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Io mi chiamo Marco e faccio il viaggiatore

A Roma, al Pigneto, al bar Necci, si gioca alle carte dalle otto del mattino. Ci giocano signori in pensione, sono seduti su sedie bianche e lanciano le carte sulle piastrelle lucide del tavolo. Qualcuno vince, qualcuno perde, nessuno esulta. La Roma è stata sconfitta all’Olimpico, la Lazio ha battuto il Torino e ora ha un solo punto di svantaggio in classifica. Qualcuno tossisce, qualcun altro invece bestemmia e ride, chiede un caffè e il barista annuisce, torna col caffè dopo un quarto d’ora, il caffè è freddo. “Di chi è il caffè?” Chiede con l’accento africano. Nessuno risponde, sono le dieci e i pensionati se ne sono andati chi a fare la spesa, chi a comprare le sigarette, chi a tener compagnia alla moglie davanti alla televisione. Io leggo l’ultimo romanzo di Carrère, solo due pagine, mi annoia. Mi guardo intorno, ci sono molti specchi alle pareti, posso guardare senza essere guardato. Una ragazza coi capelli neri parla di un ex mattatoio, dice che bisogna avere il coraggio di investire nel futuro senza essere investiti dal futuro, poi domanda il nome al barista, due volte, lui risponde due volte, io non riesco a sentirlo, si presenta anche lei dice: “Chiamiamoci per nome da adesso e per sempre.” Lui annuisce, lei lo chiama per nome e gli chiede un orzetto. Lui annuisce ancora, poi dice “Te lo preparo, non facciamo servizio ai tavoli però devi venire a prendertelo.” Lei risponde “Grazie.” e il nome di lui. Lui se n’è già andato dietro al bancone.

Anche io fino a pochi anni fa chiedevo il nome ai camerieri, poi ho cominciato a pensare che è una domanda che rivela un’idea buona di mondo, un luogo dove il nome viene prima del ruolo, ma c’è in tutto questo qualcosa di presuntuoso, di insolente. Quando facevo il cameriere infatti non mi piaceva che mi chiamassero per nome, forse perché mi sentivo essere più del mio lavoro, forse perché mi sentivo più del mio nome. Così ne avevo inventato uno, per non essere scortese: Benjamin il cameriere; rivelavo quello vero soltanto a chi mi ispirava fiducia o affetto o simpatia.

Mi chiamo Marco e sono un viaggiatore.

A Firenze, vicino alla stazione, c’è l’Osteria Nuvoli. All’Osteria Nuvoli puoi chiedere il gotto di vino, il calicetto e il bicchiere. Il gotto sono due sorsi, il calicetto cinque, il bicchiere non so, ho perso il conto. Da Nuvoli puoi bere del Brunello di Montalcino per pochi euro, puoi mangiarti i fegatini e pure la trippa o il panino con la porchetta. Da Nuvoli puoi aspettare il treno e far chiacchiere con l’oste o con gli avventori. È frequentato dai turisti ma quelli si siedono a tavola, invece intorno al bancone, sugli sgabelli, siedono i fiorentini. Così c’è Giulia dai capelli biondi che non ha passato l’esame di teoria della patente per un errore di troppo, la sua amica ricciola che la consola, la fotografa di arredamenti che beve un bianco prima di tornare a casa e cenare da sola, l’avvocato che ce l’ha con il traffico e l’oste che quando s’annoia parla della Viola, la Fiorentina che ha battuto il Milan due a uno e ora se la gioca con la Roma per il passaggio ai quarti di Europa League. Da Nuvoli non ci sono specchi e le persone le guardo negli occhi, complice è il vino che fa cadere ogni riservatezza. Così faccio sempre amicizia con qualcuno, parlo di come si vive a Firenze, del fatto che io non sia toscano ma sogni una casa in collina. Dice: “Tu vo’ fa’ l’americano! Non se la compra più nessuno la casa là fuori, ‘i son care, noi le si vende, si va via!” “E dove andate?” Chiedo io. “Via!” Risponde lui, “Si va via.” La ragazza della patente mi guarda e ripete “Via!” L’oste mi guarda sorridente, dice: “Eh, si va via!” E io mi chiedo dove sia questo via, dove stiamo andando tutti. Saluto e mi incammino verso la stazione, il treno è in ritardo, ho sonno, sempre colpa del vino.

Le poltrone dei Frecciarossa sono spaziose e comode. Le prese di corrente funzionano e riesco a ricaricare il cellulare. Mi arriva un messaggio “Ci siamo allontanati molto, cosa posso fare per te?” Rispondo: “Non lo so, io vo’ via!”, risponde “E dove vai?” Poi mi addormento.

Il treno frena, arrivo a Milano. A Milano c’è il sole, a Roma pioveva, a Firenze pure. A Milano Necci non c’è, nemmeno Nuvoli. Dove vado? Via. Via, sempre via.

“Tu sei pazzo.” Risplende il display del cellulare.

I pazzi stanno nei manicomi, io no, io vo’ via. Io che sono Marco e faccio il viaggiatore.

Foto: © Giulia Bersani

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I pressapoco della mia lontananza

E poi il vino e pensieri deformi, i tuoi vent’anni e i pressapoco della mia lontananza. Tra studi classici e maledizioni col dito medio in fotografia, poi bluse a fiori, caratteri sparsi sul tavolo del nostro ieri. Tensione verso l’alto e bacino orizzontale sempre in movimento, al riparo dei cuori candidi, delle tende nomadi dei raccoglitori di gioventù. Con gli ideali per cappello, i pantaloni che si arrendono alla presunzione del passo. Andremo avanti fin quando ci fermeranno, faremo fatica a distinguere tra il noi e il loro, concentrati come siamo al presente. Tutto intorno movimenti visibili e invisibili, tettonica zolle e la velocità supersonica delle navicelle spaziali, cantieri interminabili intorno a piazza ventiquattro maggio. Ci addestriamo alla guerra e diventiamo capaci di lanciare soltanto lo sguardo, le nostre visioni mistiche sui canali di stato, quei trecentossessanta gradi di speranze che fanno i tuoi piedi il sabato sera. Faranno fatica a comprenderci, noi fuori dai televisiori, fuori dai bar e lontano dalle piazze, a cercare gli angoli, gli sguardi nascosti e privilegiati sull’oggi. Lingue su lingue penderanno sui nostri soffitti, avremo spalle forti, guance trasparenti. Saremo belli, finalmente belli e sconfitti, diventeremo invincibili soltanto quando sarà tardi, troppo tardi. Impareremo ad amare, terremo in tasca il desiderio irrinunciabile del ricevere attenzioni. E carezze e abbracci, quelli che arrivano troppo tardi, quelli che arrivano il giorno che non te l’aspetti. Tu, creatrice di rane di carta, di barchette da far galleggiare nella vasca da bagno, tu, donna nuda con la sciarpa lunghissima, orchidea blu, tu passo incerto, neo nero, tu, mia simile, amica.

Foto: © Anthony Goicolea

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Tu dormi già

Per cercare la quiete ci siamo fatti straordinari. La nostra camera tutta un letto, la posizione verticale un impiccio, chiudere gli occhi è il rimedio allo scorrere immotivato dei pensieri degli altri. Guardiamo a noi, mi dicevi, e i nostri mondi diventavano sempre più piccoli fino a ridursi a un punto immobile, tu lo mettevi sui tuoi capezzoli, poi pubblicavi le tue nudità su Instagram. Che senso ha il nostro rimanercene sotto le lenzuola fino a tardi oggi che è sabato e sole sui davanzali e sole sulle terrazze e sole sulle foglie rosse e gialle dei parchi. Se ti spaventa il puzzo della circonvallazione trattieni il respiro fino a raggiungere la porta di casa mia, suona due volte e ti aprirò a torso nudo, ti chiederò a quale statua assomiglio, tu riderai come ridi tu e saremo ancora una volta incapaci di fare l’amore. Lasciamo sfitte le case e occupiamo le fabbriche dicevi con la superficialità degli anni giovani, scrivevi anche tu su quei blog dell’hipsteria collettiva e usavi le parole come i fumogeni e i fuochi artificiali, chiedevi attenzioni così. Io ti leggevo con sufficienza, ti giudicavo, ebbene sì, immatura e bella, come gli scritti di Rimbaud. E mentre ti confidavi al computer cercavo nei libri risposte, così andavo in giro addobbato dalle parole lette, come le signore che entrano alla Rinascente, le ragazze tutte nere che si specchiano nei camerini di Zara, facevo del mio pensiero un riassunto dei discorsi luminosi degli altri. Dov’è la coscienza, dov’è la libertà? Per fortuna inciampo spesso nei sampietrini e qualcuno ride, vergognoso ride. Al posto di bruciare i documenti dell’Aler dovremmo cancellare tutte quelle scritte sulle vetrine, urlare che l’amore non si merita, il male è inevitabile. Potresti ora dirmi di saltare sulle tue labbra e toccare il cielo, sarebbe inutile perché non ne ho le forze e lo sai, mi si stringe il petto e piango tutta questa generazione che cerca la distruzione, vorrei ci salvassimo tutti. Non abbiamo equilibrio per cavalcare i tornado, io ho le mani troppo deboli, nessuna idea di come si costruisca una barca capace di sollevarsi sulle onde dei nostri giorni, affrontare le tempeste delle tue diffidenze. Mi dici che hai paura, ti rispondo anche io e rimaniamo immobili a guardarci. E quando comincio a parlare tu già dormi e sogni e non mi ascolti.

Foto: © Miraruido

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Hai mai letto Wislawa Szymborska?

È tornato il bianco sui comignoli, i nostri nomi risuonano sempre più stanchi nelle bocche dei parenti mentre in banca siamo numeri, numeri in posta, numeri per le agenzie statistiche. Ieri sera a Marassi, zero a zero di reti bianche, quattro insulti alla rete invece al Castellani, in toscana torna Zemanlandia. Parma s’arricchisce con le multe ai turisti nella sua viabilità incomprensibile, i musei sempre aperti, il Correggio non fa ombra a Fantantonio che ondeggia sul pallone, un’onda anomala in un mare troppo calmo, tre tuffi interrompono la quiete di Donadoni. Tu mi ricordi che ognuno porta la sua storia sotto la maglietta, non c’è più Brera a raccontarle, ti dico, tocca affidarsi ai telecronisti sudamericani di Rojadirecta che sanno i nomi dei finanzieri e dei loro figli, la storia economica del novecento italiano con la c aspirata. Mentre un’amico suona la techno in un salotto tavolini e sigarette, lui e il sintetizzatore, le mani veloci su manopoline e tasti bianchi e neri, le calze colorate della sua ragazza, e come al centro del Pantheon, sotto quel buco che onora il cielo, mi sembra per un istante di cogliere la vita e non aver bisogno di farmi altre domande e perdere speranze e rifugiarmi in attese. Fuori, invece, tiriamo in ballo la chimica come una scusa per l’attrazione dei nostri sguardi, la fisica invece è tutta un’altra storia, te la racconto domani, dico, mentre prendo a pugni la maglietta che hai dimenticato in fotografia, poi arriva il sonno. Torni a esistere in tutti i miei risvegli, l’affresco maledetto è sul soffitto, ci incollo gli occhi chiusi dei giorni bui e quelli spalancati che attendono non si sa quale primavera. Parlami ancora dei fiordi della Norvegia, dei pesci colorati che risalgono la corrente, dà a loro dei nomi fantastici e non contarli, ti prego non contarli, non contare il tempo e non guardare con quegli occhi le tute fosforescenti degli spazzini che tengono pulito il mondo dei maglioni di cashmere e dei balconi grandi della borghesia. “L’utile cos’è?”, scrivi sull’ennesimo post it, me lo lasci incollato alla copertina di Pagina 99, l’ho comprato ieri e ancora non l’ho aperto, non so darti risposte, è tutto così urgente. Non mi spaventa l’ora legale e mi consola sapere che arriveranno le quindici e lo Stadium sarà bianconero. Mi piacerebbe ammettessi che gli addominali di Pogba sono pura poesia, ma tu ascolti i Verdena, mi guardi negli occhi e pensi sarebbe il caso di andare alla mostra di Yves Klein, ti hanno colpito i neon blu elettrici, eri appena uscita da Gap, hai girato l’angolo e come hai fatto, hai già postato la foto su Instagram. I giovani favolosi sono tutti al cinema, qualcuno invece si dimentica di uscire da una settimana, con tutto quello Xanax sul comodino, trovamela tu una parola con più x. Sulla testa ci pendono lampadari, ti dico cadranno prima o poi, saremo già morti, mi dici tu, non è detto, ti dico io. Perché tutta questa ansia? Mi chiedi ancora, mentre su Repubblica.it qualcuno dice è tutto necessario, poi punti a capo, ancora a capo. Hai mai letto Wislawa Szymborska? Ti rispondo di no, spero che basti.

Foto: © Bernard Faucon

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I pensieri irraggiungibili dell’essere due

Nebbiolo e gengive rosse, labbra viola. Un’abbraccio agli ospiti, braccia dentro alle maniche del cappotto scuro, lungo fin sotto alle ginocchia, abbottonato fino al petto. Le scale a due a due, il rischio di cadere e sul finale un passo doppio per riacquistare l’equilibrio. Un pulsante piccolo e bianco e conduttori in rame per l’elettricità separano me dalla strada, il portone si apre, poi senza rumore ritorna al suo posto. Lo sguardo si appassiona all’asfalto, non ci sono stelle il cielo, in alto non guardo da giorni. La batteria del telefono segna il dieci per cento, l’amico coi riccioli torna dal concerto di Morrissey, là in quel teatro senza proteine della carne, senza animali macellati, senza sofferenza dei piccoli roditori, senza pellicce e tappeti a manto di tigre, ma speculazione e oscenità d’appalti, pensioni d’oro e lobby, che importa, mi dice, la musica è buona, chiudi gli occhi e lasciati andare, nel buio le luci al neon portano il cervello a pensieri altrimenti irraggiungibili. Raggiungimi al Cape Town, mi troverai seduto sul gradino più alto a guardare la gente dal basso e tacchi altissimi neri, le ultime pance scoperte e magliette del basket Nba indossate senza eleganza. Uno sciame nero e un ronzio di labbra rosse escono da un portone, sono così figa tesoro, ci guardano tutti. Il riccio non arriva, avrà trovato traffico di gambe lunghe, che faccio? Ce l’hai una sigaretta? Chiedo alla ragazza più vicina, ci facciamo soltanto dei gran bomboloni, risponde, sono le ultime due, lo capisci, ci servono. Certo, rispondo io, capisco bene, anch’io come voi cerco un modo per non pensare, ma non ho i soldi per un Moskow Mule, ci pensi tu? Sorride e mi fa posto sul gradino. Il rito del dove sei e che fai. Le mie risposte vaghe, tanto nessuno impegna l’orecchio dopo la mezzanotte. Così parlo per versi, tutti endecasillabi i miei, mi registro e comincio a contare le sillabe. Di fianco ai miei jeans blu capelli neri in coda, biondi a penne di pavone, più lontano un tatuaggio sul braccio e pantaloni strappati sulle ginocchia. Fumo di nero in bocca e lo sguardo a penetrare la vacuità dell’umanità notturna. Le luci dei motorini e il vociare delle compagnie adolescenti. Scusa amica, il riccio tarda, c’è più spazio lontano da te, vicino a lei e alle sue braccia colorate. Non servono le parole, ora è il corpo che crea intimità, un centimetro avanti con la testa, entrare nel campo del non ritorno, ora sai chi sono, troppo vicino per non accorgerti. Parole sussurrate, che ci fai qui? Quanto è lontana la Calabria dei nostri padri? Sai che facciamo, ora parliamo di quello che desideriamo, della scala irraggiungibile che porta alla luna quando lei si fa maga e spunta in mezzo alla distesa dell’acqua, ai cieli di ottobre e al vento che spinge le cartacce e invita al calcio. Mi annoio, tu invece che dici? La noia è soltanto un malessere, metto la disperazione sotto il braccio e le do un nome sempre diverso come si fa coi cani degli amici. Il tuo vestito nero borchiato, il tuo seno piccolo e invadente, i pantaloni stretti e il tuo sedere tondo. Facciamoci giostra questa notte, giriamo nel senso opposto a quello del mondo, scambiamoci tutte le lingue del mondo. Il mio battello naviga lungo i tuoi canali olandesi, tutti i papaveri sulla tua schiena, ora volano le rondini verso altre primavere e le persiane si chiudono sul tuo ventre, la luce del lampione ti rende bella, un bianco e nero da film, mentre ti muovi su e giù e non guardi nessuno, i tuoi occhi chiusi mentre le tue labbra si deformano e godiamo dei pensieri irraggiungibili dell’essere due.

Foto: © Bruce Davidson

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L’indice destro per disegnare orizzonti

Potremmo stare più tranquilli, farci meno domande, evitare di bere per non pensare, di riempire i nostri pomeriggi di desideri quando vince la pigrizia e va a finire che guardiamo il soffitto sperando che qualcosa succeda o meglio, che non succeda nulla. La serenità artificiale delle quattro mura, il viaggio come anelito e la necessità di far sempre un passo indietro per prendere la rincorsa e ripartire altrove. Ti dicevo quando troverò una casa non sarò più quello che ero, così ora che ho cambiato quattro stanze in quattro mesi ho le valigie gonfie di libri sottolineati, sfogliati, pagine con le orecchie e copertine sporche di caffè. Il mio corpo si consuma, la corrente si consuma, anche l’acqua si consuma, perché aver rispetto della carta? Non c’è tempo da perdere, dici, un treno ci aspetta, non so dove andare, ti dico io, rispondi fidati e mi porgi la mano. I capelli ti si appoggiano alle guance, è un istante, poi volano sulla tua nuca, il treno parte. Io rimango sulla banchina. Quando pensi la bocca ti rimane sempre socchiusa. Vorrei avere il tuo sguardo. Penso che il mondo è per tutti diverso, che a volte è proprio impossibile capirci, che tu sai creare orizzonti spingendo l’indice destro sulla macchina fotografica. Sei così severa con te, fino al chissenefrega. Ho una cartella sul desktop, è un tuo diario di un viaggio lontano, pensavo fossimo vicini a quel tempo, invece eri già partita e io non mi ero accorto. Qui è zuppo di turisti tedeschi, hanno tutti un cappellino di paglia, sono al Colosseo, a piazza del Popolo, sono a piazza di Spagna e a piazza Navona – quante piazze Roma –, hanno gli sguardi un po’ persi, prima ridono poi scrivono sul telefonino, poi prendono la mira e pigiano il dito sullo schermo e condividono il ricordo e poi si guardano intorno e poi mangiano il gelato, la pastasciutta, mangiano la pizza e poi si fanno la doccia e si mettono il profumo, si phonano i capelli e raggiungono altri turisti. E vanno nei bar per turisti e parlano con altri turisti e ballano con altri turisti e i turisti approcciano le turiste, e i romani avvicinano le turiste e qualcuno guarda e dice son sempre troppi i turisti, forse siamo di troppo anche noi, andiamocene via, via per sempre, ma dove? Così parliamo coi turisti e io racconto della tua camicia bianca e mi viene in mente che anche a Milano ci sono le piazze, ma non hanno dei nomi che ti ricordi e il Duomo la sera è deserto. Poi bevo la birra e ti penso, ma non ti scrivo, non ti scrivo più. Che sciocco.

Foto: © Graham Miller

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Ma non al mare

Ci portavamo il lavoro all’aperitivo e rivoltavamo nel bicchiere i vini biologici. A Milano si beve bene soltanto nelle enoteche, i bar dovrebbero vergognarsi, ti dico, vergognarsi proprio. Che se i cocktail ti fregano con lo zucchero col vino non c’è storia. Tra tutti quegli occhi puntati sul muro mi chiedevo perché gli altri sanno portare i colori e non si vergognano di essere fotografati in pose naturali mentre noi continuiamo ad atteggiarci. E intanto con la scusa dell’informazione mi viene in mente di abbordarti e di salirti sulle guance come si fa con le navi, poi lascio perdere e scappo come dai matrimoni. Intanto costruiscono sui prati e costruiscono vicino agli argini e con gli occhi grigi cemento guardiamo l’asfalto, quando un piccione prende il volo pensiamo allo sporco e non cogliamo il privilegio del guardare dal basso. Quando ti togli le mutandine l’odore del tuo sesso, quando ti siedi sulle mie gambe, ma non ti siedi, stai sempre in piedi tu o a gambe incrociate sul pavimento. Questa mattina ero all’ufficio postale, un signore elegante parlava di te, poi ha messo in moto l’Audi e se n’è andato chissà dove, non lo rivedrò più, o magari sì. I discorsi rimangono nella memoria per poco, poi tutto si perde, come quando riuscivamo ad essere naturali. Ora mi dai le risposte di rito, e tutto va sempre bene. Sull’ascensore invece continuavo a specchiarmi, dovrei tagliarmi i capelli sui lati e dirti vieni con me, ti porto via, ma non al mare, ma non al mare.

Foto: dalla rete.

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Da non riuscire nemmeno a sfiorarci

Alla fine ho fatto tardi e continuavo a chiedermi perché ci vestiamo di scuro. Mi viene sempre in mente Nina, il Gabbiano di Checov: “E’ il lutto per la nostra vita, siamo così infelici.”. Chissà poi se è vero. Vedevo gente divertirsi, ballare ballare ballare, bere e ansimare. I capelli verde della deejay che si facevano brillanti, le luci mai ferme e odore di sudore, sulla pelle i timbri per identificarci, tu sei dei nostri, tu invece chissà. E fuori pioveva forte, a Milano si piange nel week end.

Quanti sigari avrò poi fumato per questo risveglio con le parole che emergono ruvide dalla gola, non basterà un caffè a svegliarmi. E’ ora di andarsene, cambiare ancora casa e quartiere, con qualche dipendenza in più e meno tempo da vivere. In fondo alla via c’erano dei ragazzi che cantavano, forse erano felici, forse soltanto ubriachi.

Mentre smascellavi ti chiedevo da accendere e non capivi, mi guardavi e mi domandavi che fine ha fatto l’amore. Era nascosto dietro ai tuoi occhi, tra le tue occhiaia nere e gli occhiali che posi di fianco al letto. Privilegi il bianco tu, c’è nebbia tutto intorno, i miei muscoli un mese sodi e quell’altro flosci.

Ce ne andremo prima o poi a vivere in provincia, lontano dalla Lombardia e dalle luci al neon dei centri commerciali. A Istanbul e a i dervishi di Konya, all’impossibile accesso alla verità, al non amato, ai messaggi che penso e poi non ti scrivo.

Quando metteremo sul piatto le nostre diversità saranno altri a vincere e ci porteranno via dal verde del nostro tavolo da pranzo. Consumeremo i nostri giorni lontani a pisciare sulla schiena ai nostri partner immaginari. Mi dirai che il punto non è il possesso, ti dirò che il potere ci cambia e non so in che direzione. Che le direzioni contano e le dimensioni, beh, quello dipende.

Ci metteremo a leggere le previsioni del tempo e programmeremo i nostri futuri migliori lontano da ora e ci chiederemo il perché di questi tempi eravamo così sciocchi da non riuscire nemmeno a sfiorarci.

Foto: dalla rete.

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Fast food per ricchi

Decidevamo che fare e ci scrivevamo sulla chat di Facebook. Tu mi proponevi il concerto, il solito concerto negli arci con la tesserina da esibire all’ingresso. Io ti dicevo non lo so, è sempre la stessa gente che gira, non ho intenzione di ascoltarmi ancora una cover dei Beatles. Sempre meglio della provincia, dicevi tu, dove sono capaci di proporti ancora la canzone di quelli che bussano alla porta del paradiso. Bella merda. Cosa? Le notti. Stattene a casa allora, io vado, magari rimedio anche da scopare. Per te è facile dico io, tu sei donna e la natura ti ha fatto bella. Un po’ di trucco, il rossetto rosso, le scarpe alte, una gonnellina da vergine e il gioco è fatto. Io invece coi miei colori scuri mi metto sempre negli angoli e osservo e osservo e va a finire che tutti sanno chi sono senza che lo voglia. Non si accorgono di te, amico io, non se ne accorge nessuno, nessuno si ricorderà domani mattina, a meno che tu non gli abbia offerto da bere o abbia combinato qualche casino di quelli che sai fare tu, come quella volta che ti piaceva una donna e hai detto al suo ragazzo che è un indegno e quello ti ha minacciato ed era l’organizzatore della serata. Hai finito per stare sul cazzo a tutti quelli del circolo e sei dovuto stare lontano per un po’, nemmeno troppo perché a te in fondo non interessa nulla di quello che pensano gli altri, ma era tanti anni fa, ora sei cambiato, l’amore e gli ideali ti hanno peggiorato. Non è poi così vero ti ho detto io, lo sai che tutti vogliamo piacere, piacere a tutti o almeno a quelli che riteniamo degni di una qualche attenzione. Citavi Giulio Cesare, dicevi molti nemici molto onore e ti raccoglievi i capelli all’indietro. Mi domandavo perché ai concerti di musica classica si va vestiti eleganti e ci sono le seggioline comode e si è tutti cortesi, ci si fa vanti di galanteria, è tutto un dirsi grazie e prego, ti trovo bene, dovremmo vederci più spesso io e te. Tu dici che ha a che fare con la bellezza, così mi metto a urlare e sbatto le mani sul tavolo, ti dico bellezza per me è scoparsi una gran donna da dietro mentre ascolti la seconda di Mahler o andare a una mostra e dimenticarsi del tempo e delle noie e della merda che c’è fuori. Sei così generico quando dici merda. Chiudiamo la chat perché ti devi preparare e io rimango a consumare i miei sigari seduto sempre sulla solita sedia e con le gambe incrociate sul tavolo, non so se mi spiego, la cenere mi cade sul petto e mi piace così. Non ho comprato da bere questa settimana e continuo a sbucciare arance, sono buone le arance, a qualsiasi ora del giorno, anche la notte, tutte quelle storie sull’acidità, beh, su di me non hanno effetto. E faccio sogni sempre diversi, in questo periodo li ricordo tutti, ci sei sempre tu, magari con i tuoi amici che non conosco o con quei bei ragazzi froci dal gusto raffinato e ridiamo un sacco e ultimamente ci abbracciamo forte, abbiamo anche scopato una volta, ma non ne sono sicuro, vorrei tenere distinti i sogni dal reale. Capita che mi svegli nel bel mezzo della notte e non abbia più sonno e succede anche che mi suonino al campanello e dicano c’è posta, ma i postini la notte non lavorano, penso siano degli adolescenti ubriachi, eppure al mattino la casella è zuppa e chissà che incontri mi sono vietato. Ora c’è un’auto posteggiata sotto la mia finestra, un uomo ci dorme dentro, vorrei svegliarlo e fargli domande sulla vita, per esempio dove lavora, se ha una moglie, dei figli e perché dorme in macchina il sabato pomeriggio. Gli offrirei una birra, le sto inventando tutte per non pensarti, tutte davvero. Io vorrei soltanto uscire con te, e non ti porterei ai concerti e nemmeno ai reading di poesia, manco al teatro, ci accuseranno di essere nichilisti, forse non ci accuseranno affatto, perché a nessuno interessa, quello che interessa è l’odio, il sentirsi diversi, io un tempo ci credevo a questa storia della diversità, ora invece no, o forse non interessa nemmeno a me, credo nelle scelte e nelle cose semplici. Nella scrittura facile, così mi fa incazzare che non c’è il sole ed è il week end e a Bormio le terme sono imballate di gente, fa troppo freddo per sciare, a Milano risplendono le luci al neon e i supermercati e i McDonald’s ed anche Eataly sembra un immenso fast food per ricchi.

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Ma è già abbastanza

Tra i nostri esercizi di vanità un cerotto sull’indice e un taglio superficiale. Ripeti perché proprio a me così ci mettiamo a discutere su quel che ci è capitato in sorte e con le espressioni del viso dimentichiamo di accettare di esistere e poter far qualcosa per alleviare la sofferenza del non saper che dire, che fare, nemmeno dove andare. Dovremmo soltanto accettare la gioia, mi dici. Ma quale? Queste parole così gonfie che pronunciamo quando non sappiamo spiegarci e vogliamo sembrare più grandi. Oltre alla miseria delle nostre chiacchiere nei bar, quando degli incontri ci ricordiamo soltanto gli incipit o i saluti e il resto sono occhi altrove tra i cercatori di attenzioni e questa noia che portiamo sul dorso della mano destra come i timbrini all’entrata delle discoteche. La prima doccia non lava via nulla, bisogna grattare, quasi farci del male.

C’erano tre amici sul balcone e guardavano i carri sfilare, il carnevale che fa scendere in strada e colorare l’asfalto, dimentichi di ogni futuro e ignoranti di ieri ci ritroviamo cresciuti e sempre meno volgari, al di là dell’esibizione delle intimità e della nostra lingua che non teme imbarazzi.

Un’altra domenica di campionato e ceneri in testa, progetti per i lunedì pronti ad essere rimandati e diciotto gradi fuori dalla finestra. Per far prendere il sole ai cani nei parchi, per far prendere freddo alle nostre camicie primaverili, il tuo cappotto giallo in fondo alla strada e la curiosità vana nello scoprire che dentro non ci sei tu.

Tra le panchine verdi delle Tuileries e le statue in bronzo con le dita puntate verso di noi che riempivamo la borsa leggera per sostare nel verde e leggerci le carte, guardarci le mani e non scegliere mai. Che è più facile starsene soli, farsi il proprio ordine e chiudere le persiane quando è quasi buio per evitare lo sguardo invadente degli avventori.

L’irritazione di stare al tavolino a sorseggiare il caffè e tu che mi dici che soltanto i saggi dimenticano la propria testa.

Vorrei fare a botte con la poesia fino a lasciarmi ferire, abbandonare tutto questo lirismo in cerca della verità del dire, siamo diventati così evocativi che finiamo per essere finti e dopo tre righe mi cadono gli occhi, le palpebre chiudono il vuoto mentre le biglie rotolano e le spiagge si popolano delle orme dei cittadini riflessivi che cercano nel mare qualche risposta, ma trovano soltanto quiete e poi altre domande, ma è già abbastanza.

Foto: Andrea Pazienza, disegno.

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