fine alle relazioni stanche di qui. In vacanza dalle consuetudini per riappropriarsi di senso, di voglia, di un credo. Che il credo salva lo sai, in cosa credi tu? Almeno in te stesso, tu puoi?

E del Nirvana non me ne frega un cazzo. La voce di Kurt Cobain e Polly vuole un cracker.

Questo scoprire che non si può mettere freno all’amore, che il desiderio ci svela le alte sfere. Io non ci credo quando Battiato dice che non ha mai amato, che il letto è bello vuoto. Io non ci credo a chi lascia da parte la carne, e con carne intendo corpo e cibo e vino buono e profumi e stile nel vestire.

Non sono le parole dei grandi che guidano il mio fare di oggi, ricerco sulla strada i corpi che san farsi citazione e capelli a cui appigliarmi. Mi incantano le personalità note quando ne scopro le debolezze.

L’umanità è svelamento del sé, non sarò mai tuo amico se non so nulla delle tue bassezze, dello sporco che ti si accumula tra i capelli e del bisogno di ricambio della cute consumata.

Mi interessano i giornalisti che fanno della parola una bandiera necessaria e scoprono il mondo passo dopo passo, la fronte sudata, issano il vessillo in alto quando il vento è propizio e questo garrisce e colora il cielo grigio dei nostri giorni stanchi. Lo portano sulle spalle quando non spira brezza alcuna e siamo incastrati in gole, in apnea sotto i mari. Ma non lo abbandonano mai. Mai. Il peso del gonfalone, bandiera e asta e segni sulle spalle e calli sulle mani. Gli articoli e la libertà di Gianni Brera, la parole necessarie ed intime di Gianni Mura al tempo dei funerali.

Dovremmo inventarci dei soprannomi io e te, lasciarci andare ai dialetti.

Non voglio trascurare l’impegno pensando al prossimo come a cemento armato, vittima lui dei poteri forti, pavimento e fondamenta su cui si alimenta il sorriso del capo.

Rinnego le lobby, il frastuono degli accordi sotterranei, gli amori stanchi, la convenienze.

Mi dono al cambiamento, al nuovo, alla sorpresa degli incontri, agli sconosciuti, agli amori impossibili.

E vado per mondo con un bagaglio minimo: un computer, una penna, il pensiero. E diffido dei nostalgici, di quelli che il profumo della carta, di quelli che abusano del Quelli Che….

E credo nei ritmi, nelle parole indispensabili, nelle rime baciate, nelle strofe necessarie dei cantautori, nelle preghiere cantata, nel silenzio delle chiese e nelle loro porte grandi, nel valore del voto.

E così mi consegno a voi ogni giorno con queste parole fragili, il mio stendardo da sventolare, che se mi guardate a schiena nuda potete curarmi le piaghe.

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Queste domeniche che rimaniamo aggrappati al cielo e ce lo rivoltiamo addosso per prenderne i colori e decidere l’umore a seconda del tempo. L’azzurro dei tuoi occhi di ieri e questi tè caldi che mi costringono a entrare nei bar senza ordinare nulla e intuire il posto della toilette provare col comando in fondo a destra e perdersi nelle cucine sporchissime a raccogliermi le braccia al petto come stelle cadenti e non avere spazio per stringere desideri. Dove finiranno i nostri liquidi, dove finiranno le nostre perdite di tempo a inseguire cinema che sanno di naftalina e immaginarci un posto nei ricordi. Caricare la schiena di progetti inverosimili e chiudere la porta alle realtà dei campi e alla brina d’agosto delle montagne argentine. Che la mia saliva era più buona quando lasciavamo spazio alla lingua e non ci tenevamo stretto sul petto lo zucchero filato dei nostri farò tramutati in denaro. Quando hai attirato la mia attenzione eri soltanto uno sguardo di fianco alla cassa per i cocktail che bevevo da solo per tenere impegnate le mani che è sempre meglio che non sapere dove metterle. Quando credevo di averti lasciato la buonanotte in tasca, il numero di telefono scritto col rossetto della mia amica biondissima che invece mi sono svegliato e mi era finito nella sciarpa e non sapevo perché; il calore dei numeri non può nulla contro le tempeste del tempo che scorre, i tuoi viaggi chilometrici nelle pianure del nord per le foto tra i fiori desaturati, il tramonto delle tue labbra rosse e le lingue lunghe delle nostre amicizie comuni. E poi ti sei svegliata mi hai chiesto hai vinto, ma la partita è finita 1 a 1 e mi sento sconfitto perché non so aspettare il domani per sussurrare i miei buongiorno. E poi ti sei rimessa a dormire e io sono rimasto a guardarti. Ma non eri più tu e così ho cominciato a scriverti e mi sono fatto di viaggi come i folli, come i venditori di barbiturici e i cartomanti di Brera.

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E poi tu dove sei?

E soffiare negli angoli, rivoltare le maniche alla città intera, ai vicoli di Brera e poi via Torino e i negozi indie i calzoni stretti le chiome rosse. Vorrei incontrarti tra cento secondi e dammi il tempo di prepararmi di spostarmi i capelli dal viso per guardarti meglio per mangiarti meglio che occhi grandi che hai e il numero di telefono il telefono ho detto solo per volontà di possesso. Non sopportavo l’idea di non poterti trovare quando volevo io per tutti i desideri che ci siamo tenuti in tasca al posto dei condom. E ancora soffio che sotto la polvere ci sono i tesori i ricordi di quel poco che ci siamo detti. Coi tram che ci fanno lo scalpo le ruote delle bici a terra l’umore in cielo che siamo bipolari dicevi che siamo saltuari come i lavori che ci siamo presi la partita iva che non apriremo mai e tu dove vai cosa fai me la dai? La parola dicevo quella mi basta quella mi sazia come la pasta in bianco il mezzogiorno col fuoco acceso per i caffè che beviamo la notte per tenerci svegli per i nostri progetti diurni. E per le tue sparizioni ho guardato Harry Potter per capire come fai e poi perché. La bacchetta magica la teniamo tra le gambe la scopa per i nostri voli notturni che è tutta colpa degli ormoni, ricordi? E con Battiato balliamo i circoli i girotondi tra sesso e castità tra pub e povertà dovresti vedere Asia Argento dovresti prendere esempio. La nostalgia per l’età di Pietro Germi dei telefoni a cavo dei vestiti la domenica a messa gli sguardi che dovevamo inventarci e gli amici che dovrei presentarti. Con l’ansia che mi prende la notte il cellulare: mi hai scritto mi pensi? Non sogno più lo sai e a niente servono le pagine gialle quando le abbiamo impilate una sopra l’altra le voglie che proiettiamo sugli oggetti che ci facciamo comodini l’elenco telefonico dell’umanità che non dorme mai che se mi sveglio e ti trovo al mio fianco ti rimbocco le guance e poi ti sussurro ti faccio contare le pecorelle smarrite dei nostri incontri mancati. Che tanto mi sveglio e poi tu dove sei?

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Ti ho sognata ti ho detto e tu non ci hai creduto

Eravamo al Sacre Coeur e imbarcavamo acqua dappertutto. Non avevamo remi e la respirazione bocca a bocca poi non serve che le coste libiche non ci hanno insegnato niente che detestavi la vita dicevi che quando affoghi poi vuoi risalire. Dovevamo aspettare la piena per accorgerci degli argini stretti dei nostri corpi e cambieremo batterie agli orologi per allungare il tempo. Ti ho sognata ti ho detto e tu non ci hai creduto. Mi portavo addosso i monsoni della festa al paese l’odore di fritto i vestiti e la farina tra i capelli tra gli occhi i segni delle tue mancanze la congiuntivite è soltanto un’infiammazione. Per le tue analogiche e gli obiettivi militari tutti i nostri reportage sulla vita le performance teatrali sulle piazze e i teli trasparenti per non lasciare tracce. Dovremmo sporcare le strade che se tutto è pulito niente è successo. E ti cantavo il dialetto del nord e tu sbuffavi le tue maniere alla parigina immaginavo mentre un regista horror parlava di Rohmer della presunzione elitaria dei cahiers du cinema. E poi mi ricordo di averti scritto dappertutto come sotto ai vulcani con la polvere da sparo tra i capelli prenderemo fuoco a furia d’esporci. E vorrei essere tra i vicoli di Genova le lavandaie sul Naviglio e su quel balcone di Brera per le mie serenate il ritmo tantrico delle sillabe le scie dei tram. E chissà poi tu dove sei se hai preso il largo se ti sei imbarcata sulla Nina per scoprire un’altra America. Che poi una volta non basta è solo una goccia nell’acqua che se ti specchi l’immagine poi comincia a tremare. E allora aspetto, aspetto ancora che le candele ci sono e la notte rimane fuori e la facciamo bussare.

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