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A te, Jack, nell’anniversario della tua morte

“Vertiginosa, dolce, le più belle caviglie delle vostre meravigliose bellezze non potevano reggere il confronto con un atomo della carne di Maggie nella cavità delle ascelle, tutti i loro occhi, i diamanti e i vizi nessun confronto con la mia personale e intensa visione di Maggie polvere di stelle.”

Sono parole d’amore, di visioni intense e personali quelle che mi vengono in mente oggi. Maggie Cassidy è il suo libro preferito, uno dei tanti a dire il vero, l’unico però dalla prosa che le appartiene e appartenendo a lei appartiene anche a me. Lei è una mia amica, un’amica di quelle che ce ne sono una e basta che le incastri al cuore e quello sanguina ma poi si abitua al chiodo e se lo togli comincia a sputare sangue qua e là e poi muori perché così è la vita in solitudine, un disfacimento lento farcito di cinismo. Sono passati 46 anni dal tuo ultimo giorno, amico mio, e le parole che di te ricordo son quelle dell’amore. Sarà per la mia età, trent’anni che saranno mai, diresti tu, alza il culo e vai a gioire, amico. Che “Non abbiamo tempo, è una notte eccitante in cui sta accadendo tutto non solo a te ma a tutti quanti perché sta accadendo a te! Siamo raggianti, sazi, malati di felicità.”

La felicità come malattia, come l’amore. L’ho realizzato ieri a notte inoltrata mentre il mio motorino ronzino di ferro mi riportava a casa sfilando le rotaie dei tram. Sono guarito, Neve non è più, o almeno, è ancora e sempre sarà, il lungo inverno del mio cuore bianco. Sono solo e ramingo ora, pugni chiusi e rovinati per le battaglie con lo specchio, sguardo ancora sporco, quanto ci vorrà per lavarmi l’anima? Vorrei parlare a tu per tu, io e te, chissenefrega dei cantanti, chissenefrega dei filosofi, mi annoiano, sai. Tu e i tuoi campi infiniti, i viaggi coi pantaloni sporchi sulle ginocchia le camicie tese tra le tue spalle larghe. Tu che mi inviti alla felicità e mi assomigli in sentire e profondità e debolezze e perdizione e disordine. Il tuo alfabeto mi scardina le costole e arriva a bussarmi alle viscere. Io ti comprendo, tu mi comprendi. Sei annegato nell’alcol, non ce l’hai fatta e potrò mai fartene una colpa? Se fossi vissuto più a lungo ti avrei cercato come un fratello di cui s’ignora l’esistenza fino alla rivelazione improvvisa e alla rincorsa. Avremmo bevuto, questo lo so, poi lunghi silenzi, lo sguardo basso sui culi delle cameriere e delle passanti, sulle caviglie fini che ci ha disegnato Truffaut, basta così. Stare insieme e nulla più. Avremmo parlato disprezzando qualsiasi cosa perché è il nostro modo di amare, la nostra dolcezza, viene fuori così, come gli astici, noi.

È una stronzata scriverti ora, nell’anniversario della tua morte, il punto più alto della tua debolezza. Ma i pensieri degli uomini hanno bisogno di appuntamenti, ieri tutti sono impazziti per l’anniversario un futuro di fantasia, io impazzisco per tutto quello che mi è vietato vivere, per la difficoltà dell’amore, per quel calore che soltanto la tavola sa dare. “Vuoi sederti qui, con me? A fare cosa? Nulla. A passare il tempo. A stare nel tempo.” Che importanza ha tutto quello che veloce scorre intorno quando poi un paio di caviglie, capelli neri lunghissimi e colori pastello ci fanno perdere il senno?

Amico mio, carissimo, amico mio, compagno, nel paradiso di tutti i paradisi tu sei perché là sei sempre stato. Se siamo nati così, imperfetti, indecisi, irascibili, amanti dell’alcol e dell’amore bianco, orfani della grazia, travolti dalla nostra sensibilità, irresponsabili amanti degli esseri umani, seguaci del viaggio e ricercatori saltuari del silenzio, se siamo nati così l’importante è riconoscere un nostro simile per non sentirci soli. Tu sei, sei stato, ci sarai, chissenefrega della retorica amico mio. Ti vorrò bene oggi e ancora e ancora.

Marco

“Conoscevo gioie non per nome ma perché mi attraversavano il petto che raggrumava il sangue caldo e scomparivano senza aver conosciuto nome, ignote, non comunicate ai pensieri di altri ma ordinate nello stesso modo e quindi come i pensieri del negro, intensi, normali. Fu più tardi che ci gettarono giù dal cielo apparecchi radar per confonderci i sensi. Basta con gli eccessi di Rimbaud! Piansi ricordando il bel volto della vita quella notte.”

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Cominciamo noi

Di tutto ciò che ho desiderato non tutto ho potuto avere. Le tasche vuote, l’anima smarrita su lampioni dalla luce bianca e coppie innamorate e sigarette spente e fiumi a scorrere notte e giorno sotto di noi e nuvole ad accoppiarsi a fondersi a sfilacciarsi sopra di noi. Non c’è un tuo respiro che io non abbia raccolto, una tua pausa che io non abbia compreso. Come gli occhi delle guardie notturne si adattano al buio e raggiungono lontananze per gli esseri diurni impossibili, così la mia sensibilità si modella alla tua e dona senso a ogni tuo gesto, tentennamento e sguardo. Cammini così sicura che nessuno ti ferma, io solo alzo la mano in segno di stop. Facciamo fatica anche ad abbracciarci. I fiori, i fiori che il tuo profumo ricorda. Le api, le api che le tue labbra richiamano. Il nettare delle tue cosce bianche. Il vento che i pensieri disperde. Non dirmi che fai, con chi sei, non dirmi che mangi, cosa guardi e come trascorri le tue serate. Nascondi il tuo volto quando indossi gli occhiali, quando il tuo pigiama inghiotte gli orsacchiotti e accoglie il tuo sonno. Le tue colazioni, le tue coperte di lana, i cieli bianchi che sai fermare sulle pellicole. È soltanto luce, mi dici. E io non so più pronunciarmi, ti ho detto ormai millanta volte che la parole hanno ugual dignità, quel che importa è il modo, mi esce un porco cazzo, tu ridi. Io non lo so. Dilunghiamoci adesso sui nostri desideri, sui nostri limiti e i contorni delle nostre case troppo piccole. Invitami a cena, vieni a cena da me. Dimmi che vuoi tornare a ballare, dimmi che hai fame, che hai sete, che hai sonno. Torniamo ai bisogni primari. Abita il mio letto e lasciaci il tuo profumo, torna con tutti i tuoi ieri, lascia che l’oggi sia anche il futuro, non rimandiamo niente al domani. Non lasciamo il forno acceso per scaldarci, allunga le tue dita lunghissime, raggiungi le mie, poi guardami. Così ogni cosa finisce, così il tempo accelera, rallenta, che importa, cominciamo noi.

Foto: © Lise Sarfati

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Chiamami selvaggio

Quando le parole non vengono a soccorrerti al risveglio e ti lasciano al vuoto, tu che tendi al disfacimento e sfuggi ai tuoi contorni, quando lo spazio del tuo corpo sembra non bastarti perché sei sempre altro e altrove. Quando non godi dei baci, non ti lasci avvolgere dall’abbraccio testa infilata nell’incavo del collo, profumo annusato, cuore a battere, mai presente, nei tuoi luoghi lontani, disperso. Hai fatto tutto bianco intorno a te perché il colore accompagna sensi e ricordi, il chiarore delle luci tutte muove lo sguardo finché si perde e tu sei e non sei. Il tuo respiro, dici, non conosce ritmi regolari, è tutto un rincorrere e poi fermarsi, ansimare, tornare a correre. E ancora sei e non sei. Immagina ora il tuo letto grande, immagina ora un gattino, immaginalo cercarti, immaginalo zampettarti accanto e a te strusciarsi guidato soltanto dal suo istinto così che il calore cerca il calore. Immaginalo ora e poi dimmi quando ti stancherà, quando dirai così è troppo, non ce la faccio, andrà avanti così per sempre. Immagina ora una volpe venire a farti visita la notte, bussare alla porta, annusare i resti del cibo nella tua pattumiera, cercare nel buio i tuoi occhi e farli incontrare col verde dei suoi, di meraviglia tu rimarresti immobile, di spavento lei fuggirebbe. E così la notte dopo e quella ancora. Non avresti ansie, soltanto dubbi e attese. E confonderesti con piacere desiderio e curiosità. Tornerà domani? Sarà la stessa volpe? Incrocerà ancora i miei occhi? Tra il domestico e il selvatico qualcun altro ha scelto per te. Sei nato col pelo sul petto, con le mani facili a rovinarsi, coi piedi saldi e il passo sicuro. Chiamami selvaggio quando nego il pudore, chiamami selvaggio quando sono soltanto invadenze, quando non so cosa sia il riposo dei sensi, quando dovrei essere corpo e invece sono pensiero, quando non ho casa, non ho città, quando la strada è troppo fredda per essere abitata e mi rifugio nella caverna del cuore e cerco te, te, sempre te. Perché tu sola esisti, perché tu sola sei. Donna. Per l’aggettivo del possesso non c’è mai posto in questa vita breve. Perché se io sono l’altrove, tu sei l’oltre, e nello spazio che non ha tempo siamo, e io l’amore me lo spiego soltanto così.

Foto: © Théo Gosselin

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Verrà poi Draxler alla Juve?

Sarà il calciomercato, l’avvicinarsi di settembre, dormire con le finestre chiuse, respirare sempre la stessa aria da troppi giorni. Un treno, rotaie lunghissime, aria condizionata e poi prati verdi, bicchieri di vino e case bianche. Questo ci vuole, cambiare aria al pesce, spostare latitudini. Mi hai scritto proprio ora lo stress è come un bicchiere d’acqua, se lo prendi in mano è leggero, se lo reggi per un’ora è insopportabile. Mollare bisogna, non preoccuparsi dei vetri e del rumore al contatto col suolo, sedersi dove capita, ferirsi coi ricordi e lasciare che il sangue sgorghi un poco, poi il tempo, le piastrine e tutto il resto, il taglio si rimargina e il dolore che porta diventa un ricordo. Certo che l’ansia di non sapere se Draxler verrà finalmente a regalare poesia all’attacco bianconero per me rimane un peso. Verrà il trentuno del mese e avremo chiuso con tutte le dicerie e i discorsi fuorvianti e sarà tempo di fare i conti con quel che c’è, decidere il modulo, dare fiducia al capitano e sudare e sudare negli allenamenti per fiorire in partita e vincere, vincere, vincere non trascurando il bel gioco. È il quinto caffè che mi annerisce lo stomaco, è il terzo sonno dalle tre del mattino, dovresti smetterla, colora di bianco i tuoi denti, dici così, a me, intollerante ai latticini e ai consigli. E mentre tutti tornano noi partiamo, e mentre tutti dormono noi dormiamo. Smettila di cercare l’orizzonte, dici ancora, e io che gli orizzonti li ho sempre inseguiti ora che faccio? Basterà un balcone? Un letto? Una finestra? È inevitabile. Guarda i miei occhi ora nuovi, ne ho consumati un paio o forse più, guardaci dentro e dimmi che vedi. Io ancora niente, sono in rodaggio. Comincio con te, rimani qui, proprio davanti, e prima metto a fuoco e poi mi guardo intorno, così che tutto, questa volta, lo sai, parte da te, che sei mio occhio, mia destra, mio inaspettato orizzonte.

Foto: © Giulia Bersani

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Parole non dette, canzoni mai ascoltate

Non c’era tregua nelle loro parole, tutto intorno il mondo si specchiava in luci e automobili ma a loro non sembrava interessare. Il centoventicinque ai settanta all’ora sulla statale che porta al concerto. Cosa si sono detti nessuno lo sa e lo saprà mai, li hanno visti così vicini che sembravano una persona soltanto. Una volta arrivati le canzoni non le hanno ascoltate, nemmeno una, hanno smesso di parlare e si sono guardati e basta. Pause soltanto per sorseggiare il giallo delle birre e un oooh di meraviglia quando sono scesi i coriandoli tra tutti quei neon colorati e il cantante ha detto buonanotte. Tutti amici intorno. Tutti i saluti dell’universo al loro piccolo pianeta inventato lì e là sul momento e la consapevolezza che la bolla era scoppiata. Il sogno interrotto. E poche stelle in cielo. E molte gru. Lei pelle sensibile e occhi enormi, lui capelli lunghi e polsi magri. Si erano detti il loro nome molte volte. Si erano conosciuti lentamente, eppure erano due vulcani fatti di lava e labbra morbide. Lui senza barba, lei senza trucco. E le macerie intorno. Le amicizie del recente passato avevano perso colore, soprattutto calore. Guardavano i miti dei più come chi conosce gli uomini e sa che dietro allo spettacolo è tutto una miseria perché misero è l’uomo. Che dietro allo spettacolo è tutto una meraviglia perché meraviglioso è l’uomo. Difesi dai maglioni lunghi con le maniche consumate, difesi da abbracci ripetuti e mai invadenti, si parlavano come fanno le montagne. Silenzi carichi di pioggia, grandine e neve, soltanto a volte, gioiose, la neve. Poi pallidi soli e quotidianità. Lui aveva scritto lettere tutti i giorni per cinque lunghi anni a un’altra donna, capelli lunghi e neri, volo del corvo. Lui ora incapace di fogli, iniziative timorose, proposizioni coraggiose soltanto dopo l’alcol della mezzanotte. Lei leggera a volo di libellula, dita lunghissime e caviglie fini. Il bacino urlava, la lingua spingeva sul palato, anche il cazzo bussava con forza nei jeans prima larghi ora troppo stretti. Perché quella pausa dal sesso che riposa i pensieri e dona al corpo il respiro della quiete? Perché evitare di rivelarsi ancora in nudità e verso animale, violenza di schiaffi ed esplosione di impronte sul culo sodo delle giovinette? Paura. Se la solitudine è l’immagine della morte, la paura è un recinto. Quando batte forte il cuore, quando l’intestino geme, quando non c’è lenzuolo che non venga voltato e rivoltato da un corpo caldo che cerca un posto nella notte delle domande, il timore s’esprime in ansie e difficoltà nel respiro. Da quanto tempo lui non faceva colazione ascoltando una canzone, una qualsiasi? Da quanto tempo lei, cuor di leonessa, anche scaltre, fica splendente, da quanto tempo lei non riceveva sguardi così lunghi, densi e incompiuti. Da quanto tempo lei non si sentiva amata. Li chiamano angeli bianchi, teste logorate da velleità sante, poveri profughi del quotidiano, incapaci, inespressi. Li chiamano irrisolti soltanto gli psicologi dagli uffici all’odore di deodoranti sintetici. Lui la accompagnò sotto casa. Lei aprì il portone, salì le scale, lui aspettò che si accendesse la luce del piano. Guardò il soffitto, bianco. Guardò il cielo, nero. Indossò la sua tutina da supereroe e tornò a casa. Sul centoventicinque lei non c’era più e quella notte era ricordo. Magari sogno. E poche stelle ancora.

Foto: © Nicoletta Branco

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Scegliere di stare è un viaggio

Smettere di bere è soltanto un proposito, il frigo si svuota ora dopo ora e l’ultima settimana di agosto brancola tra la nebbia e soli pallidi di questo nord così piatto che si fa invito a materassi morbidi e occhi chiusi. Immaginarti qui è uno sforzo inutile, non ci sei, non c’è il tuo odore, i tuoi fianchi appuntiti, nemmeno i tuoi denti a ricordarmi le alpi, la trincea bianca e confusa che separa la tua voce e la mia. E più viaggio e più scrivo e più penso, più popolo l’orizzonte di magre cerbiatte dal colorito chiaro e mi accoccolo sul ventre loro caldo e intreccio il collo ad altri colli, più la solitudine bussa allo stomaco. Come se il mondo non bastasse al mondo, come se il cuore non bastasse al cuore. Stronzate! Mi sono rammollito dici, uomo che non conosce quiete, uomo che non sa cadere nel sonno in un prato, cantare forte al largo dell’immenso mare di Sardegna, farsi grido nei folti boschi della Valtellina. E gira e gira questo smania di emergere, il piede affonda nell’asfalto caldo del quotidiano, inquieto il respiro, affannoso l’eloquio, quel che guardi sei, quel che desideri diventerai. Pensa tu ora a dove dirigi i tuoi occhi, al desiderio profondo che anima il tuo fare, non mentire. E ora decidi, la tavola è apparecchiata, la valigia pronta, o siedi o vai, falla semplice. Se tutto intorno sono colori pastello e terrazze, blu di cieli e blu di mari, gatti e finestre, persiane pitturate e mura bianche, case basse, se tutto intorno sono giorni felici e ombre che regalano profondità, chiediti perché tu sei l’uomo che guarda e non quello che vive. Fallo lo sforzo della semplicità, è lo scorrere dei giorni, uno a uno, che si fa vita, non l’idea del vivere a dar forma ai giorni. Perché tutti questi punti di domanda? Lei, lei o un’altra, ti aspetta, ti cerca, magari non lo sa, magari non lo sai tu, che aspetti a vivere? Scegliere di stare è un viaggio, posa la borsa e prendi confidenza coi muri, apri le finestre e guardati intorno, impara ad amare il tuo cielo, ci hai mai provato prima d’oggi?

Foto: © Sarker Protick

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Ce ne andiamo a giro

Ora che è tutto chiaro: bianco l’asfalto, i palazzi, bianche le pietre agli angoli delle stradine di campagna, i fiori dei campi che il tuo piede leggero calpesta, si fanno candidi anche i miei occhi e quel che vedo è luce. Non c’è alba né roseo tramonto in questo mio guardare, non c’è riposo, ma la purezza di denti capaci di morsi, c’è quella voglia misteriosa di sporcarmi che domina le ore chete dei pomeriggi d’agosto. L’ultimo abbraccio estivo, sudore alla fronte, piedi nudi e il motorino con la freccia accesa a indicare una fermata mai una sosta, l’arrivederci che prima o poi verrà, le felpe e i maglioni, poi dicembre. Noi che ci sediamo fronte a fronte incapaci di pensare ai domani tiriamo fuori dal pozzo delle viscere i ricordi stravolti dal nostro vivere sensibile e immaginifico e continuiamo a donarceli senza stancarci; non sono foto pancia scoperta, costume a fiori, non sono canzoni, siamo noi, dici tu, io dico boh così siamo d’accordo. Raccogliere i pensieri degli altri, il film delle intimità confessate ai conoscenti, la nostra rabbia sfogata dietro alle finestre e quelle allergie che ci tormentano. Vogliamo dare ancora la colpa alla sensibilità? C’è in tutto questo nostro avvicinarci la corda invisibile dell’ego imperfetto così possiamo soltanto sfiorarci. Se tu fossi me, io te, che cambierebbe? Ce lo diciamo per gioco, per riempire il silenzio. Ti dico il bar mi rovina le mani, dici che il viaggio rovina i tuoi piedi, è come se le tue mani fossero i miei piedi, dici ancora, io dico wow. Tutti questi nostri ragionamenti non portano profitto a nessuno, lo sai? L’economia rallenta perché la rallentiamo noi, sentiti in colpa. Dobbiamo fare i conti anche col mondo, mi dici, altrimenti scappiamo. Scappare da chi da cosa da dove? Scappare per andare dove a fare cosa e poi perché? Ci facciamo lotta col desiderio di emergere, di riuscire, di farci finalmente belli, belli davvero, che ce lo dicono in tanti ma in fondo in fondo nessuno ci persuade. “Persuade”, rideresti a sentirmelo ripetere e giocheremmo con l’accento. Ci piace così, ci divertiamo con quel che c’è, sappiamo ancora distrarci e confondere il reale col su forza, raccontami una storia. Mille incipit e mai una fine, non ti viene ancora a noia raccontarti? No, dici tu. No, dico io, così ricominciamo da capo. “Piacere Marco”, mi dai la mano, io la stringo, e non è come la prima volta. Mi conosci già, dici tu, io faccio sì con la testa e ce ne andiamo a giro e intorno, sai, tutto intorno, vola tutto anche se non te ne accorgi.

Foto: © Conor Clarke

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La nostra fortuna

Mi scrivi ho camminato a lungo fino a non averne più, chilometri e chilometri in compagnia dei campi di grano che fanno dello sguardo oro e pensieri di luce e milioni e miliardi di pensieri, scie luminose di mosche e ragnetti, com’è tutto confuso qui, come posso isolare un’idea dalle altre, quel che mi rimane è il corpo e va sfiancato, perché finalmente io dorma e mi senta appagata del giorno, contenta dell’essere arrivata sana e salva e farmi accarezzare dal vento e attendere la notte come un pasto caldo. Dimenticarsi del tempo è cosa semplice, dici, e confondere i giorni, i numeri e tutte le vite passate. In tutto quell’esercizio di gambe e di fronte sudata c’è la tua sfida al buio, io cerco il sole, dici, fatico a comprenderlo lo sai, io che trascorro ore persiane chiuse e luci artificiali, camicie aperte fino al terzo bottone, cuscini sudati e citazioni di questo o di quell’altro per cercare di dar forma alle intuizioni della sensibilità. E mentre intorno tutto si muove, tutti si muovono, tra Bali e il west, gambe nude e cannucce nel cocco, alzo le mani per abbracciare la vita del qui e dell’adesso, non preoccupandomi del male, delle preoccupazioni future dell’inevitabile dolore dei giorni. E mentre tu, lassù o chissà dove, sei estate eterna, spiga fiorita in pane, io sono autunno di foglie, lacrime calde a bagnare il terreno, dei fuochi oltre la collina l’odore di cenere e poi il vento a confondere i capelli, il gusto aspro della vite, il dolce dei fichi e le mani sporche, l’anima greve che prova a sollevarsi e questo corpo di piedi che affondano nell’erba. Tutti i legami che ho costruito, il sangue che mi confonde al padre, alla madre, il loro dolore, il mio, le loro gioie, le mie e le difficoltà a trovare oasi. Non abbiamo scelta, non c’è cuore capace di solitudine, non c’è silenzio che prima o poi non venga interrotto. Nell’ego spropositato delle strade di Milano, di quel capelli nuovi di parrucchiere, in quelle creme che colorano pelli raggrinzite, negli editoriali stanchi che provocano al vuoto, nell’invito al selfie e al libro, l’imbonitore parole di zucchero, accuse e camicie stirate, quel che rimane sui quotidiani dell’uomo delle città. Nelle tue braccia lunghe, nel nostro muoverci impacciato e bocche sporche di vino, le preghiere d’essere ascoltati, compresi. Ci hanno fatto troppo male, mi dici, questa è stata la nostra fortuna. Ci faremo del bene ti dico, mi baci gli occhi, così vedi meglio, dici, mi chiudi la bocca, impara a restare, ora, qui, e nel silenzio siamo tutto un respiro e nel costato che fa su e giù ora sappiamo che siamo vivi, io e te.

Foto: © Claude Rouyer

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A rimandare i tramonti

La differenza tra Milano e Parigi la fanno le scarpe mi dici, che se ho dei problemi con quegli zatteroni tutti neri e strisce lucide è tutta colpa della mia infanzia. Vedo vestiti a righe dappertutto e sulle spiagge sono alla ricerca dei costumi interi, la pancia te la guardo quando sei con me: conosco i tuoi muscoli, i tuoi nei e la forma tonda del tuo ombelico. È agosto di ventilatori, deumidificatori, aria condizionata nei centri commerciali, nella tua stanza. È agosto di barche e porti, di mete da raggiungere, da immaginare, di voli che partono in ritardo, di cammini in solitaria, di vette e nevi sciolte, grigliate in giardino, spiedini di pesce. Birra, birra e ancora birra, poi a pranzo insalata e cipolle tagliate a fresco, pomodori dappertutto, le tue guance rosse, le tue cosce bianche, la stella tra le tue gambe che non cade mai e illumina i miei giorni tutti uguali. Lasciami penetrare il tuo buio, morirti dentro in mugolii animali per poi rinascere nel respiro che torna regolare, tornare uomo, guardare il contorno dei tuoi fianchi, farmi voce e caffè, persiane aperte. Salutiamo il giorno prima di tutti gli altri, il rosa dell’alba e tutti i fiori che non ti ho mai regalato, le lettere che non ti ho mai spedito e ora intere trascorse in pensieri. L’impronta delle dita sull’Iphone, tutte le mie noie a portata di click. Leggerti è meraviglia ti dico, abbiamo solo un cuore, mi dici, io non lo so se posso contenere tutto, se prima o poi esploderò, io, i miei oggi, i miei domani e tutte le parole che fanno bruciare la mia pelle e illuminano tutto intorno. Se tu ci sei io vivo, se tu sei lontana io arrivo. Ho preso un treno oggi, poi dieci chilometri a piedi, poi ancora treno, pullman, una corsa in cima alla collina per guardare tutto dall’alto e cominciare a possedere con lo sguardo. Chiamare mio quello che è di tutti gli altri, avere la coscienza che se succede qualcosa di straordinario a noi succede a tutti e il mondo intero apre la bocca per fare wow, così quello che per molti è uno sbadiglio noi sappiamo stupore. Non ti ho trovato questa notte, domani un altro treno, un volo, un atterraggio e chilometri e chilometri di pensieri ancora, ho pronunciato così tante parole fino ad oggi che quando ti avrò di fronte non dirò nulla ma l’amore infinito mi salirà nell’anima e dovrò scappare, lontano, molto lontano, così nascosto nei miei pensieri che dovrai stare al mio fianco e aspettare fino a che il cuore rallenterà, fino a che il cazzo smetterà di pulsare. Infilerai una mano tra i miei capelli, libererai i miei occhi dal nero e mi ridonerai la vita. Così le tue spalle, le mie mani, così il tuo collo, le mie labbra, così il tuo ventre, i pettorali, il mio bacino e il tuo monte di Venere, sarà danza e profumo, saranno scintille e fuochi. Quando le stelle cadranno fermeranno la curva lucente del loro andare per guardarci e la notte sarà chiara. Vedrò il mondo nelle tue pupille, tu, aggrappata ai miei fianchi rivolgerai l’ultimo saluto alla luna e per noi sarà un giorno eterno. Mi hai ricordato che cosa è il corpo, a me, angelo dalle parole di lava, ti chiamo estate, tu autunno di foglie, ti faccio ombra così respiri, ti fai luce infinita tu, rimandi i tramonti e aspetti che io impari a guardarli.

Foto: © Luca Bortolato

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Lo skyline di Manhattan

C’è un cane che abbaia giù in fondo alla strada. Le lavandaie lavano. Odore di sapone e finestre aperte. Tu alzi una mano per salutare, sorridi con quei tuoi denti che paiono lo skyline di Manhattan. C’è il tuo neo che saltella per strada, lo prendo al volo e me l’appiccico sulla guancia, ora ci assomigliamo un po’. Ti ho detto l’ho sentito dal primo momento che eravamo come il pane e il pomodoro, mi hai risposto io no e poi hai infilato la testa sotto al tavolo. Non mi guardare hai detto, non posso fare altrimenti, ho detto io. Proprio “altrimenti” ho detto. Da quel momento in poi la mia esistenza è cambiata. Non ero più solo al mondo, non c’eri nemmeno tu al mio fianco. Una valanga di pensieri e una tempesta di vorrei, mi sono tagliato i capelli due volte per cercare di non riconoscermi, per confondermi ai tanti. Ho fallito. Ora mi guardo allo specchio e mi riconosco e dico sono questo qua, soltanto questo, se ti basta appoggiami ancora il mento sulla spalla. Ti penso e mi appare la tua immagine come dentro al caleidoscopio. Cazzo che fatica scrivere una parola così. C’era la luna blu nel cielo, hanno detto, qui era nascosta da nuvole scure, ho aspettato tutta la notte che tu mi scrivessi: guarda il cielo. Non l’hai fatto, ma non importa, sai, era un modo come un altro per farti entrare nei miei giorni, per sentirmi più leggero, che le ali ce le ho ma manca il vento. Ho amici dappertutto, la provincia sotto questo punto di vista è un bell’aiuto.

Lo sai cos’è il duende?

C’è chi non sa piangere davanti a una poesia, chi invece lacrima per l’emozione di un regalo ricevuto, di una nuova nascita e così via. Sto diventando così banale che ora potrei chiederti quanti siamo nel mondo, tu risponderesti che non lo sai, andremmo a cercarlo su Google e poi diremmo tra tutti questi noi. E io scoppierei a ridere e tu anche e mi diresti andiamo alle terme e ti direi basta un asciugamano bianco e mi chiederesti se ce la stiamo facendo ad assomigliare a tutti gli altri. Allora ti porterei in Rinascente e così, davanti all’ennesimo specchio, ti direi: eccoci qui. E tu non ti nasconderesti più ma proveresti le tue mille espressioni. Me lo rubi un vestito? Al massimo te lo regalo, ti direi io. E giocheremmo come fanno le coppie a cambiarci d’abito e sfilare fuori dai camerini aspettando un giudizio e uno sguardo. Facciamo come in quel film e corriamo fuori e facciamo suonare gli allarmi di tutta la città? Io me lo immagino ma poi non ho il coraggio. Tu non ci pensi e lo fai, io ti rincorro e prima di raggiungerti pago. Così litighiamo e mi chiedi perché lo hai fatto? Per il “quieto vivere” rispondo io. E tu t’incazzi. Sei così bella arrabbiata. Siamo come tutti gli altri, siamo come tutti gli altri, siamo come tutti gli altri. Solo che tu hai un numero imprecisato di lentiggini, quante altre come te? Solo che ho un numero imprecisato di parole che combino a caso e per fortuna tu ci capisci qualcosa e non hai paura e ti avvicini. O hai paura e ti allontani? E ora dove sei? Non lo so più.

Foto: © Tomas Deszo

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