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Chiamami selvaggio

Quando le parole non vengono a soccorrerti al risveglio e ti lasciano al vuoto, tu che tendi al disfacimento e sfuggi ai tuoi contorni, quando lo spazio del tuo corpo sembra non bastarti perché sei sempre altro e altrove. Quando non godi dei baci, non ti lasci avvolgere dall’abbraccio testa infilata nell’incavo del collo, profumo annusato, cuore a battere, mai presente, nei tuoi luoghi lontani, disperso. Hai fatto tutto bianco intorno a te perché il colore accompagna sensi e ricordi, il chiarore delle luci tutte muove lo sguardo finché si perde e tu sei e non sei. Il tuo respiro, dici, non conosce ritmi regolari, è tutto un rincorrere e poi fermarsi, ansimare, tornare a correre. E ancora sei e non sei. Immagina ora il tuo letto grande, immagina ora un gattino, immaginalo cercarti, immaginalo zampettarti accanto e a te strusciarsi guidato soltanto dal suo istinto così che il calore cerca il calore. Immaginalo ora e poi dimmi quando ti stancherà, quando dirai così è troppo, non ce la faccio, andrà avanti così per sempre. Immagina ora una volpe venire a farti visita la notte, bussare alla porta, annusare i resti del cibo nella tua pattumiera, cercare nel buio i tuoi occhi e farli incontrare col verde dei suoi, di meraviglia tu rimarresti immobile, di spavento lei fuggirebbe. E così la notte dopo e quella ancora. Non avresti ansie, soltanto dubbi e attese. E confonderesti con piacere desiderio e curiosità. Tornerà domani? Sarà la stessa volpe? Incrocerà ancora i miei occhi? Tra il domestico e il selvatico qualcun altro ha scelto per te. Sei nato col pelo sul petto, con le mani facili a rovinarsi, coi piedi saldi e il passo sicuro. Chiamami selvaggio quando nego il pudore, chiamami selvaggio quando sono soltanto invadenze, quando non so cosa sia il riposo dei sensi, quando dovrei essere corpo e invece sono pensiero, quando non ho casa, non ho città, quando la strada è troppo fredda per essere abitata e mi rifugio nella caverna del cuore e cerco te, te, sempre te. Perché tu sola esisti, perché tu sola sei. Donna. Per l’aggettivo del possesso non c’è mai posto in questa vita breve. Perché se io sono l’altrove, tu sei l’oltre, e nello spazio che non ha tempo siamo, e io l’amore me lo spiego soltanto così.

Foto: © Théo Gosselin

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Verrà poi Draxler alla Juve?

Sarà il calciomercato, l’avvicinarsi di settembre, dormire con le finestre chiuse, respirare sempre la stessa aria da troppi giorni. Un treno, rotaie lunghissime, aria condizionata e poi prati verdi, bicchieri di vino e case bianche. Questo ci vuole, cambiare aria al pesce, spostare latitudini. Mi hai scritto proprio ora lo stress è come un bicchiere d’acqua, se lo prendi in mano è leggero, se lo reggi per un’ora è insopportabile. Mollare bisogna, non preoccuparsi dei vetri e del rumore al contatto col suolo, sedersi dove capita, ferirsi coi ricordi e lasciare che il sangue sgorghi un poco, poi il tempo, le piastrine e tutto il resto, il taglio si rimargina e il dolore che porta diventa un ricordo. Certo che l’ansia di non sapere se Draxler verrà finalmente a regalare poesia all’attacco bianconero per me rimane un peso. Verrà il trentuno del mese e avremo chiuso con tutte le dicerie e i discorsi fuorvianti e sarà tempo di fare i conti con quel che c’è, decidere il modulo, dare fiducia al capitano e sudare e sudare negli allenamenti per fiorire in partita e vincere, vincere, vincere non trascurando il bel gioco. È il quinto caffè che mi annerisce lo stomaco, è il terzo sonno dalle tre del mattino, dovresti smetterla, colora di bianco i tuoi denti, dici così, a me, intollerante ai latticini e ai consigli. E mentre tutti tornano noi partiamo, e mentre tutti dormono noi dormiamo. Smettila di cercare l’orizzonte, dici ancora, e io che gli orizzonti li ho sempre inseguiti ora che faccio? Basterà un balcone? Un letto? Una finestra? È inevitabile. Guarda i miei occhi ora nuovi, ne ho consumati un paio o forse più, guardaci dentro e dimmi che vedi. Io ancora niente, sono in rodaggio. Comincio con te, rimani qui, proprio davanti, e prima metto a fuoco e poi mi guardo intorno, così che tutto, questa volta, lo sai, parte da te, che sei mio occhio, mia destra, mio inaspettato orizzonte.

Foto: © Giulia Bersani

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Scrivile che l’ami

Come fai a leggere Fiesta tu a torso nudo sulla spiaggia di Cesenatico e non farti attrarre dalle cadenze, dallo zio bo e le discussioni sulle elezioni regionali e così distrarti a fissare un culo qualsiasi, chiudere il libro e dimenticare cosa sono i giorni, la fatica e la malinconia che pure l’oroscopo ti riconosce? Come fai a credere mare la piccola onda grigia che gioca col tuo piede, poi si ritira. Il bagnino la piadina e cercare un bar per un cocktail decente e ritrovarsi snob e poi presuntuosi e dimenticarlo in fretta per scoppiare a ridere nelle sale giochi e a cavallo di una moto finta domandarsi il perché non siamo nati anche noi al mare per trasformare ogni ritorno in vacanza. Dici dell’esercitarsi al bello, a questo serve leggere, a questo farsi domande, a questo ancora le mostre dalla scuola dell’infanzia, la curiosità, il dir di grazia della poesia e sciocchezze in serie, non scandalizzarsi della volgarità, impadronirsi del senso, sciogliere il comico nell’ironia. E poi? Tu che indossi scarpe invernali d’estate e dell’acqua hai timore, tu e il nero dei tuoi occhiali da sole, le tue amicizie pelle su pelle, mano nella mano, tu che aspetti casa per il respiro e nel mentre non dai tregua alla voce e muovi le mani e sei sciocco e fai amicizia coi ristoratori e sei triste o felice a seconda della qualità del cibo. Tu, mi chiedo io, potresti essere diverso? Nell’inevitabile tuo esistere rendi difficile ogni incontro, il tuo alfabeto inciampa nel quotidiano, la tua estetica risente delle tue sofferenze d’adolescente. Chi sei tu ora? E poi perché tutte queste domande. Prendi quel treno e vai dove lei ti aspetta, se ti aspetta. Prendi quell’aereo e vai dove il tuo passato non esiste e così l’aspettativa non c’è e tu sei nuovo. Impara a dimenticare, ricorda il necessario. Stringi quei fianchi ogni volta che puoi, guarda quelle labbra e poi fai un tentativo di disegnarle. Scrivi cose lunghissime e incomprensibili, un giorno, vedrai, anche quelle mancheranno. E cresci per esser semplice, cura la barba, mangia quando è necessario o quando ti fa godere. Poi ridi di te, fallo più spesso e scrivile che l’ami anche se non capisce.

Foto: © Bernard Descamps

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Non hai mai visto una gallina volare

Esistono mari rosa e vecchi che lanciano sassi dietro le spalle per la remissione dei peccati, la confusione del fondo del mare e la brezza leggera delle prime ore del giorno.

Coi piedi che affondano nelle sabbie mobili della precarietà compiliamo fogli a4 con gli obiettivi delle nostre giornate e la data di scadenza delle stelle d’agosto.

E mentre mi citi la filosofia francese io appoggio la testa sul palmo della mano e lascio a maggese tutte le mie voglie.

Tra le doppie punte dei tuoi capelli ho appeso tutte le mie speranze, taglierai il superfluo prima o poi e mi guarderai come si guardano i neonati, quel che prima non c’era ora c’è. E impiegherai giorni per realizzare che esisto oltre alle parole e a queste ecografie che ci facciamo sul web.

La periferia milanese risuona in campane e le galline la notte cercano riparo volando sui primi rami degli alberi. Non hai mai visto una gallina volare, lo so. Così ti prendo per mano, la notte, e ti porto a guardare il bianco di piume come le palline colorate che decorano gli abeti del Natale. E ti stupisci, mi dici esiste un mondo segreto inaccessibile ai più. Ti rispondo che noia questa storia degli altri e delle nostre vite singolari, i quattro giorni sulla terra dei nostri sistemi solari privati e il rischio di ruotare intorno a noi stessi.

Ci pensi mai che non c’è niente di più abitato come una casa, la notte, quando tutta una famiglia dorme? Questa è magia, mi dici tu. E poi mi parli dell’Europa dell’est e delle contraddizioni delle prigionie politiche e mi chiedo se un abito giallo servirà a ripararci lo sguardo. Ho voglia di una pizza e tengo sul comodino La città e la metropoli e mi sono scritto sul polso: diffida un poco di chi non si fida delle autobiografie.

Chickens sit in a cherry tree at a farm in Ibach

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Estivi ritorni

Così storpio un motivo degli anni ottanta e fischietto donando le guance al sole di luglio. Con la disinvoltura dei vecchi lancio occhiate invadenti ai lavori in corso, ai colori accesi delle gonne lunghe e a questo vento leggero che nulla può contro i mozziconi di sigaretta aggrappati all’asfalto.

Le giacche dei professionisti appese alle sedie per le nostre pause pranzo a base di calciomercato. Prendo le vacanze in settembre, d’altronde.

Mentre sulle terrazze si consumano i rituali moderni degli aperitivi noi cerchiamo una scusa per non sfiorarci.

Vorrei evitare di pensare al futuro e mettere radici nel presente. In questi incontri da segni sul collo e catene sulla schiena.

Dei balconi di Lisbona e degli amici in partenza per la Liguria. La tua automobile porta tutto e i film degli anni novanta. Coi western ripieni di pasta alle vongole e i vini aperti lasciati appassire sulla tavola.

Mentre non ci raccontiamo nulla, prendiamo il sole e commentiamo le notizie del quotidiano locale. Lanciamo palloni contro i treni che filano veloci accanto alla collina e gonfiamo il petto per sfidare le onde più grosse e per qualche istante sentirci invincibili e giovani, e tutti insieme per questa grande occasione.

Finiremo per disperderci nell’agosto torrido della penisola, ci scriveremo i nostri come stai su whatsapp, poi la grigliata di ferragosto e i nostri ritorni con tutte le foto caricate sull’Ipad.

Così aspetteremo il matrimonio degli amici, arriverà in fretta settembre e ci ritroveremo più grandi senza accorgercene.

Sulle mie tempie i primi capelli bianchi e la castità dei ventri gonfi delle nostre compagne.

E ti ricordi quando parlavamo di una grande cascina, tutti insieme e vivere dei nostri lavori, una comunità dell’amicizia, l’utopia irraggiungibile della convivenza.

E così ora immagino la notte e quella casa così grande, il balcone sul mare e il piccione viaggiatore del vicino. Bottiglie e bottiglie vuote ad aspettare mattino per suonare nelle campane della raccolta differenziata. Materassi stesi per terra e divani aperti. E puzzo di vita, per quel tempo che scorre così in fretta e che aspettiamo un anno per poter ricordare.

Foto:tutti-al-mare

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Che siamo fragili, siamo piccolissimi

Che siamo fragili, siamo piccolissimi, ce l’hanno detto in molti modi e poi ci hanno convinto e dai televisori fioriscono ancora le mode nuove. I capelli si fanno racconti per le nostre sere d’autunno. Con la pioggia che concede tregua alle dita per le ansie che si appoggiano al tetto e rimangono là in attesa del vento e delle sveglie degli smartphone. Scoperchieremo prima o poi le nostre orecchie e faremo entrare tutti i passati che non ha senso rimpiangere. E quando li avremo dentro allora prenderanno l’odore del senso, delle nostre cene notturne a pensare a quei domani che non sappiamo nominare, dominare. Macinano treni i chilometri dei nostri ideali messi nelle borracce a prendere fresco, resistere alla calura d’agosto per riemergere come le balene al largo dei mari coi nomi impronunciabili. Mi sono caricato addosso il respiro artificiale della tastiera. La tua chioma gentile, il fascino delle dita appoggiate sul viso. Quando tutti i lampioni si fermano a guardarti e lasciano perdere la strada per illuminare il tuo vestito lungo. I punti di domanda per quella cosa che chiamiamo distanza e le tue perplessità sulle conoscenze artificiali. Sono entrato nella stanza in punta di piedi, il nudo dei miei versi e i nostri piatti preferiti. Ci cade addosso la pioggia di settembre mentre ricamiamo parole con la velocità delle tartarughe. E per la nostra amicizia aspetti la fiducia, e mi chiedi di sorprenderti che non basta il nome di un blog. Che sono qui, la finestra aperta e questo tetto che ospita la cenere delle sigarette passate. E vorrei parlarti la notte, ora che la curiosità ci batte le spalle e non riusciamo a non voltarci. Le bolle di sapone per questi pensieri che scoppiano prima di arrivare al soffitto e le preoccupazioni dell’ultima ora. Coi difetti di queste menti infeconde, leggerci i titoli di testa dei quotidiani e correre sotto la doccia per allontanare i paragoni malsani dei critici. Sei mesi nell’ade e sei mesi in erba, come Proserpina e le nuove concessioni governative con Cerere che fa fiorire la terra per gioia e la fa piangere nella mancanza. E questo è tutto, le previsioni meteo verranno prima dei nostri sguardi, lo sai, e imparerò la pazienza e riuscirò ancora sorprenderti, magari nuda, magari timida, magari tu.

Foto: Henri Cartier Bresson

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Le parole più lunghe di due sillabe servono a poco

Non mi piacciono gli spiedini. Il caldo avveniristico delle città grandi e le vie deserte per il rilascio dei nostri pensieri più belli. Ho immaginato un colore diverso per queste tonalità sporche del bianco. E come a Valparaiso e il Chile del nord, quel viaggio zaino in spalle. Le coperte a tatuarci la schiena e tutti quei farò che scrivevamo sul diario. Le corrispondenze col lasciare e le classifiche di gradimento del passato. E quando incontravamo qualcuno cercavamo di sorprenderlo con l’intimità del qui e gli approcci con le frasi stupide, siete italiani? Siete turisti? La strada dove ci porterà e tutti quei chissà che lasciavamo in bocca alla reception. I soldi nascosti nelle mutande e le paure del diverso. Che sciocco dormire con la preoccupazione per il domani quando ancora una volta è la strada a condurci nei luoghi insoliti dei nostri pensieri notturni. Ci pensi mai che non risolverai tutto con la complementarietà? Le parole più lunghe di due sillabe servono a poco. Litighiamo con gli avverbi quando ci interrogano. E quando brindiamo porto il bicchiere a toccare terra per inchinarmi al mondo e alla sobrietà che vado perdendo. Quando tornerai dall’estero e quelle canzoni inconfondibili dei cantautori, ti aspetterò seduto sui pop corn, come si fa al cinema quando ti guardo soltanto per due ore al silenzio. E i tuoi movimenti nel nero, il tuo profumo e la sensibilità della carne che sfiora. E quando provo a imitare il tuo respiro va sempre a finire che mi viene da ridere.

http://www.youtube.com/watch?v=1BM2Cjn-Ld4

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