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Cominciamo noi

Di tutto ciò che ho desiderato non tutto ho potuto avere. Le tasche vuote, l’anima smarrita su lampioni dalla luce bianca e coppie innamorate e sigarette spente e fiumi a scorrere notte e giorno sotto di noi e nuvole ad accoppiarsi a fondersi a sfilacciarsi sopra di noi. Non c’è un tuo respiro che io non abbia raccolto, una tua pausa che io non abbia compreso. Come gli occhi delle guardie notturne si adattano al buio e raggiungono lontananze per gli esseri diurni impossibili, così la mia sensibilità si modella alla tua e dona senso a ogni tuo gesto, tentennamento e sguardo. Cammini così sicura che nessuno ti ferma, io solo alzo la mano in segno di stop. Facciamo fatica anche ad abbracciarci. I fiori, i fiori che il tuo profumo ricorda. Le api, le api che le tue labbra richiamano. Il nettare delle tue cosce bianche. Il vento che i pensieri disperde. Non dirmi che fai, con chi sei, non dirmi che mangi, cosa guardi e come trascorri le tue serate. Nascondi il tuo volto quando indossi gli occhiali, quando il tuo pigiama inghiotte gli orsacchiotti e accoglie il tuo sonno. Le tue colazioni, le tue coperte di lana, i cieli bianchi che sai fermare sulle pellicole. È soltanto luce, mi dici. E io non so più pronunciarmi, ti ho detto ormai millanta volte che la parole hanno ugual dignità, quel che importa è il modo, mi esce un porco cazzo, tu ridi. Io non lo so. Dilunghiamoci adesso sui nostri desideri, sui nostri limiti e i contorni delle nostre case troppo piccole. Invitami a cena, vieni a cena da me. Dimmi che vuoi tornare a ballare, dimmi che hai fame, che hai sete, che hai sonno. Torniamo ai bisogni primari. Abita il mio letto e lasciaci il tuo profumo, torna con tutti i tuoi ieri, lascia che l’oggi sia anche il futuro, non rimandiamo niente al domani. Non lasciamo il forno acceso per scaldarci, allunga le tue dita lunghissime, raggiungi le mie, poi guardami. Così ogni cosa finisce, così il tempo accelera, rallenta, che importa, cominciamo noi.

Foto: © Lise Sarfati

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Chiamami selvaggio

Quando le parole non vengono a soccorrerti al risveglio e ti lasciano al vuoto, tu che tendi al disfacimento e sfuggi ai tuoi contorni, quando lo spazio del tuo corpo sembra non bastarti perché sei sempre altro e altrove. Quando non godi dei baci, non ti lasci avvolgere dall’abbraccio testa infilata nell’incavo del collo, profumo annusato, cuore a battere, mai presente, nei tuoi luoghi lontani, disperso. Hai fatto tutto bianco intorno a te perché il colore accompagna sensi e ricordi, il chiarore delle luci tutte muove lo sguardo finché si perde e tu sei e non sei. Il tuo respiro, dici, non conosce ritmi regolari, è tutto un rincorrere e poi fermarsi, ansimare, tornare a correre. E ancora sei e non sei. Immagina ora il tuo letto grande, immagina ora un gattino, immaginalo cercarti, immaginalo zampettarti accanto e a te strusciarsi guidato soltanto dal suo istinto così che il calore cerca il calore. Immaginalo ora e poi dimmi quando ti stancherà, quando dirai così è troppo, non ce la faccio, andrà avanti così per sempre. Immagina ora una volpe venire a farti visita la notte, bussare alla porta, annusare i resti del cibo nella tua pattumiera, cercare nel buio i tuoi occhi e farli incontrare col verde dei suoi, di meraviglia tu rimarresti immobile, di spavento lei fuggirebbe. E così la notte dopo e quella ancora. Non avresti ansie, soltanto dubbi e attese. E confonderesti con piacere desiderio e curiosità. Tornerà domani? Sarà la stessa volpe? Incrocerà ancora i miei occhi? Tra il domestico e il selvatico qualcun altro ha scelto per te. Sei nato col pelo sul petto, con le mani facili a rovinarsi, coi piedi saldi e il passo sicuro. Chiamami selvaggio quando nego il pudore, chiamami selvaggio quando sono soltanto invadenze, quando non so cosa sia il riposo dei sensi, quando dovrei essere corpo e invece sono pensiero, quando non ho casa, non ho città, quando la strada è troppo fredda per essere abitata e mi rifugio nella caverna del cuore e cerco te, te, sempre te. Perché tu sola esisti, perché tu sola sei. Donna. Per l’aggettivo del possesso non c’è mai posto in questa vita breve. Perché se io sono l’altrove, tu sei l’oltre, e nello spazio che non ha tempo siamo, e io l’amore me lo spiego soltanto così.

Foto: © Théo Gosselin

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Verrà poi Draxler alla Juve?

Sarà il calciomercato, l’avvicinarsi di settembre, dormire con le finestre chiuse, respirare sempre la stessa aria da troppi giorni. Un treno, rotaie lunghissime, aria condizionata e poi prati verdi, bicchieri di vino e case bianche. Questo ci vuole, cambiare aria al pesce, spostare latitudini. Mi hai scritto proprio ora lo stress è come un bicchiere d’acqua, se lo prendi in mano è leggero, se lo reggi per un’ora è insopportabile. Mollare bisogna, non preoccuparsi dei vetri e del rumore al contatto col suolo, sedersi dove capita, ferirsi coi ricordi e lasciare che il sangue sgorghi un poco, poi il tempo, le piastrine e tutto il resto, il taglio si rimargina e il dolore che porta diventa un ricordo. Certo che l’ansia di non sapere se Draxler verrà finalmente a regalare poesia all’attacco bianconero per me rimane un peso. Verrà il trentuno del mese e avremo chiuso con tutte le dicerie e i discorsi fuorvianti e sarà tempo di fare i conti con quel che c’è, decidere il modulo, dare fiducia al capitano e sudare e sudare negli allenamenti per fiorire in partita e vincere, vincere, vincere non trascurando il bel gioco. È il quinto caffè che mi annerisce lo stomaco, è il terzo sonno dalle tre del mattino, dovresti smetterla, colora di bianco i tuoi denti, dici così, a me, intollerante ai latticini e ai consigli. E mentre tutti tornano noi partiamo, e mentre tutti dormono noi dormiamo. Smettila di cercare l’orizzonte, dici ancora, e io che gli orizzonti li ho sempre inseguiti ora che faccio? Basterà un balcone? Un letto? Una finestra? È inevitabile. Guarda i miei occhi ora nuovi, ne ho consumati un paio o forse più, guardaci dentro e dimmi che vedi. Io ancora niente, sono in rodaggio. Comincio con te, rimani qui, proprio davanti, e prima metto a fuoco e poi mi guardo intorno, così che tutto, questa volta, lo sai, parte da te, che sei mio occhio, mia destra, mio inaspettato orizzonte.

Foto: © Giulia Bersani

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Ce ne andiamo a giro

Ora che è tutto chiaro: bianco l’asfalto, i palazzi, bianche le pietre agli angoli delle stradine di campagna, i fiori dei campi che il tuo piede leggero calpesta, si fanno candidi anche i miei occhi e quel che vedo è luce. Non c’è alba né roseo tramonto in questo mio guardare, non c’è riposo, ma la purezza di denti capaci di morsi, c’è quella voglia misteriosa di sporcarmi che domina le ore chete dei pomeriggi d’agosto. L’ultimo abbraccio estivo, sudore alla fronte, piedi nudi e il motorino con la freccia accesa a indicare una fermata mai una sosta, l’arrivederci che prima o poi verrà, le felpe e i maglioni, poi dicembre. Noi che ci sediamo fronte a fronte incapaci di pensare ai domani tiriamo fuori dal pozzo delle viscere i ricordi stravolti dal nostro vivere sensibile e immaginifico e continuiamo a donarceli senza stancarci; non sono foto pancia scoperta, costume a fiori, non sono canzoni, siamo noi, dici tu, io dico boh così siamo d’accordo. Raccogliere i pensieri degli altri, il film delle intimità confessate ai conoscenti, la nostra rabbia sfogata dietro alle finestre e quelle allergie che ci tormentano. Vogliamo dare ancora la colpa alla sensibilità? C’è in tutto questo nostro avvicinarci la corda invisibile dell’ego imperfetto così possiamo soltanto sfiorarci. Se tu fossi me, io te, che cambierebbe? Ce lo diciamo per gioco, per riempire il silenzio. Ti dico il bar mi rovina le mani, dici che il viaggio rovina i tuoi piedi, è come se le tue mani fossero i miei piedi, dici ancora, io dico wow. Tutti questi nostri ragionamenti non portano profitto a nessuno, lo sai? L’economia rallenta perché la rallentiamo noi, sentiti in colpa. Dobbiamo fare i conti anche col mondo, mi dici, altrimenti scappiamo. Scappare da chi da cosa da dove? Scappare per andare dove a fare cosa e poi perché? Ci facciamo lotta col desiderio di emergere, di riuscire, di farci finalmente belli, belli davvero, che ce lo dicono in tanti ma in fondo in fondo nessuno ci persuade. “Persuade”, rideresti a sentirmelo ripetere e giocheremmo con l’accento. Ci piace così, ci divertiamo con quel che c’è, sappiamo ancora distrarci e confondere il reale col su forza, raccontami una storia. Mille incipit e mai una fine, non ti viene ancora a noia raccontarti? No, dici tu. No, dico io, così ricominciamo da capo. “Piacere Marco”, mi dai la mano, io la stringo, e non è come la prima volta. Mi conosci già, dici tu, io faccio sì con la testa e ce ne andiamo a giro e intorno, sai, tutto intorno, vola tutto anche se non te ne accorgi.

Foto: © Conor Clarke

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Son sempre stato bravo coi ti amo

Son sempre stato bravo coi “ti amo”, forse perché non m’importava nulla, forse perché non era necessario dirli. La menzogna in punta di labbra per penetrare le tue gambe bianche, le tue dita bianche sulla mia schiena bianca. Dei segni rossi preferisco non parlarne, li teniamo per noi, li terremo per sempre. Poi il silenzio, qualche ricordo, il tempo di un messaggio, l’ebrietà di una birra per tornare a cercarti. Ora tra noi non c’è savana di acacie spinose e baobab, nemmeno oceano e narvali e orche, soltanto il nulla di questo tempo che riempie le mie notti di vorrei, i giorni di farò, in continua tensione verso te, quello che non c’è, l’arco proiettato dei desideri ha sparacchiato le sue frecce contro l’azzurro inutile del cielo, mentre tu riposi tra braccia che non sono le mie, tra lenzuola di cui non conosco l’odore. Di te che ci sei e non ci sei questa distanza. Di te che ci sei, a notte fonda, polvere e farina di grano nei miei capelli, chissà nei tuoi. Di te che ancora non sei fiore per le mie labbra e nemmeno saliva, di te che tutto già sei e io ancora non so. A che serve invocare il passato, cercarti nelle fotografie. Le innumerevoli fantasticherie nelle pause, quando sostituisco l’immaginazione al reale, come gli infelici, gli ultimi della fila che cercano rimedio alla noia. Mi dici che tutto intorno regna l’amore del qualunque, la difesa del qualunque, la ricerca del qualunque. Il tuo sguardo non è sulla terra e nemmeno al cielo, un gradino più in alto della strada, dove non ci sono più retori ma cantori, dove il vino non è gustato, ma celebrato, dove i miei occhi non arrivano più. Rifiuto ora io lo spettacolo, la compagnia. Delle tue mani lunghe ho disegni a migliaia. Non li vedrai ora, né mai. Volevo andare in Grecia, servono i contanti, dicono, e io di zuppo ho solo il cuore, annegato, affogato che ho chiesto all’amico di sventrarmi con parole potenti, coltello affilato e riempire un vaso di vodka e tequila, senza sale né limone e posarci il muscolo più grande, perché in me torni il respiro, perché io sia di nuovo leggero. Un bambi, diresti tu, io mi incazzerei, forse non più.

Foto: © Benedetta Falugi, http://www.benedettafalugi.com

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Scrivile che l’ami

Come fai a leggere Fiesta tu a torso nudo sulla spiaggia di Cesenatico e non farti attrarre dalle cadenze, dallo zio bo e le discussioni sulle elezioni regionali e così distrarti a fissare un culo qualsiasi, chiudere il libro e dimenticare cosa sono i giorni, la fatica e la malinconia che pure l’oroscopo ti riconosce? Come fai a credere mare la piccola onda grigia che gioca col tuo piede, poi si ritira. Il bagnino la piadina e cercare un bar per un cocktail decente e ritrovarsi snob e poi presuntuosi e dimenticarlo in fretta per scoppiare a ridere nelle sale giochi e a cavallo di una moto finta domandarsi il perché non siamo nati anche noi al mare per trasformare ogni ritorno in vacanza. Dici dell’esercitarsi al bello, a questo serve leggere, a questo farsi domande, a questo ancora le mostre dalla scuola dell’infanzia, la curiosità, il dir di grazia della poesia e sciocchezze in serie, non scandalizzarsi della volgarità, impadronirsi del senso, sciogliere il comico nell’ironia. E poi? Tu che indossi scarpe invernali d’estate e dell’acqua hai timore, tu e il nero dei tuoi occhiali da sole, le tue amicizie pelle su pelle, mano nella mano, tu che aspetti casa per il respiro e nel mentre non dai tregua alla voce e muovi le mani e sei sciocco e fai amicizia coi ristoratori e sei triste o felice a seconda della qualità del cibo. Tu, mi chiedo io, potresti essere diverso? Nell’inevitabile tuo esistere rendi difficile ogni incontro, il tuo alfabeto inciampa nel quotidiano, la tua estetica risente delle tue sofferenze d’adolescente. Chi sei tu ora? E poi perché tutte queste domande. Prendi quel treno e vai dove lei ti aspetta, se ti aspetta. Prendi quell’aereo e vai dove il tuo passato non esiste e così l’aspettativa non c’è e tu sei nuovo. Impara a dimenticare, ricorda il necessario. Stringi quei fianchi ogni volta che puoi, guarda quelle labbra e poi fai un tentativo di disegnarle. Scrivi cose lunghissime e incomprensibili, un giorno, vedrai, anche quelle mancheranno. E cresci per esser semplice, cura la barba, mangia quando è necessario o quando ti fa godere. Poi ridi di te, fallo più spesso e scrivile che l’ami anche se non capisce.

Foto: © Bernard Descamps

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Abitudine

Li invidio nelle loro case solide, mai sole. Li invidio nei loro rituali del weekend, dei baci al risveglio, dell’organizzazione dei compleanni; le cene con gli amici che non vedono dalle scuole medie e la celebrazione degli anniversari. Invidio quel che io chiamo vita e che a me è negata. Stronzate. Negata da te, quel che cerchi trovi, come parli pensi, quel che guardi sei. Sulla scrivania, tra tazze sporche di caffè e fogli sparsi, le parole d’amore degli altri e i miei pensieri infilzati come farfalle. Cercare su Google un aereo, un treno, un albergo, una destinazione per cominciare a immaginare un altrove. Non consolano più le rime sparse dei poeti, anche il narcisismo è disperso ora, nei miei capelli senza una forma, in questi giorni tutti uguali senza uno scopo. Le fantasticherie non regalano serenità; i tuoi viaggi azzurro mare, le tue parole francesi, l’incomprensibilità delle tue frasi brevi. Una giornata tra le tue cosce, con te. Una giornata tra le tue lenzuola, senza di te. Vedere quel che vedi, toccare quel che tocchi, le voci che ti fanno voltare e quelle da tenere lontane. E il tempo che non ci appartiene, l’avena seminata due settimane fa s’innalza ora verde, non manca poi molto alla mietitura. Finiremo anche noi sulle tavole apparecchiate degli altri, a sorridere per le circostanze, a fingere interesse, ad accarezzarci le dita di nascosto. A immaginarci ancora altrove. Abbiamo bisogno di tempo e di stare, ti dico. Tu non rispondi, e il tuo silenzio è come il risveglio, abitudine.

Foto: © Chantal Michel

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La colpa

Marco si toccava il collo e intorno non c’era nessuno.
Sul banco una chiazza di liquido rosso.
Era l’ora della merenda e nel cortile i bambini giocavano, non potevano nulla contro il male che era arrivato e li aveva sorpresi.
I gelsomini coi loro fiori bianchi, l’erba verde, il cancello grigio, più in là le fabbriche, nient’altro li circondava.
Quelle che ieri erano grida ora erano dei sottovoce e i grembiulini bianchi e neri se ne stavano seduti in cerchio lanciandosi una palla rossa.
“È il sangue di Marco.” Disse uno quando la palla gli rimbalzò tra le cosce. Una bambina dai capelli d’oro impallidì, strinse forte i pugni, le sue mutande si bagnarono d’urina, cominciò a lacrimare e si alzò e scappò in classe.
Marco si teneva il collo con tutte e due le mani. Le sue dita erano rosse. Quando la porta della classe si aprì vide la bambina dai capelli d’oro, magra, col moccio al naso e i pantaloni bagnati.
“Mi sono pisciata addosso.” Disse la bambina.
“Non è poi tanto male, è caldo.” Rispose lui.
“Perché non sei venuto in giardino? Tu vuoi sempre essere diverso da tutti.”
“Non è che voglio, è inevitabile. Ma non sarà per sempre, perdo sangue, vedi?”
“Posso assaggiarlo?”
“Puoi. Ma non troppo, non è per te. È per nostra madre, è per nostro padre.”
La bambina assaporò il sangue.
“Sembri nostra madre col rossetto. Dovresti toglierti i pantaloni adesso, sono bagnati e ti prenderanno tutti in giro.” Disse Marco.
“E cosa mi metto?”
“Mettiti i miei, sono sporchi, ma almeno non sono pisciati. A me non serviranno più.”
La bambina annuì e poi si abbassò i pantaloni e poi si abbassò le mutande. Tra le sue gambe senza peli un foro minuscolo, lei ci infilò un dito più in fondo che poté, poi lo tirò fuori e allungò il braccio sotto gli occhi di Marco.
“Tu vuoi sempre esagerare, speri che qualcuno ti guardi, ma non ci guarda nessuno.” Disse lei. “Vuoi assaggiare? Credo tu abbia bisogno di sangue.”
Marco fece di sì con la testa e aprì la bocca, lei gli infilò il dito tra le labbra, lui succhiò, lei ritrasse la mano.
“Ti piace? La gente dice che sono buona, a me non importa più, ci sono abituata. Mi importa soltanto di te.”
“Mi mancherai molto.” Disse Marco.
“Lo so.” Rispose la bambina. “Ma sei tu che hai deciso di andartene per sempre.”
Marco vedeva tutto sfocato e le sue parole inciampavano tra le labbra, si sforzò e disse:
“Non è colpa tua.”
“Lo so. Io sono buona, è la mia dannazione. Posso salvarti se vuoi, col mio dito. Se ti salvo me li dai lo stesso i tuoi pantaloni?”
Marco stette in silenzio. Sotto di lui il pavimento era rosso.
“Non puoi. Questo è il mio regalo per te, l’unico possibile.”
Marco appoggiò la testa sul banco e chiuse gli occhi. Non dormiva, deglutì due volte e sentì il sapore ferroso del sangue.

Entriamo insieme nella porta stretta, io abbasso la testa, lei trattiene la pancia. Abbiamo gli occhi rossi. Lei ha pianto tutta la notte, io ho stretto le palpebre per trattenere le lacrime. Il cane di nostra madre ci lecca le gambe. Io gli do un calcio sul muso. Lei mi prende per mano. Non siamo abituati a farci annusare dagli animali. Quando dormiamo insieme, di nascosto, all’istituto, ci annusiamo soltanto tra noi. Lei profuma di albicocca.

Al centro della camera nostro padre è disteso e dice il rosario senza aprire la bocca. Ha le guance bianche e gli occhi chiusi. Il taglio sul collo si vede appena. Lei mi sussurra all’orecchio che l’hanno truccato. Lo chiuderanno in una prigione di legno, è colpevole. Nostra madre è vestita di nero, dice che non lo vedremo più, che l’hanno fatto bello per l’ultimo viaggio, poi si piega in due, urla più volte: “Perché?”. Urla soprattutto nelle mie orecchie.
All’urlo tutta la gente che stava in piedi accanto a noi, in silenzio, nella camera stretta, decide di uscire. Alcuni abbassano la testa per passare attraverso la porta.
Nostra madre smette di urlare, respira a fatica, accarezza i nostri capelli e senza bisogno di chinarsi esce dalla stanza.
Ora siamo noi e nostro padre.
Lei dice: “Ave Maria, piena di Grazia.” Lo sussurra all’orecchio di nostro padre.
Io imito la voce di mia madre. Urlo forte.
Lei continua la sua preghiera, dice le parole una dopo l’altra, sempre più veloce. Io urlo più forte che posso, la mia voce rimbalza sulle pareti, quando torna nelle mie orecchie non è più mia. Lei mi mette le mani sulla bocca per farmi stare zitto, io gliele mordo forte. Lei mi tira un calcio. Io le mollo uno schiaffo. Lei urla. Urlo anche io. Le do un bacio.
Nostra madre torna nella stanza, io chiudo gli occhi. Abbiamo le mani gonfie. Nostra madre dice: “Salutate vostro padre.”
Lei gli si avvicina, gli dà un bacio sulla guancia. Io gli infilo il dito nella ferita del collo, la mia mano si sporca di trucco e di qualcos’altro, la pulisco sulla giacca nera di mio padre. Poco dopo abbasso la testa, le accarezzo la pancia.

Quando mi bussano alla porta io sto spiegando a Rulfo, il mio gatto, perché non può uscire di casa nei giorni di pioggia. Quando apro la porta Rulfo esce, non tornerà più.
Sul pavimento le impronte bagnate di quattro scarpe, due grandi, due più piccole, tutte nere.
Lei non deve più trattenere la pancia. Allunga la sua mano e stringe la mia.
“Questa è Annie, la nostra bambina.”
Annie resta con la schiena appiccicata alla porta.
“Non hai più gli occhi rossi come dieci anni fa.” Dico io.
Lei annuisce.
Annie ci guarda.
“Potresti salutarla.”
“Ho le mani sempre sporche.”
“Solo i fiori del gelsomino restano bianchi.” dice lei e sospira.
“Non dovevi tornare più. Sei troppo buona.”
“È la mia condanna, ricordi? Annie voleva conoscerti.”
Annie è sul divano, io la raggiungo, mi siedo di fianco a lei.
“Non eri poi tanto lontano.” Mi dice.
“Solo una vita.” Rispondo io.
Annie mi prende le mani, le confronta alle sue.
“Non sono sporche.”
Lei non si siede, ci guarda dall’alto.
“Sembri un po’ addormentato, non è vero, mamma?” Dice Annie.
“Non dormo da molto. Non posso.” Dico io.
“Ti spiace se accendo la luce?” Dice lei.
“La colpa è mia.”
“È troppo buio qui.”
Lei preme l’interruttore, la luce non si accende.
“Perché non hai voluto che io ti salvassi?”
“Non è stata colpa tua.”
“Nostra madre è morta due anni fa.”
“Loro mi avevano fatto impazzire.”
Annie mi guarda coi suoi occhi verdi. “Li hai uccisi tu?”
“Non sono stato capace nemmeno di uccidere me.” Rispondo io.
“Me l’ha detto mamma.” Dice Annie.
Lei mi abbraccia, dice: “Mi sei mancato.”
Le parole non hanno più importanza per me, gli abbracci sì. Sento il suo corpo, il suo calore, il profumo d’albicocca. Rulfo può non tornare più.

La palla rossa rimbalzava tra le mani dei miei compagni quando arrivò una bidella avvolta in una tunica azzurra e urlò forte il nome di Marco. Le maestre corsero via e ci lasciarono soli seduti sull’erba verde del giardino. Io mi alzai e camminai lenta verso le classi. Il suono di una sirena in lontananza. Entrai in aula e Marco era seduto al suo posto, la testa appoggiata al banco come se stesse dormendo. Lo chiamai. Non rispose. Lo guardai. Non mi guardò.
Nostra madre era al lavoro. Nostro padre non era ancora nella sua prigione di legno.
Io urlai forte: “Perché?” La bidella entrò in classe, mi mise una mano sugli occhi. Mi portò via. Marco sollevò la testa, era tutto rosso, mi fece l’occhiolino, disse: “È il mio regalo per te.”
Io urlai: “Non lo voglio.”
“La vita è così triste se non sfidiamo la morte.” Disse lui.
Due signori vestiti di arancione fosforescente lo presero e lo portarono sull’ambulanza. Poi arrivò nostra madre.

“Non sono morto, hai visto, era un gioco.”
“Io ti voglio bene.”
“Ti amo anche io.”
“Non dirlo a mamma.”
“Dicono che sei pazzo. Non ti vedrò più.”
“Verrai a trovarmi di nascosto.”
“Faremo anche l’amore?”
“Soprattutto l’amore.”
Quando nostra madre raggiunse Marco in ospedale lui chiuse gli occhi, aveva deciso di non vederla più.
Andai all’istituto molte volte. Mi chiamava Rulfo, mi accarezzava. Poi ansimava forte.

Foto: © Bernard Faucon

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Tu dormi già

Per cercare la quiete ci siamo fatti straordinari. La nostra camera tutta un letto, la posizione verticale un impiccio, chiudere gli occhi è il rimedio allo scorrere immotivato dei pensieri degli altri. Guardiamo a noi, mi dicevi, e i nostri mondi diventavano sempre più piccoli fino a ridursi a un punto immobile, tu lo mettevi sui tuoi capezzoli, poi pubblicavi le tue nudità su Instagram. Che senso ha il nostro rimanercene sotto le lenzuola fino a tardi oggi che è sabato e sole sui davanzali e sole sulle terrazze e sole sulle foglie rosse e gialle dei parchi. Se ti spaventa il puzzo della circonvallazione trattieni il respiro fino a raggiungere la porta di casa mia, suona due volte e ti aprirò a torso nudo, ti chiederò a quale statua assomiglio, tu riderai come ridi tu e saremo ancora una volta incapaci di fare l’amore. Lasciamo sfitte le case e occupiamo le fabbriche dicevi con la superficialità degli anni giovani, scrivevi anche tu su quei blog dell’hipsteria collettiva e usavi le parole come i fumogeni e i fuochi artificiali, chiedevi attenzioni così. Io ti leggevo con sufficienza, ti giudicavo, ebbene sì, immatura e bella, come gli scritti di Rimbaud. E mentre ti confidavi al computer cercavo nei libri risposte, così andavo in giro addobbato dalle parole lette, come le signore che entrano alla Rinascente, le ragazze tutte nere che si specchiano nei camerini di Zara, facevo del mio pensiero un riassunto dei discorsi luminosi degli altri. Dov’è la coscienza, dov’è la libertà? Per fortuna inciampo spesso nei sampietrini e qualcuno ride, vergognoso ride. Al posto di bruciare i documenti dell’Aler dovremmo cancellare tutte quelle scritte sulle vetrine, urlare che l’amore non si merita, il male è inevitabile. Potresti ora dirmi di saltare sulle tue labbra e toccare il cielo, sarebbe inutile perché non ne ho le forze e lo sai, mi si stringe il petto e piango tutta questa generazione che cerca la distruzione, vorrei ci salvassimo tutti. Non abbiamo equilibrio per cavalcare i tornado, io ho le mani troppo deboli, nessuna idea di come si costruisca una barca capace di sollevarsi sulle onde dei nostri giorni, affrontare le tempeste delle tue diffidenze. Mi dici che hai paura, ti rispondo anche io e rimaniamo immobili a guardarci. E quando comincio a parlare tu già dormi e sogni e non mi ascolti.

Foto: © Miraruido

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Quei Michael Jordan che portavi sulle scarpe

Indossavamo pantaloni così larghi per sentirci inadatti e sui campetti la pallacanestro della provincia, il primo amore e i tiri da tre punti.

Quando ancora non arrivavi al ferro e ti facevi prendere sulle spalle per toccare la retina, che immaginavi di schiacciare come quel Michael Jordan che portavi sulle scarpe.

Le canotte di Gary Payton, la barba di Patrick Ewing e le spalle enormi di Charles Barkley. E magra come Reggie Miller abbandonavi gli amori adolescenziali lanciando sassi a distanza nei laghi dei tuoi immaginari. E così trascuravi i piaceri mettendo a tavola i doveri.

La tua femminilità lontana dalle scarpe e i tuoi capelli lunghissimi per nasconderti. Poi la prima pastasciutta al ritorno dalla scuola media, l’acqua che bolle e la rilassatezza del taglio delle cipolle e guardare il sugo addensarsi.

Tra i cibi pronti le tue dimenticanze e i mille vorrei che ti tatuavi sulle spalle. Così hai smesso di crescere quando sullo specchio ci hai trovato il rossetto di un futuro già deciso, infilzato nelle scrivanie di palazzi in cemento.

La ribellione dei tuoi capelli e i tagli sulle braccia: l’adolescenza delle ragazze bellissime.

Troveremo salvezza nelle nostre disperazioni e motori accesi nelle sofferenze.

Qui tutto si tramuta in partenza e non c’è approdo se non in coscienza.

Quando mi chiedi perché mi avvicino per parlarti dò la colpa alla sensibilità delle albe di giugno che ci svegliano con la discrezione della pastorale di Scarlatti.

E mentre muovi il dito indice e dipingi di luce la carta io che rifletto sulla tecnica e tu che mi sorpassi in autostrada, alzi il dito medio e poi ti metti a ridere. E così ti rincorro, tra le boccacce e i suoni di clacson accenno mosse da rapper mentre tu suoni chitarre immaginarie e tiri fuori la lingua. E alla fine della corsa nessun segno sulla strada, né labbra consumate dal freddo. Mi avvicini al tuo collo, dici ho cambiato profumo e forse anche noi dovremmo cambiare aria.

Foto: Bruce Gilden

USA. Queens, New York. 2005. Fashion shoot. Mafia funeral.

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