25 aprile 2020

C’erano i soprannomi: Saetta, Riccio, Sparviero, Ulisse, Tarzan. C’erano le montagne, c’erano le cascine e i cani per le strade e i bambini che li rincorrevano. C’erano boschi in cui nascondersi e alberi e rami su cui arrampicarsi. C’erano le bugie e c’erano i rastrellamenti. I racconti di Primo Levi, Libera Nos a Malo di Meneghello e le poesie scritte sui muri da giovani sconosciuti morti prima di aver sussurrato l’amore al fiore caldo di una ragazza ancora bambina. Nelle nostre insonnie le vite che hanno preceduto la nostra, quelle che la seguiranno. Tutto il male del mondo da cui liberarci. E non serve guardare oltre la soglia delle nostre labbra ma dentro, giù nelle viscere, nei ricordi d’infanzia, nelle mani dei nostri genitori e nei dolori sofferti in adolescenza. Dici che il passato è un pasto grasso della domenica che abbina alla gioia di un momento i malesseri e la sonnolenza del pomeriggio, la notte a rigirarsi sulle lenzuola. C’erano le corti e c’erano i paesi, i matrimoni e i funerali, le lunghe attese prima di vedere l’amato o l’amata la domenica dopo la Messa o alla fonte, tra le pannocchie dei campi coltivati con sudore. Fare la conta di famiglie numerosissime, pane e vino sempre sul tavolo all’arrivo di un ospite. Il senso dell’accogliere, quello della condivisione. Ci sono mille e più telegiornali social, cronache delle nostre vite, sventolio di generosità e ironie, brindisi senza sapore, pelle senza profumo. L’immaginazione contro cui un tempo puntavo il dito è ora una salvezza. Fulmine, Freccia, Sole e Clarita, siete venuti a salvarmi, ora che questa casa non ha più muri, che le idee valgono nell’orizzontale dell’a tu per tu e sono catene quando arrivano dall’alto. “Si sognava la fine della guerra per guardare le ragazze dai bei vestiti (…), giocare una partita di pallone…” Ora che possiamo dire quello che vogliamo non sappiamo cosa dire. Quando potevamo andare dove volevamo non trovavamo il tempo per andare. Quando ci era concesso di immaginare una vita felice avevamo imparato ad accontentarci di un presente sicuro ma incolore. Sotto l’ombra di quel fiore tutti i nostri grazie da non trasformare in rimpianti. Mi chiedi perché mi sveglio ancora? Per l’attesa, questo mi basta.

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