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A chiamarsi per nome

La bottiglia vuota, la tavola imbiancata di cenere e la diaspora delle due e mezza di notte. Ci lasciavamo come gli adolescenti, metti giù tu, no prima tu. E un letto, un divano, le nostre voci a sonaglio e il veleno dei discorsi sulle nostre mancanze. E gli ideali orgiastici delle pulsioni nascoste. Ci accoglieva la solitudine e ci ribellavamo posando il dito sul mouse e facendoci forza nelle conversazioni scariche del martedì sera, domani è il primo maggio e un’altra birra, non si lavora. Il tuo pendaglio a forma di casa e finestre sempre aperte per entrate invadenti. Che continuiamo a cercare di fare nostro quello che è distante, allunghiamo la lingua per la curiosità dei mondi che non ci appartengono e non abbiamo il coraggio di dare la colpa alla sete di conoscenza, al nostro narcisismo e al fascino infinito della pelle liscia. La crema sull’abbronzatura esalta l’odore, esalta il sapore, così aspettiamo l’estate e il sole che scalda. Per non vergognarci di perdere il senno, di perdere il sonno. Ci facciamo geranei e aspettiamo l’acqua dal cielo, le bocche bagnate degli sconosciuti. E poi lo so che il pensiero ora è sulla strada, nelle labbra rosse di queste darling parigine, negli occhiali neri dei maschi impegnati. Mentre ci promettiamo i domani in lunch, in brunch, mi faccio serio e mi accarezzo le guance, c’è una barba da fare, il capello da sistemare. E accordarsi al presente trovando il compromesso col mondo reale. Una bottiglia è poca e due sono troppe. Che ne direste di una pasta aglio e olio? Che intorno alla tavola si consuma la conoscenza e Skype si dimostra una chitarra che tiene insieme serate disordinate, ognuno canta il suo ritmo e le parole del ricordo. E a furia di mi piace ci siamo fatti gioco e abbiamo sfidato la notte a colpi di clic. Mi piace guardarti ridere. E penso agli amici, ai bicchieri di plastica e ai soprannomi che ben conosco. Nelle conoscenze mature ci si chiama per nome. Quando il sesso degli angeli non è più un taboo e i siti porno soltanto pretesto. Dimmelo adesso che non volevi dormire sola. Dimmelo ora che poi è troppo tardi. Non ci saranno cinguettii per i nostri risvegli, il prezzo da pagare delle città grandi. Prendimi in braccio che afferro le stelle, solo per celia, questione di prospettive sai, come le foto sciocche. Il tuo capezzolo sinistro e i miei Vietnam per domare la tua pancia irrequieta. E allunga le braccia, e stendi i cuscini sul letto, che non sei sola e se li fai cadere, non si fanno male.

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Corrimi incontro quando scendo dal treno

E poi ci sono le redazioni, gli orari frenetici delle ultime notizie e l’accavallarsi di stampe su fogli A4 e banchi spersonalizzati, le foto dei nostri figli e i cioccolatini da mettere in tasca alla moglie, pile di post it come arcobaleno.

Le luci bianche di neon asettici per ricreare la luce del giorno e dire che sì, il lavoro nobilita così tanto che non arriverà un’altra notte, non dormiremo mai più pensando ai nostri figli che a 16 anni si rasano i capelli sui lati e domandano i diritti del terzo mondo e poi una scuola che permetta loro di entrare nel giogo del lavoro.

A 18 anni viaggiare, sperimentare dolcezze infinite e deserti acidi, e poi amare e trovarsi la sera a suonare, a scambiarsi le idee perverse di mondo e la libertà di fumare sigarette lunghissime lontano dagli occhi dei grandi. Quando tutto questo sarà finito piegherete la testa al denaro e vi ritroverete gobbe in mezzo alla schiena, vittime voi degli slogan e dei megafoni.

Che a 20 anni bisogna pensare a sé e trovare passione e credo e desiderio del fare e i bisognosi verranno dopo, non pensare, incontrare, le riflessioni sugli altri valgono poi, in nascita, in morte e in maturità.

Tornare a casa con la borsa a tracolla, realizzati, schivi, comprare una pizza in cartone, magari una birra, un sushi d’asporto. La polvere del mondo fuori di casa, la porta chiude bene, doppia mandata, non verranno a interromperci questa sera. E così il beat elettronico di Deezer e i piedi nudi sul pavimento per dirci ancora una volta che anche le scarpe sono una prigione, figurarsi i muri.

Nel sesso gli sfoghi, guardavi ai due buchi come a una liberazione e mi insegnavi a fottere le regole soltanto col movimento perverso della tua bocca. Non quello cercavo, volevo le tue braccia dietro la schiena, la tua bocca capace di pronunciare parole che io neanche immagino, vederti inventare tramonti di bottoni e laghi di carta stagnola.

Verrà un giorno in cui faremo insieme l’albero di Natale, andremo a prenderlo in foresta e ti mostrerò il luogo in cui sono nato.

Non voglio parlare di quel che succede nel mondo, indossa il vestito leggero, quello che si muove col vento e corrimi incontro quando scendo dal treno.

Foto: Charles Moore

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Dei discorsi interminabili di Meucci e delle lenzuola di Hemingway

Gli occhi incastrati tra i comignoli, contavamo fino a quando il pensiero si staccava da noi e ci trovavamo con le dita impegnate senza saperlo.

Il cellulare lasciato sul tavolo, i bicchieri tagliati in due dal rosso.

Per le trasparenze ci bastavano gli occhi e mi chiedevo se ci avessi dato del lucido, se esistessero ancora le bombolette che donavano la patina invisibile ai nostri lavoretti dell’asilo.

Quando il tuo gomito precipitava dal tavolo e facevi finta di niente.

I camerieri imparano tutte le lingue del mondo e io della tua non conosco la forma.

Ci siamo stretti intorno ai vicoli privilegiati di certa gioventù che si guarda troppo allo specchio, e ti dicevo che abbiamo perso tempo ad amarci in decalcomanie, che ora potremmo disegnarci senza l’aiuto delle fotografie.

Per i nei che danno senso al bianco, i punti neri per il grasso in eccesso. E poi un discorso sui trasferelli che non ricordo più.

Ci sorprendeva la grandine quando osavamo prenderci il tempo di guardare tutto dall’alto: il cielo parigino come la panna cotta dopo un lungo pranzo.

E mi chiedevo il perché dello sporco esagerato dei miei capelli.

Quando attraverso la strada ho paura delle biciclette.

E tra le lapidi dei grandi cercavo ispirazione e ti dicevo che sì i politici, sì i rivoluzionari, ma che ne è dei poeti? Hai mai conosciuto uno scrittore felice? Hai mai preso un caffè con Kafka? Un tè verde con Einstein?

Dei discorsi interminabili di Meucci e delle lenzuola di Hemingway.

Dimmelo ancora che i trapassati ci parlano, prossimi o remoti che siano. Dimmi che è della tua pelle bianca, dei pascoli erbosi del mio petto, delle tue labbra fini e del puttane agli angoli della strada. Che si sono divise il territorio per colore, mi dicevi, come a Risiko: qui i cinesi, qui gli indiani, qui gli africani, vuoi dirmelo ora che ne è stato delle prostitute australiane?

Per confidarti che la libertà si misura in incontri, delle malelingue delle città grandi e dei miei affetti per la provincia lombarda. Ti caveranno il sangue a furia di morsi, ti fischieranno le orecchie fino a farti impazzire, ma sai che non è cattiveria, loro lo fanno perché non hanno nient’altro, gli antidepressivi per stare meglio. Il giardino del vicino è sempre più stronzo.

Volevo scriverti dell’amore e ho spalancato le finestre: è entrato un gabbiano. Così gli ho domandato come ci si sente a perdere l’identità dell’io, gli uccelli non hanno nomi propri e va a finire che si confondono. Lui mi ha risposto che faccio domande non interessanti, che meglio è volare, andare, viaggiare, che a lui poco interessa dei riconoscimenti, che fa il pieno d’acqua, e aria, che abita il mare, ma non trascura i tetti, che si nasconde la notte e poi fa bianca l’alba.

Ci siamo stretti le ali come si fa nei libri per bimbi. E quando ha preso il volo mi ha fatto segno di rimanere, di non seguirlo, di prendere l’uscio, che a noi umani le picchiate fanno male, che non conosciamo le correnti e coi venti facciamo guerra, mentre loro no, mangiano, bevono, volano e sanno tutto gli orizzonti.

Così pensavo a te, e raccoglievo una penna bianca, la nascondevo tra i capelli e poi ballavo in cerchio, come fanno gli indiani, c0me fanno i gabbiani, e tu ridevi, pensavi che sciocco e a me andava bene anche così.

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