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Quando divento alta ti sposo

Si sono rotti gli altoparlanti e la stazione è un gemito lungo che costringe le mani a riparare le orecchie. Come tanti conigli sulla banchina aspettiamo la partenza.

Fanno finta di nulla gli adolescenti con le loro caviglie scoperte e le gambe fasciate dai pantaloni della tuta, mulinano le lingue giovani e le fanno incontrare, la mano che stringe il trolley si rilassa. Poi il rumore sempre uguale delle rotaie, la geometria delle coltivazioni dei pioppi e per tracciare i fili dei nostri giorni i tralicci della corrente ci raggiungono ovunque. E fiori bianchi e fiori rosa e arbusti ai lati della ferrovia.

C’è una ragazza, una maglia bianca morbida senza maniche, sfoglia un quaderno, si stufa, si appoggia sul fianco e poi chiude gli occhi. Il ragazzo di fronte a me non teme il sole, indossa occhiali neri, lascia tranquille le tende blu. Io mi guardo intorno, poi mi perdo in pensieri tra le righe di un libro, uno sguardo al cellulare, uno al finestrino, cercare solidarietà nella lingua incomprensibile dei neri dalle labbra grandi mentre una donna sui trenta, capelli nuovi e shatush, tra un figa e un bella stila l’elenco delle sue nuove amicizie.

Chissà tu come siedi quando viaggi sola, se ti addormenti facile oppure lavori, magari alleni lo sguardo e ringrazi il riparo delle province d’Italia. Dove vado io e tu dove vai? Cosa c’è dopo queste rotaie, dopo la strada fuori dalla stazione, oltre il verde, oltre il mare, oltre l’orizzonte, cosa c’è?

Ieri pensavo a Rahel, alla sua pelle d’oro, agli occhi grandi, al suo fratellino col pugno sempre alzato. Eravamo bellissimi, dicevi, quando divento alta ti sposo. Ma eri già grande e io non lo sapevo, avevi le mani forti e i piedi più duri dell’asfalto e ora che il tempo è passato sei nei racconti e morsi di serpente sulle tue braccia, poi quattro figli e un collo resistente per trasportare sulla testa gli otri dell’acqua. Cara Rahel, era così bello, non ti ho mai amata come volevi tu, hai ragione, ti ho voluto bene e non era abbastanza, ma non è stata colpa mia, non si poteva e basta, ero così giovane, ero così sciocco.

Sul muro della stazione una scritta: “Oggi ho battuto la vita, sono morto.” Così mi son fatto silenzio e per un’ora, forse di più, non lo so, non ho pensato a nulla, nulla che ricordi, non ho pensato… ho pensato che, che non mi va di raccontarlo. Poi le borse, le scarpe, la moda, il colore, le riviste, ho preso aria, aria ancora, ho aperto i finestrini, ho guardato fuori, i ragazzi ridevano, i bambini giocavano a rincorrersi, facevano finta di picchiarsi, le madri parlavano tra loro, la vita era fuori, qui dentro che c’è? Dove li stendo i pensieri?

Poi nel vagone risuona una domanda: “Dite davvero che mi vesto da troia?” E’ ancora silenzio, diverso da prima, gli amici che ridono, e il selfie di rito. La ragazza con gli occhiali neri fa la foto alla terra rivoltata, i riflessi del finestrino e i filtri di Instagram, saremo bellissimi quando guarderanno i nostri album di fotografie. Cosa diranno i tuoi occhi senza il riparo del trucco? Il tuo culo senza i pantaloni sarà ancora lo stesso?

Vai tra, ti dico io, non sei credibile quando porti al polso i braccialetti dei villaggi turistici. Mi controlli più tu degli impiegati, solo a Bologna e a Milano ti fermano, nel mezzo non fare il biglietto, dai non pagare, non serve a niente. E poi quei discorsi: le osterie non son più come un tempo, suoni la chitarra tu? Diventiamo ridicoli, come quell’altro che si domanda se esistono ancora i quartini di vino sfuso o la mezza nelle caraffe di vetro, sarebbe un’indecenza, dice, un insulto al gusto, dice, poi pubblica pagine sulla provincia, ma che ne sai dei miei giorni, delle mie indecisioni? Che c’è di male nell’indecenza? Cosa dovrei dirti ora che frequentiamo lo stesso giardino, gli stessi salotti? Sorriderò come tutti gli altri, complice anch’io di questa falsità che tutto vela, che ci rende ciechi e sordi e muti, coi denti bianchi e le labbra sempre più rosse. Il sangue blu.

Scendo dal treno in fretta, poi ti dimentico. Non ti dimentico.

Foto: dalla rete.

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Accompagnami alla sera

Dolce amore delle quattro di notte, nel sogno di una tavola apparecchiata, i tuoi amici tutt’intorno ed io nudo, coi punti interrogativi in gola trascinato sulla riva del mattino scuro.

Il fumo denso, le mie gengive rosse e i carrelli della spesa spinti dai bambini. Ogni voce un taglio, è fastidio d’intorno.

Ti ho incontrato con la valigia a tracolla, aspettavi un kebab fuori dalla vetrina: il pavimento bagnato, i miei calzoni bagnati, il tuo cappuccio bagnato. Mi chiedevi come stai e che fai, ma era troppo tardi, troppo tardi per non aspettarti, troppo tardi anche per risponderti. Qui le parole ci appesantiscono come la pioggia fa con i capelli, così accenno due passi di danza sul marciapiede, tu ti stupisci, dici hai fatto festa stanotte? Se per festa intendi semafori e piazze e litanie fuori dai locali, luci basse, banconi bassi, cameriere basse e sigari fumati in serie e disperata domanda di senso, sì, allora è festa quella che ho trascinato dietro di me in questa notte.

Così che il letto si è fatto caverna e non tana; non ci sono ombre da proiettare sul soffitto e la realtà si manifesta com’è: una spremuta e un caffè e acidità di stomaco e medicine bianche, mani bianche e polvere negli angoli.

Dolce amore sulla via, dolce amore sulle auto in sosta, sotto ai ponti del naviglio Pavese, le adolescenze a esplodere nelle campagne e la provincia che dorme sui cuscini striati di mascara.

E fuori manicomi abbandonati e case vuote, uffici vuoti, fabbriche vuote, tasche vuote e poi le parole, vuoti che servono soltanto per prolungare i nostri desideri di conquista e si conquista lo spazio, lo sai, soltanto lo spazio. L’occupazione del suolo privato è domanda, risveglio dell’altro attraverso attenzioni non richieste.

Lasciami alla pace, alle bandiere colorate e alle allegre maggiorenni.

Se gli autovelox misurassero la nostra impulsività sarei sempre colpevole, e così mi fermo un’altra volta, una ancora, non ho documenti, soltanto testimonianze, qui tutto passa, esplodono le stelle anche ora, anche qui, le nascite, le morti, anche ora, anche qui. E i tuoi capelli, i tuoi capelli che profumo hanno, e le tue mani, sì, le tue mani, muovile ancora piano, come sai fare tu e indicami una strada, una o più e poi accompagnami fino alla sera.

Foto: Philip-Lorca diCorcia

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Regarde le ciel, regarde ma bite

In metropolitana a inciampare tra i rossetti rossi, le fronti sudate dei taxisti e i tram incastrati nei binari. Gli occhi consumati per attirare l’attenzione e tutte quelle energie disperse. Mi domandavo sempre la stessa cosa: quanti tuoi vestiti ho dimenticato e quanto costa la pazienza è quell’infinito tatuato dietro al collo delle adolescenti.

Sui lati dell’autostrada le cinture di sicurezza come lacci emostatici, la voglia di vivere da iniettarsi in vena e i rosari sgranati degli anni ottanta.

Le tue guerre col microfono in mano e le aule zuppe dell’Università Statale di Milano; gambe incrociate su pavimenti freddi a raccogliere l’alito pesante dei professori che fanno i pendolari. Mentre a Palermo si fa il bagno e fioriscono i cactus, le nostre colazioni ad occhi chiusi e mani tese per raccogliere gli avanzi della notte, quando tutto si immagina e la verità russa piano.

Siamo invecchiati in fretta mi dici e appoggi le dita sui tasti della chitarra. Ti faccio domande assurde sul senso del nostro stare chiusi in casa e fare sempre tardi, tardi, tardi. Rispetto a cosa poi? Non mi rispondi.

Dovremmo impiegare il tempo dedicandoci al piacere, ma quale poi, dedicandoci a piacere, mi verrebbe da dire, delegando agli I LIKE le nostre coscienze.

Vorrei tagliarti i capelli e aspettare con te che ricrescano, la primavera delle nostre teste, consumare le mani a furia di carezze. E invece tra le tue labbra chissà, tra le tue labbra come si sta. E invece tra le tue cosce chissà, tra le tue cosce come si sta.

Così sulle punte dei piedi guardavamo dalle finestre per scoprire i segreti dei grandi, non ci sono torte a raffreddare sui balconi, non ci sono nemmeno balconi e panni stesi ad asciugare.

Qui tutto si fa grigio, quando togli il casco cerchi un rubinetto per lavarti il volto. E’ solo un momento, dicono i più, tutti sono in attesa che qualcosa succeda, perché qualcosa prima o poi succederà, e laveremo via il nero dei nostri lavori con le riforme dei cuori e finalmente potremo infilare le mani in tasca e distribuire caramelle per cariare i denti soltanto ai bambini dell’Africa, per rifarci l’anima coi sorrisi degli altri, perché il nostro, oh, il nostro è ancora sepolto. Sotto le colpe che non ci siamo mai perdonati, tra i calcinacci delle nostre infelicità immotivate.

Non c’è il sole oggi a Milano, ma sopra le nuvole è sempre sereno, sempre. Vuoi dirmelo ora che fare, continueremo a prendere aerei per accorgercene o ci basterà alzare lo sguardo, così regarde le ciel non sarà un’altra stupida frase scritta con lo spray sull’asfalto, non alzeremo le spalle, ma solleveremo le sciarpe, qualcuno il pugno, altri una mano, e cominceremo a salutarci, oggi e pure domani, dopodomani chissà.

Foto: dalla rete.

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Oooh e suoni di campanelle

Gli occhi divisi tra i tuoi mappamondi e il meridiano nero, pensieri affondati. Il mio strabismo di Venere, il neo sulla guancia sinistra e la leggerezza dei tuoi capelli. Lecca lecca tra i nostri respiri e bottoni da far saltare a ogni contatto.

Ti stringevi al muro per non prendere freddo, la curva dorata della tua schiena, gli scivoli delle tue cosce e tutto il calore del sole che nascondi dietro le spalle. Aspettavo i tramonti, i tuoi risvegli urlati e le mie mani a coprirti le labbra.

Ci guardavamo come fanno gli alieni con le pupille disordinate tra le lenzuola e la ricerca di un’armonia nell’ansimare. Poi ti scrivevo haiku sulla schiena, ti rilassavi al contatto del pennello e nero di china tra le tue scapole, il tuo ombelico come un bersaglio, gli schizzi a mano libera, poi disegni accennati in punta di lingua e le parole che ci rimangono tra i denti.

Sarà che il sacro risale alle nostre viscere, non vedo il male nelle vicinanze, nei desideri che non esprimiamo per non vergognarci. Vuoi dirmelo cosa sarebbero le rivoluzioni senza il narcisismo? L’hai guardato a lungo il ritratto del Che? Trovare bellezza nei colori del viso e nell’armonia del contatto, perdere il controllo dei battiti, la salivazione aumenta, puoi parlarmi ora delle tue sopracciglia, del rosso delle tue labbra e del sudore che mi riga il volto.

Ci si morde per sentirsi vivi, dicevi, e stringevi le gambe per far correre il cavallo, la criniera al vento e gli zoccoli duri, quante autostrade e quante montagne, quanti cieli immaginati sopra le nostre teste e scritte bianche a ricordarci di alzare gli occhi.

Poi tra i vagoni dei treni ci siamo distratti in sonno, le dita dimenticate sul muro e magliette disperse.

Dovremmo fare colazione ora, non rimandare i domani cercando il calore delle brioche. Fuori è tutto un brusio di lavatrici, un bisbigliare di porte chiuse e vetri appannati. Aspettiamo la neve per raffreddare i nostri desideri appesi agli alberi del Natale, il latte caldo fuori dalla finestra. Arriveranno le renne, arriveranno e non avremo più paura di rivelarci. Così deboli, storpi, soli, affannati, capaci di stupirci in danze proibite agli occhi degli altri. Ooooh e suoni di campanelle. Ooooh e suoni di campanelle.

Foto: Francesca Woodman.

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Scivoli

Invece di stare qui a chiederci in quale giorno della settimana appariamo più belli, saltare la cena del venerdì per essere pronti alle luci al neon e ai caratteri mutevoli del Plastic, tu mi hai costretto ad appoggiare le borse della spesa sul tavolo, a prendere l’ascensore e schiacciare il numero più alto: prossimi al tetto, prossimi al cielo.

Tra le antenne storte e i nidi delle cornacchie allungavi le dita sulla mia schiena per disegnarmi chissà quali costellazioni. Siamo costretti a immaginarci le galassie, dicevi, c’è troppa luce e le stelle sono come le talpe, scavano tane e si negano allo sguardo.

Le mie parole al miele e le tue espressioni di disgusto. Qualcuno suona una chitarra e ci sono treni che viaggiano di notte senza passeggeri. Chissà dove vanno mi dici tu. Chissà poi se è importante, ti dico io.

Mentre fotografavi i primi pianti del giorno ti chiedevo dai insegnami, mi dicevi: certe cose si imparano solo se le vuoi imparare, credo che tu non voglia davvero, ti piacerebbe, come a me piacerebbe essere al mare. E avevi ragione e sapevi come convincermi, sai, quando mi parli usi quella voce che hai solo tu, mai giudicante, ma rigorosa, quasi infantile. E se ti dico vorrei avere vent’anni, mi rispondi è tardi, avresti potuto imparare a suonare uno strumento e io avrei potuto amarti sentendoti suonare e parlare di meno, è la parola quella che ti frega, lo sai? E a furia di condizionali siamo arrivati alla pena più grande, quella del voltarci indietro e rimpiangere il passato.

Ci guardavamo negli occhi e i tuoi brillavano, i miei invece no. Che palle la malinconia, dicevi tu. Così ti mordevo le labbra e prendevi a pugni le mie spalle, dicevi: smettila, non è gentile. Le gentilezza è un’invenzione degli uomini. Non è vero, m’incalzavi tu, l’hai mai vista la rugiada posarsi sull’erba? No, dicevo io e cominciavo a parlarti delle mie infanzie, mi interrompevi, dicevi: guarda la mia schiena, come la trovi? Liscia, rispondevo io. Soltanto? Dicevi tu e ti piegavi un poco, mostravi le costole. Bella, continuavo io. Soltanto? Dicevi tu, lasciavi cadere il vestito, riparavi il seno col palmo delle mani, poi lo stingevi e rimanevi in silenzio. Neanch’io parlavo, il vento invece accarezzava le antenne che vibravano un poco emettendo dei sibili. Perché tutto questo, dicevo io? Mi toglievi la maglietta, dicevi presto sarà giorno, fammi ballare. E mi davi le spalle, passavano i treni e i camion per le pulizia delle strade, tu mi mordevi le dita, io ti annusavo le spalle. Se chiudi gli occhi lo senti il mare? Non ci riesco, dicevo io, e mi veniva da ridere. E ti facevi orizzonte e poi scivolo, eravamo onde, poi navi, e porti, e montagne da scalare e legna da ardere, camino acceso, stelle cadenti, fuochi artificiali, e dimenticavamo la morte facendoci eterni.

Foto: Aldo Mondino, Nomade a Milano.

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Ballano, ballano, ballano!

L’ironia critica e le classifiche. Le visualizzazioni, le vite regalate, i record imbattibili e le menzioni d’onore. Frequentare il volto truccato del potere e trasformarsi in polpi, la multi-presa per affrontare il presente e non raschiare mai il fondo.

Il fatto è che a certe cose o ci sei avvezzo o non lo sei per nulla.

Ti proporranno travestimenti tutta la vita, tu hai l’armadio già zuppo, non sai a chi donare il vestito e ti senti bene anche nudo.

Proprio ora sto immaginando i tuoi piedi, è così sciocco perché a me i piedi non sono mai piaciuti. Così realizzo che quando riuscirò a guardarti le unghie senza imbarazzo allora saremo così intimi che, insomma, potremo svegliarci insieme e fare ognuno la colazione all’ora che preferisce e magari andarcene a cena la sera soltanto scrivendoci: io non ho voglia di cucinare e tu? Io nemmeno, dai usciamo. E non ci sarà più nessuna ansia, nessuna attesa.

Proprio ieri sera si diceva che a invitare a cena una donna e poi il drink, la discoteca, beh, si paga di più che andare a troie. Qualcuno diceva è vero, qualcun altro: vuoi mettere il fascino? Vuoi mettere la seduzione? Tu poi mi prendevi in disparte, dicevi: lo sai, io non potrò amare più, cerco soltanto surrogati per rendere sopportabile la mia solitudine, forse dovrei comprarmi un gatto. E io a dirti che il sesso non mi interessa più granché, frasi così solo tu riesci a capirle, perché in fondo non è vero. Ma siamo sentimentali e davanti alle fronti lucide e alle idee del cinismo ci rifugiamo ballando come gli adolescenti e disinteressandoci di quel che succede intorno. Una volta invece avevo occhi dappertutto e controllavo chi avevo di fianco, la donna più bella, e lanciavo occhiate che rimbalzavano su capelli decolorati e orecchini inguardabili. Nell’evoluzione del desiderio le nostre frustrazioni. Il fatto è che confondiamo il traguardo e la corsa. Siamo in vita per vivere, non per arrivare da qualche parte. Cosa significa vivere, cosa arrivare? Mi domandavi tu. Io rispondevo: lo vedi, siamo qui e parliamo delle nostre grandi masturbazioni mentali eppure non ci vergogniamo e non ci stanchiamo e lo sappiamo che sono soltanto discorsi e non porteranno mai a nulla, e ora versami un bicchiere di Falanghina, apriremo poi un Roero Arneis, è freddo e nel frigo, non aspetta altro. Abbiamo trent’anni e diciamo ancora “spacca” e “bella lì”, la bella gente ci guarda male, non sarete un po’ troppo cresciuti? E ci accorgiamo che parliamo di pompini e scopate con una naturalezza sconosciuta, qualcuno ci morde la lingua, dice: certe cose si fanno e non se ne parla. Noi invece ne parliamo così tanto che finiamo per trascorrere notti in dolcezze a immaginarci mondi paralleli dove la gente si parla e si ama per davvero, dove non esiste l’interesse e ascoltare è più semplice del raccontare se stessi e un pompino conta tanto quanto una carezza, un sorriso.

Ho nascosto l’io sotto al giubbotto, ho deciso di guardare negli occhi e far tanto silenzio, prendermi il tempo del sorso del vino, di quando guardi il fumo sparpagliarsi nell’aria dopo aver fumato.

Oggi, solo per oggi, non ho alcun interesse che qualcuno mi legga. Nessuno. Presuntuoso come pochi, dirà qualcuno. Egocentrico, narciso, egoista. Può darsi. Leggevo di Bertolucci e quelle assurde polemiche sul sesso anale di mr. Brando all’insaputa di Maria Schneider e via e via, qualcuno diceva che chi scrive o suona o canta e cose così va a finire che a volte dimentica le consuetudini cordiali e sfrutta cose e persone per quella necessità che lo muove. Io non lo so se è poi così vero, tengo davanti il rispetto e la buona creanza, ma è vero che capita di debordare: augurare buone notti a chi ha già chi gliele augura, salutare con invadenza gli sconosciuti, porre domande che possono essere mal interpretate.

Immaginiamo mondi dove tutto è permesso, poi nella presenza dell’a tu per tu siamo semplici e sorridenti, poco furbi e sprovveduti. Creduloni e sciocchi, facilmente affascinabili. Così ogni tanto, più per paura che per desiderio, abbassiamo lo sguardo e ci fissiamo le scarpe. Incapaci di muoverci e con la paura di essere giudicati tatuata sulla fronte. Troppo magri, troppo grassi. Vorremmo essere sempre altrove e non sappiamo goderci il momento, così trascorriamo in noia le nostre notti e se appariamo folli, ribelli o invadenti è perché non sopportiamo l’immobilità. Chiamala tu superficialità, colpiscimi in mezzo agli occhi e ripetimelo più volte: se sei questa continua confusione è perché vuoi vivere più vite e fingere di non esistere per davvero. Hai così paura della morte che ti crei più esistenze nella speranza dell’immortalità.

Perché ancora vivi col desiderio di lasciare qualcosa alla posterità? Perché non abiti il presente con passo sicuro? Una volta qualcuno mi ha detto: volevo fare tante cose, poi ho fatto due figli e a loro leggo una fiaba ogni sera e insegno il saluto e l’incontro, credo sia molto. Così di fronte a quella montagna ho aperto la bocca nel gesto dell’estasi. Famosi o non famosi, non c’è tempo per arrivare a tutti. E poi ci pensi ai volti di plastica degli attori di Hollywood, di quella volta che ho scritto “A Miché”, l’amico mio negro che si voleva far prete per non entrare nell’esercito e mi faceva vedere le foto della sua ragazza che aveva due figli,  Miché che con l’inganno e in elemosina sorridente si è fatto regalare una macchina fotografica ed è diventato il più ricco del villaggio facendo foto e vendendole, poi ha preso una barca, è venuto in Europa, mi ha scritto dalla Germania: mandami dei soldi. Gli ho risposto col cazzo, nulla ti è dovuto, amico mio. E mi sono sentito male per mesi, ora quando c’è qualche notizia di quelle tristi sull’emigrazione io penso a lui. Penso alle storie originali e provo a togliere il velo del pietismo come si fa col grasso quando il brodo raffredda. Siamo sospesi tra il buonismo e il cinismo. Tutti questi ismi che ci riempiono la testa. Che ce ne facciamo del pensiero strutturato? Mi dici tu.

Quando vai a teatro e c’è lo spettacolo di DelBono, quello nuovo, si chiama Orchidee e ci recitano un ragazzo down, un ex tossico mendicante e un signore di 77 anni che ha vissuto più di metà della sua esistenza in manicomio, e poi uomini e donne imperfette eppure così veri che tu dici il mondo è insopportabile, ma se troviamo un modo, uno stile per starci può aprirci a speranza. C’è un girotondo di nudità che fa pensare ai quadri di Renoir, pittore della gioia, per qualcuno. In quel momento ho fatto pace col teatro, mi sono detto tutto sta qui e non era un’idea fricchettona, ma solo il riconoscimento del corpo e il suo utilizzo per non sbranare, per non appagare, ma per stare insieme. Non c’è una drammaturgia tradizionale, non per forza una storia, ma corde vive e confessione sincera: per me l’unica gente possibile sono i pazzi diceva il mio caro Kerouac, ma il pazzo è colui che esce dal paradigma è alogico che poi forse è una patologia, forse sarebbe meglio dire, pur con un neologismo, è antelogico: quel che era prima della parola e trova nella parola riposo soltanto dopo essere uscito dai binari che i più hanno disegnato.

Rendere questo mondo vivibile è possibile soltanto se riconosciamo la nostra umanità e non cerchiamo di adeguarla agli spigoli che ci hanno disegnato intorno. Ci chiameranno esseri semplici, poveri, perversi, disperati, peccatori e impuri. Saremo santi che ballano una musica che gli altri non sentono. E ballano, e ballano, e ancora ballano e per le strade si riconoscono.

Foto: Nicoletta Branco, il mio amico scrittore.

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D’aglio, prezzemolo e boschi

Un soffitto nuovo e un materasso morbido per appoggiare le guance.

Un contratto saltato, le coincidenze vengono per farci abbandonare le strade in discesa. La vita felice non è fatta di possesso e successo, ripetere dieci e più volte fino a farlo diventare un mantra: sesso, sesso, sesso. Facciamo suonare le sibilanti e poi ancora.

Il fatto è che sopravvalutiamo la nostra animalità e finiamo per ricercarla senza desiderarla davvero. Così che la meccanica dell’unione delle nostre nudità non ci lascia che ferite. E sospiriamo cercando di trovare lo stesso ritmo del respiro. Basta uno sguardo, mi dici tu, e per quello sguardo impieghiamo eternità, sarebbe sufficiente un secondo, magari due, ma abbiamo le tasche dei jeans zuppi di paura.

Ti scrivevo che non è la prima volta che sento il tuo nome, che quando avevo tredici anni lei ne aveva diciassette, raccoglieva il sole sul balcone e mi prendeva in giro quando mi sbucciavo le ginocchia calciando il pallone.

Finisce sempre così: troppe attenzioni non fanno altro che allontanarci. Ma ormai, lo sai, non sono fatto per le strategie e ancora quando giochiamo a tris metto la x nel centro. Attaccare dai lati è sinonimo di vittoria.

Del tuo sorriso scazonte e della malinconia dei tuoi occhi.

Mentre mi sorprendo della tua determinazione e di quanto a me invece costa il silenzio, gli amici scendono le scale degli aerei e fanno loro lo spazio di una nuova casa, che cosa cucini stasera? Bisogna che tutto s’impregni di noi.

Finirei ora sdraiato sul letto con la penna in mano, a scriverti una lettera che non saprei dove spedirti. E immaginerei domani e renderei i sogni sensibili. Quand’ero piccolo mi perdevo nei prati e mi emozionavo nel cercare i funghi. Di quella domenica pomeriggio che aveva piovuto tanto, ho indossato gli stivali gialli di gomma e poi con nonno a cercare le lumache. Sacchetti pieni, lo sai? Il viscidume sulle mani non aveva niente a che fare con la mia adolescenza, poi tutte in vasca a morire affogate. La farcitura e poi il forno. Odore d’aglio e prezzemolo, delle strade lunghe di rue Turbigo. Se tornassi bambino ti prenderei per mano e non avremmo spigoli, lo sai, forse davanti ai muri rimbalzeremmo, non come ora, che ci facciamo male.

Foto: dalla rete.

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Lo sai com’è difficile essere nessuno

Il fatto è che la nostra rivoluzione non è un da farsi perché è di ieri, perché è di oggi e sarà anche domani.

Così alle tre del mattino il tuo fegato chiede il conto della notte trascorsa. E quando non troviamo discorsi a cui aggrapparci per portare alla luce le nostre profondità affondiamo la cannuccia nel Negroni e il Vodka-lemon ci permette di sopportare la musica e quel dj che si muove troppo e quella barba così folta che alla fine ti sta male.

Tra i leggings e i push up corriamo il rischio di slogarci il collo e per le scarpe puntiamo l’immaginazione alla moda parigina che qui a Milano vanno di brutto i negozi cinesi.

L’enoteca di Paolo Sarpi è strafatta di professionisti e son pure simpatici, fa tutto parte del dopo lavoro. Ti rendi conto che a Milano si è smesso di chiedere: “e tu che lavoro fai?” e si punta il tutto sulle passioni: La bici a scatto fisso e poi la musica, di che elettronica stiamo parlando? Mi piacerebbe anche a me un nuovo tatoo. E che ne dici se ci apriamo un tumblr assieme, magari ci tiriamo fuori qualcosa di buono. Ho in mente una start up e lui fa il giornalista potrebbe presentarti qualcuno, lo sai com’è difficile essere nessuno.

Così c’è chi nasconde il cognome e tira di bianco per distruggere l’immaginario democristiano della famiglia dei piani alti. Si dice così che a piano terra costa tutto di meno, lo sai, colpa del traffico, le polveri sottili e la mancanza di tregua allo sguardo.

Ora puoi guardare quel non so che di contemporaneo che hanno costruito là a Garibaldi al posto del Bosco di Gioia dove ci riempivamo di spliff mentre le madri lasciavano i piccoli arrampicarsi su scivoli blu e solleticare il cielo sulle altalene, i cani pisciavano allegramente e le farfalla s’erano estinte.

Ora invecchiamo sui tavoli di lavoro e lasciamo cadere i capelli sul pavimento: il segnale del nostro passaggio e la rigenerazione del cuoio capelluto.

E il parlamento invece è così distante dai nostri oggi che lo trattiamo come il gossip e ci infervoriamo durante le crisi, per tutto il resto alziamo le mani e appoggiamo il gomito sul generalismo.

Signor Presidente della Repubblica lei è invecchiato, si fa mal consigliare.

E ancora su Facebook mi spertico in come stai che spesso suonano come invadenze. Che la proprietà privata non è soltanto spazio, ma rapporto e conoscenza. Noi siamo noi, voi siete voi. Il resto è virus che interroga e avvelena.

Così alle mie domande fai a meno di rispondere, resti nel tuo, che dentro al recinto siamo al sicuro. Invece sulla strada si perdono treni, si inseguono aerei e si diventa così retorici che si finisce per non dire nulla e in questo niente, invece, ci sono io e ci sei anche tu, perché la ricerca spesso è così vuota che ha bisogno di un contatto anche superficiale. Chiamala se vuoi solitudine, questa per me è cultura, questa per me è maturità. E poi mettici tanta debolezza.

Foto: dalla rete.

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Ai pigri progetti della domenica

Ci stordivano i passeri che si dilungavano in discorsi cosmicomici tra i rami degli alberi. La radio e le canzoni in inglese. Quando non capisco mi innervosisco, lo sai.

Tutto intorno, protetti dai muri e dalle veneziane, bicchieri mezzi pieni su tavole ancora apparecchiate e uomini in slip che abbracciano cuscini e donne appoggiate sul fianco. Il suono delle campane della provincia.

Quando ti svegli non ti domandi mai la forma dei tuoi capezzoli. Lo sai che il silicone chiede del tempo per tornare al suo posto? Assomigli a un quadro cubista, ma mi piaci lo stesso.

Alle frustrazioni di chi non bacia perché non si è lavato i denti e a chi non fa l’amore perché al mattino vuole silenzio. A chi ha dormito pancia contro schiena e al bisogno di spazio di quando apri gli occhi. AI mille caffè sui fuochi artificiali e ai pigri progetti della domenica.

Il sudore dei corridori intasa i tombini.

I treni partono in orario e chissà quanti aerei abitano il cielo. L’atterraggio in un altro continente è spesso un qualcosa da ricordare, come tutte le bistecche alla fiorentina che hai assaggiato nella tua vita, quelle che hai comprato dal macellaio e hai cotto nel burro, quelle che hai lasciato in equilibrio sull’osso, l’olio buono e il taglio per valorizzare il rosso.

Gli amici che vanno a trovare amici in Inghilterra. Le foto di Instagram che mi dicono dove sei anche quando non ti fai sentire. La barba incolta di Pippo Civati e le lezioni di stile della mano destra. I discorsi escatologici di Renzi e l’estetica di Roberto Baggio. Lo sai a sinistra bisogna tradurre la parola “leader”, così anche Del Piero è emigrato in Australia.

I ritorni per nostalgia e i contorni che siamo costretti a rispettare. Quando eravamo bambini ci davano sagome da colorare e nulla ci importava dell’ordine precostituito. E giocavamo a sparare con rivoltelle di plastica e per la rivoluzione indossavamo magliette e stracci bianchi sugli zaini per dire no a tutte le guerre. Poi ci trovavamo a sera e per perdere il controllo, ribaltavamo il bicchiere e i nostri fegati nuovi non danneggiavano i risvegli. Le stesse campane, le vie non cambiano i nomi e nuove rotonde intercettano il traffico del centro. Mi disegno sul polso una x, dico guardala spesso, pensaci almeno una volta che se rimani tu le sconfitte non fanno altro che rendere necessarie le risalite, cinque anni fa il Napoli era neopromosso in serie B.

Foto: dalla rete.

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Cascate tra le vostre gambe

Provocavamo con l’estetica e suggerivamo ai passanti luoghi appartati per guardare l’orizzonte. E ci sorprendevamo a scoprire che l’immagine interroga più della parola. Così finivamo a riflettere sulla mediocrità dei nostri quotidiani che distraggono lo sguardo e costringono all’occhiale.

Dalla finestra di fronte la telecronaca di Genoa-Napoli e il vantaggio partenopeo. Dietro le porte piastre per i capelli e profumi dolci: i preparativi per questa notte, ci presentiamo alle cene già apparecchiati e non abbiamo pazienza nell’attesa delle pietanze.

Così ci riempiamo la bocca con le ultime del giorno e sonnecchiamo sui ricordi.

Un amico intanto scrive dove voi odiate, noi amiamo e tornano a sorridere le due metà della luna.

Dovresti scrivermi che mi vesto sempre di nero e scurisco il blu per distinguermi dal cielo, che sono tempesta e grandine e danneggio con facilità tutte le mie semine. Chiamiamole sconfitte queste mie incapacità ad adeguarmi alla norma. Chiamiamolo egoismo questo temporale che si gonfia di tuoni e coi fulmini costringe ad alzare lo sguardo. Così invadente che finirò sui libri di storia, un po’ come i romani, solo che loro conquistavano tutto mentre io brucio e faccio scintille nel cielo. Se scriverò ancora di stelle prendetemi il bavero e caricate il destro. Mentre coi cioccolatini alimento la mia bulimia. Non c’è dolcezza in queste parole. Siamo cascate e ci dirigiamo tra le vostre gambe senza pensare. Vi sorprendiamo nel mezzo del buio o alle prime luci dell’alba, voi vi chiedete perché, vi lasciate affascinare dalla piena, poi costruite degli argini. Che a lasciarsi sommergere non si sa che fine poi si fa, e sarete una novella Atlantide o una triste Venezia. Coi turisti e la malinconia delle isole coi contorni che puoi tracciare col dito.

Per diventare necessari abbiamo bisogno di correre il rischio delle mani vuote, di quando serri le palpebre, accompagni le mani sul cuore e pensi: che ne sarà di noi. E a furia di ripeterlo ti viene fuori la zeppola del Muccino giovane, così sorridi e pensi a Santorini. Ti chiedi: verrai con me, prima o poi?

Foto: dalla rete.

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