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LETTERA A UN POETA

Caro,

ti scrivo anche se non ci conosciamo, ti scrivo perché ho bisogno di confidarmi a qualcuno senza essere accusato di invadenze.

Siamo pietre che quando rimbalzano sui fiumi piatti saltellano e lasciano scie tonde, poi affondano e riposano nascoste ai più in attesa che qualcuno si tuffi per raccoglierle.

Così i nostri scritti. Proiettiamo le nostre interiorità sul bianco e rischiamo la critica, il giudizio e il riso. Lo facciamo per necessità e per sentire.

Come è difficile, amico mio, qui il mondo si guarda allo specchio e non ci accarezza le guance. Siamo così narcisi che ci specchiamo nelle vetrine per sapere quello che gli altri dicono alle nostre spalle. La nostra camminata e le sporgenze dei nostri bacini.

Non esistono più i gruppi o le correnti e così ci ritroviamo fermi sulle sedie con la testa china a cercare il plauso sui social network per sentirci meno soli. Che ne è del gruppo ’63 o degli under25 tanto cari a Tondelli? Il massimo che riusciamo a fare è organizzare serate nei piccoli locali e circondarci di amici sensibili. Ma frequentarci in scrittura è un’altra cosa. Quanto sarebbe bello stare intorno al tavolo e leggere di noi. Lasciar consumare i sigari al vento per il desiderio di farci ascoltare. E farci accarezzare i capelli soltanto al mattino. Magari tu a casa hai qualcuno che ti aspetta.

Nessuno ci aiuta, è vero, ma noi non ci aiutiamo. I nostri vecchi piangeranno le nostre morti, incuranti e inconsapevoli macchine per la distruzione. Il fatto è che vogliono salvare questa nave che è affondata da tempo e lasciano indietro il futuro. Sono così legati ai modelli che tutto è giudicato secondo parametro e dove c’è il talento non si fa nulla perché questo emerga. Fuori dai binari non viaggiano i treni.

Non siamo qui a darci la colpa, ti scrivo perché mi manchi. Mi mancano le tue parole, le tue lettere, i tuoi giudizi schietti, l’affetto dato dalla rivelazione delle nostre intimità.

Sai quanto mi piacerebbe parlare dell’amore e poter dire: vorrei morire per l’incavo delle sue scapole senza sentirmi un inetto. Questo nulla che ci sovrasta oggi risplende, nascosto, nel cielo azzurro di Milano. Nemmeno le nuvole osano contraddirlo. I passi sono stanchi e gli occhi appiccicati ai cellulari. Abbiamo le tasche più consumate di sempre.

Caro amico, dove sei? Dammi notizie di te. Scrivimi, cercami. Facciamo qualcosa. Li vedi i musicisti che stringono amicizia, fanno le jam e magari non si piacciono, ma si stimano, si aiutano. Perché noi no? Perché ancora cerchiamo la soddisfazione personale soltanto? Perché?

Al posto di trascorrere le nostre giornate sulle reti per tastare il polso al paese reale e poi farci pagare i laboratori per sopravvivere, facciamo così: trascuriamo quella boria che ci vuole insegnanti, neghiamo le cattedre e apriamoci al confronto, diamoci degli appuntamenti, apriamo le nostre case e decidiamo di leggerci e guardarci.

Potrei mettermi in ginocchio per ascoltare le tue parole, o in piedi sull’attenti, o seduto con le gambe incrociate, chiudere gli occhi, magari piangere o urlare. Sorseggerei del vino.

Preferisci finire anche noi come i nostri padri, su quelle scrivanie a decidere i destini dell’umanità? Domandami cosa c’è sotto al banco, pensa ai polpastrelli consumati, alle rughe dell’espressione, alle crisi di nervi davanti ai loro figli, ai mariti, alla frustrazione nell’osservazione dei muscoli altrui.

Finiremo noi come i filosofi e ci circonderemo di giovinette?

Indossiamo pure i nostri cappotti invernali, copriamoci di ridicolo ordinando un vino pregiato nei bar milanesi. Facciamoci invitare a cena dai nostri amici più ricchi e poi raccontiamocelo. Condividiamo questa povertà, è uno spazio raro, durerà poco, troveremo il modo per cavarcela, lo sai e non saremo più quelli che siamo ora.

Prepariamoci al tuffo, alle mani che verranno a raccoglierci, facciamolo insieme, che le correnti logorano chi le contrasta e modellano a loro piacimento. Facciamoci forti, facciamolo insieme e diventiamo diga.

O amico caro,

a presto.

Marco

Foto: dalla rete, Corso e Ginsberg.

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Abbandonare Rojadirecta

E mentre nascono i figli dei re noi disperdiamo giorni a cercar vittorie nei videogiochi. Consumiamo le antenne paraboliche per aggiornarci gli smartphone e cerchiamo distanze sempre restando legati alla madre.

Ti chiederai perché non smetto di scrivere, io solo, io non amato, io relitto di navi affondate da tempo. Ti chiederai perché canto al risveglio e nego le rime e privilegio il ritmo, mentre mi gratto le nocche e spremo i pettorali perché sia fatta la volontà del giorno.

Aggrappati alle lenzuola chiudiamo gli occhi e cominciamo il viaggio, neghiamo la meditazione e incensiamo l’emozione. E decidiamo di andare senza bisogno di via e protestiamo con stile evitando il giudizio, ma spostando lo sguardo.

Dovremmo possedere il balcone davanti al nostro e sederci a contemplare la natura morta del nostro mobilio: dove vivi è importante. Così, in questa rue Montorgueil pitturata in turisti e urlante in mercato, sfilo vestito di camicie leggere e scarpe pesanti. Raggiungo la chiesa di Saint Eustace e accedo all’incomprensibilità del gregoriano. Ricordo che esistono le genti e che utilizzo la parola con spocchia borghese. L’inaccessibilità di certi ritmi barocchi e il potere del tamburo africano.

A seconda del cuore dilazioni in battiti il tuo sentire. Potrai associarti alla popolata schiera dei saggi e trascurare il carattere schivo del mio osservare, o andare oltre al già udito e darti il tempo per comprendere. Che se all’inizio è fascino e poi disagio, è con l’ascolto che accedi alle altezze.

Raffinarsi in esercizi, il quotidiano rito del risveglio in piegamenti sulle braccia e suono di tasti e desideri irrisolti. Saranno anni che non mi rispondi, e non ci sono campanelli, né porte, né numeri di telefono. Che belle labbra che hai, che orecchie grandi vorrei. Per sostituire all’istinto l’ascolto e penetrare a fondo quel che mi sono tatuato nel colon, che ogni tanto si infiamma e poi, cheto, si lascia dimenticare. Andare al mare, mangiare una pizza, venirti a prendere e aspettare che scendi. Una vita normale, una vita risolta e appuntamenti sicuri: l’abbonamento alle televisioni a pagamento e abbandonare Rojadirecta così che anche un match di precampionato perda insicurezza, acquisti in qualità.

Foto: David Goldblatt

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Schiaccia molti high five

Così si era fatto mattino.

La schiena rigida e il peso del giorno. I panni stesi sempre umidi e dimenticarsi ancora una volta di asciugarsi le ascelle dopo una doccia breve. E non capisci dove sei, il desiderio del cuscino e questo cielo che si confonde ai palazzi e chiede uno sforzo al colore, agli stendibiancheria e alle magliette a righe della capitale francese.

Vorrei fermarti per strada e dirti è tempo di far colazione insieme, quanti giorni sono passati non vale la pena di ricordarselo.

Nella Pangea dei miei pensieri notturni non distinguo gli affetti, la spuma densa dei mari d’inverno e immaginarsi il bianco di Grecia e il nero dei tuoi capelli.

Vorrei dirti non so ballare, non so cucinare, non so nemmeno arbitrare. E invece so fare un po’ tutto, ma mai fino in fondo. E’ una questione di voglia, forse di responsabilità.

Di quando scrissi Milano aspettami, Milano addio, dei miei ritorni e della malinconia del lasciare le strade grandi e questo mischiume di genti che apre le porte della cattedrale mai costruita della meraviglia.

Non avremo paura quando ci troveranno per strada a lanciarci sassi sulla fronte per far uscire i nostri pensieri nascosti.

E cercheremo il confronto coi grandi del tutto facendoci trovare ricoperti del niente. Così trasparenti che potranno passarci attraverso e li vedrete coi capelli più corti e le spalle più larghe, i culturisti della parola mai troppo pensata.

Colano le strade dell’orina gialla di certe pagine della stampa, dei libri invenduti sulle bancarelle e illuminano le stelle il piscio per la bellezza dei concerti all’aperto, delle grigliate nei prati, gli aperitivi sulle terrazze e quel sereno poltrire del sabato pomeriggio.

Quando ti chiederanno che pensi di me rimani zitta e sorridi, poi schernisciti e inventa uno sguardo nuovo. Schiaccia molti high five e cerca l’altro per curiosità, non per possesso.

E ora a noi due, mie mani, mia strada, mio gelido spruzzo dei pensieri di giugno. Alla quarta di copertina di un libro mai scritto e alle mie processioni di questua davanti agli editor, alle colonne senza vita delle case editrici sempre chiuse, come le chiese.

Foto: Willy Ronis

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E desideri di spogliarelliste

I pesci di notte non dormono e vederti nuda non mi provoca più nessuna reazione evidente.

Muovi i tuoi piedi nell’aria e io penso alla fragilità della classe politica italiana e scambio per franchezza quella che è miseria.

Tornavo a casa la notte con una borsa di plastica e un’insalata d’asporto, la bocca piena delle parole che vorrei vomitarti addosso per farti affogare di romanticherie. Quando dovremmo soltanto sedere insieme sulla panchina curva del tempo e non aver paura delle bottiglie vuote e dei vestiti firmati.

Nella mia chioma spettinata le briciole del nostro ultimo incontro, ho chiamato un parrucchiere, le forbici in mano, non c’è tempo da perdere nella corsa alle armi. Così ho riempito il curriculum di giornate inconcludenti e ore spese in pigrizia, la mano stretta alla maniglia che per aprire le gambe, sollevare le gonnelline leggere e accorgersi dei capezzoli più nascosti. Le scrofe allattano i piccoli appoggiate sul fianco, le madri invece abbracciano mentre il cielo sembra darmi tregua cancellando il sole col grigio.

Nell’armadio magliette della Juventus che non indosso da secoli, a quando un calcetto? Dovrò aspettare mesi per far lo sgambetto alla sfiducia che aspiranti madri hanno ricamato sulle mie camicie nuove.

E mentre tutto si chiude come ostriche ricche ai richiami dei sub, sputano acqua i delfini e ci confondiamo con le benedizioni, i nostri sogni solcano i sette mari mentre mi sono messo in lista d’attesa per l’assegnazione dei tuoi sette cuori.

Vorrei accanto a me una spogliarellista vestita perché non ho tempo da perdere.

Quando ho sentito casa e su Skype trascuravo parole per concentrarmi sul richiamo dei passeri. Le città grandi smarriscono l’ordine naturale dell’alternanza sole buio e rimandano alle stagioni la decisione sull’apertura delle terrazze.

Puoi venire a dirmi che scrivere non è un lavoro e ti metterò nell’orecchio una pulce, è un lavoro vivere? Perché non rivestire di merda le nostre unghie quando lo sporco testimonia l’esistere.

E troverò altri contenitori per le mie debolezze, perché è inutile scriverti, assomiglia a un videogioco senza morte apparente. Senza primi o secondi e con le password dimenticate.

E ti ricordi quando indossavi l’apparecchio? Ora hai i denti dritti, ma sei un po’ meno simpatica, forse più grande. Che quando ridi le tue lentiggini si fanno lucciole, i tuoi capelli bosco, i tuoi occhi lupi, conigli, donnole o randagi. E tanto ormai fa lo stesso.

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