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Chiamami selvaggio

Quando le parole non vengono a soccorrerti al risveglio e ti lasciano al vuoto, tu che tendi al disfacimento e sfuggi ai tuoi contorni, quando lo spazio del tuo corpo sembra non bastarti perché sei sempre altro e altrove. Quando non godi dei baci, non ti lasci avvolgere dall’abbraccio testa infilata nell’incavo del collo, profumo annusato, cuore a battere, mai presente, nei tuoi luoghi lontani, disperso. Hai fatto tutto bianco intorno a te perché il colore accompagna sensi e ricordi, il chiarore delle luci tutte muove lo sguardo finché si perde e tu sei e non sei. Il tuo respiro, dici, non conosce ritmi regolari, è tutto un rincorrere e poi fermarsi, ansimare, tornare a correre. E ancora sei e non sei. Immagina ora il tuo letto grande, immagina ora un gattino, immaginalo cercarti, immaginalo zampettarti accanto e a te strusciarsi guidato soltanto dal suo istinto così che il calore cerca il calore. Immaginalo ora e poi dimmi quando ti stancherà, quando dirai così è troppo, non ce la faccio, andrà avanti così per sempre. Immagina ora una volpe venire a farti visita la notte, bussare alla porta, annusare i resti del cibo nella tua pattumiera, cercare nel buio i tuoi occhi e farli incontrare col verde dei suoi, di meraviglia tu rimarresti immobile, di spavento lei fuggirebbe. E così la notte dopo e quella ancora. Non avresti ansie, soltanto dubbi e attese. E confonderesti con piacere desiderio e curiosità. Tornerà domani? Sarà la stessa volpe? Incrocerà ancora i miei occhi? Tra il domestico e il selvatico qualcun altro ha scelto per te. Sei nato col pelo sul petto, con le mani facili a rovinarsi, coi piedi saldi e il passo sicuro. Chiamami selvaggio quando nego il pudore, chiamami selvaggio quando sono soltanto invadenze, quando non so cosa sia il riposo dei sensi, quando dovrei essere corpo e invece sono pensiero, quando non ho casa, non ho città, quando la strada è troppo fredda per essere abitata e mi rifugio nella caverna del cuore e cerco te, te, sempre te. Perché tu sola esisti, perché tu sola sei. Donna. Per l’aggettivo del possesso non c’è mai posto in questa vita breve. Perché se io sono l’altrove, tu sei l’oltre, e nello spazio che non ha tempo siamo, e io l’amore me lo spiego soltanto così.

Foto: © Théo Gosselin

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Verrà poi Draxler alla Juve?

Sarà il calciomercato, l’avvicinarsi di settembre, dormire con le finestre chiuse, respirare sempre la stessa aria da troppi giorni. Un treno, rotaie lunghissime, aria condizionata e poi prati verdi, bicchieri di vino e case bianche. Questo ci vuole, cambiare aria al pesce, spostare latitudini. Mi hai scritto proprio ora lo stress è come un bicchiere d’acqua, se lo prendi in mano è leggero, se lo reggi per un’ora è insopportabile. Mollare bisogna, non preoccuparsi dei vetri e del rumore al contatto col suolo, sedersi dove capita, ferirsi coi ricordi e lasciare che il sangue sgorghi un poco, poi il tempo, le piastrine e tutto il resto, il taglio si rimargina e il dolore che porta diventa un ricordo. Certo che l’ansia di non sapere se Draxler verrà finalmente a regalare poesia all’attacco bianconero per me rimane un peso. Verrà il trentuno del mese e avremo chiuso con tutte le dicerie e i discorsi fuorvianti e sarà tempo di fare i conti con quel che c’è, decidere il modulo, dare fiducia al capitano e sudare e sudare negli allenamenti per fiorire in partita e vincere, vincere, vincere non trascurando il bel gioco. È il quinto caffè che mi annerisce lo stomaco, è il terzo sonno dalle tre del mattino, dovresti smetterla, colora di bianco i tuoi denti, dici così, a me, intollerante ai latticini e ai consigli. E mentre tutti tornano noi partiamo, e mentre tutti dormono noi dormiamo. Smettila di cercare l’orizzonte, dici ancora, e io che gli orizzonti li ho sempre inseguiti ora che faccio? Basterà un balcone? Un letto? Una finestra? È inevitabile. Guarda i miei occhi ora nuovi, ne ho consumati un paio o forse più, guardaci dentro e dimmi che vedi. Io ancora niente, sono in rodaggio. Comincio con te, rimani qui, proprio davanti, e prima metto a fuoco e poi mi guardo intorno, così che tutto, questa volta, lo sai, parte da te, che sei mio occhio, mia destra, mio inaspettato orizzonte.

Foto: © Giulia Bersani

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Quel fare d’amore

Studiate, prima di parlare. Pensate, prima di giudicare. E se la parola risulterà invadente, se non vi sarà concesso il lusso dell’errore, se ricadranno su di voi definizioni e paura, ridete. E tramutate il riso in sghignazzo, mostrate i denti. E se invadenza porta a solitudine, l’amore di sé e degli altri nell’ammissione della propria debolezza è atto umano e rivolta indispensabile. Tutto qui porta all’egoismo, i propri tempi, i propri spazi, un lavoro in centro, casa e scarpe lucide, e nessuna, ripeto nessuna possibile ambiguità. Sempre riconoscibili, sempre noi, mai noi.

Voci alte s’inseguono sotto ai neon, tra i palinsesti, l’omelia bionda del mezzogiorno il nostro pane quotidiano, la litania mora a sera, che vengano presto i barbari. Tutte queste fotografie bianche e perfette, i pieni e i vuoti, nessuna concessione all’ombra. Noi che perfetti non siamo, noi che siamo così immaturi e soli e circondati da altri imperfetti e soli. Regarde le ciel l’invito dei muri di Parigi, alziamo gli occhi nel giorno dell’eclissi, di quando gli astri rivelano tutta la nostra piccolezza. Guarda ora il gonfiore del mio volto, sorsi e sorsi di vino, notti disperate nel profumo di lenzuola altrui. Basta una borsa e una strada, basta un domani. Ora tu dimmi perché dovrei esplodere dentro, morire soffocato dal cuore e lasciare a te, al mondo, quel silenzio vuoto di domande. Siano applausi per gli adolescenti, l’indice a premere il tappino di bombolette colorate, amica mia, ti amo, amore mio, ti odio. Siano troni e corone per coloro che aspettano un treno per raggiungere un paio di occhi e ritrovare il sé dopo essersi perduti alla ricerca della perfezione di gambe, di culi stretti e scarpe che slanciano la figura. Studiate, o rimanete nell’ignoranza, che non s’impara pazienza dai libri, s’apprende dai campi: la terra, il maggese, il seme che il primo anno non porta frutto, troppo impegnato com’è a sopravvivere. Cos’è tutta quest’ansia di risultati, questa tensione alla perfezione, non puoi avere tutto, non puoi averlo adesso. Ora ti guardo, ti dico lo stile, questo solo m’importa. E se rovino in parole quel che più caro ho di dentro è perché ho lasciato sapienza nel ventre, perché le mie mani sono bianche, il mio viso bianco, vergine io d’aratro, vergine ancora d’amore, ignorante sì. Incapace di invidia perché troppo impegnato alla vita, incapace di odio perché debole e irrisolto, incapace di strategia, perché vero. Chiamami ancora personaggio, chiamami uomo, amico, chiamami nessuno. Non chiedermi mai chi sono, perché non sono ancora. Ti domando pazienza, ti elemosino cura e ancora comprensione. Prendi il tempo e stringilo nel palmo, non puoi e allora che sia oggi o domani che importanza ha? Perché non facciamo quel gioco dove ti dico tutto quel che non mi piace di te, tu quel che non ti piace di me, poi facciamo l’amore, questa volta davvero, non come quando mi hai chiesto: lo faresti l’amore con me? Ti ho risposto di sì. E da quel giorno non ci siamo più visti.

Foto: © Bruce Haley.

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Delle tue guance hai perso il conto dei baci

Dietro la tenda lilla, oltre lo sporco dei vetri, la merda dei gabbiani sul davanzale. Nel vento che muove le cime degli alberi rari, che scuote le scritte americane sulle magliette appese, i raggi di questo sole enorme e pallido, che illumina e non scalda. Non manchi tu è la mia bugia di oggi. Fradici i miei giorni delle tue lacrime maledette, di quel giorno a rincorrerti per tutta via Dante e poi fermarti, scandire il tuo nome, poi i nostri corpi col freno a mano tirato e la promessa di un arrivederci. Non è tempo questo di colazioni lunghissime al riparo delle stufe a fungo dei bar di Brera.

Cosa ti manca? Continui a chiedertelo perché non lo sai. L’amore? Un lavoro? Un figlio? Tu, lo stesso maglione da giorni, le scarpe consumate, trecento e più chilometri in venti giorni. Tu, diviso, viziato, solitario e solo. Tu, col culo pesante e scuro di guardo. Ricorda, ti ha detto lei un tempo, se sei scuro sei luce. Così hai iniziato a incidere la tua carne, a usare il coltello per far forza sullo sterno, liberare il pensiero, essere finalmente quel tu: il sofferente, il ribelle, il divelto? Che senso ha tutto quel sacrificio di sangue se poi il nero scompare nell’urlo e rimane l’abbaglio, wow, urli, wow, finalmente io, io davvero, io! Ma lei ha paura, ma lei si nasconde. Che farai ora? Ora che hai perso tutto, dove se n’è andato il pudore? Gli occhi fanno male, faranno male per sempre. E quel sempre è un mai. Parole inutili.

Tornate qui, maestri miei, sedetevi a corona intorno al mio letto, sputatemi addosso l’imperfezione che vi ha resi eterni, la malattia che vi ha resi grandi. Insegnatemi la sopravvivenza di colui che si è diviso e ora tutto gli passa attraverso, nulla gli resta addosso. Pronunciatelo il vostro ti amo simpatico, lo ripeteremo insieme fino a farne un suono, la litania potente di questo nostro stare insieme. Fuori non capiranno, ma che ce ne importa. Che fine ha fatto il cuore, il nostro cuore? Volevamo estirparlo, dovevamo estirparlo e non siamo stati capaci, perdenti ancora, ci chiamano nullità, lo siamo davvero?

Lo senti il battere del mio cuoricino? Il maledetto suo battere, portalo via, tienilo tu! Dammi la mano, sfiora il mio corpo di carne, le ossa, i muscoli, il pelo. Puoi dirlo, se vuoi, puoi dire: “Sei vivo amico mio bellissimo, amico mio perduto.”

Verrà quel giorno, amorino, che ci ritroveremo ancora in quel caffè del centro, tu prenderai il tuo orzetto, io il mio caffè lungo, mi chiederai se voglio lo zucchero e ti risponderò di no e continuerò a farlo finché te ne ricorderai. Saremo amici allora, l’unica parola che possiamo concederci, mi griderai addosso tutta la frustrazione di questi anni, perché quando parlo non si capisce un cazzo, perché costringerti a fare lo sforzo del vedere oltre, perché dovevi capire oltre il già detto? Perché tutto ho abbandonato, per te, per te soltanto, per me, per me soltanto. Te lo ricordi il giorno che hai perso la pazienza? Mi chiedi. Incrocio indice e medio, te lo prometto, comincio oggi la mia ricerca, aiutami tu, amorino, prendimi per un braccio, prendiamo il primo treno, sentiamoci invincibili, andiamo a Venezia, cadiamo nella laguna, spendiamo tutto e chiediamo l’elemosina di uno sguardo nell’enorme piazza San Marco tra quelle mille colonne che rendono impossibili gli incontri. Poi portami nella tua casa al mare, prendiamo il sole nell’ultima spiaggia, portiamoci gli occhiali neri, salviamo gli occhi perché voglio vederti invecchiare. Poi portami nel giardino delle fate, di giorno tutto un colore, tutto uno specchio, la notte scuro di trucco abusato. E poi dimmi che delle tue guance hai perso il conto dei baci, delle tue labbra invece tutto ricordi.

Foto: © Benedetta Falugi, http://www.benedettafalugi.com.

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Così sei tu, finalmente tu

Così sei tu, finalmente tu. Ora che non sei qui, tu immersa in notti senza lampioni, desta in risvegli nel rosa di albe tra stazioni senza insegne e treni arrugginiti, tu senza un nome, senza pantofole dietro le bandiere azzurre dell’esercito della salvezza e i panni stesi fuori da tende costruite troppo in fretta. Dicevano tutti resteranno una notte, una soltanto, passano gli anni e sono ancora là, telo dopo telo, impermeabili ormai, dimenticate dai più. Dici il mio andare costruisce memorie, rivela gli orizzonti nascosti dai grattacieli, dai caloriferi accesi e da orologi che appesantiscono i polsi. Ora che dormi, i tuoi piedi nudi su materassi gonfiabili, quel tuo essere di scelte forti e cuore fragile, sei vetro infrangibile, così trasparente che ti si vede attraverso, così dura che è impossibile trovar spazio in quelle tue interiorità labirintiche. Sai mille lingue tu e apri le porte coi denti, non domandi mai, sai ascoltare. L’hai portato un profumo con te? Tra le tue dita ricordo di sigari accesi e confidenze, dove ci porterà tutto questo nostro perderci, questa vocazione al varcare le soglie e rinunciare al biancore dei volti dei figli. Cosa resta di me? Uomo qualsiasi, imperfetto, uomo di tasca vuota e trench lisi, scarpe consumate e labbra morbide, impulsivo e invadente. Resta questo dire che non conosce trincee, così scoperto da mostrare il fianco al giudice, così personale da finire sul fondo e non galleggiare in ricordi e non finire tatuato sulle scapole delle adolescenti, sulla Smemoranda delle scuole medie. Torneremo dove siamo nati e proveremo a non farlo da morti, avremo storie da raccontare, cappelli da sollevare al sole per prestare la fronte al perdono, al saluto. Amici miei di provincia e città, amici miei sconosciuti e offesi, benedite il mio passo, soffocate il mio grido e stringetemi forte sul petto, che non sia mai medaglia, ma fazzoletto, per asciugare guance, per ripulire volti. Così son io, finalmente io, in virtuale lontananza, perché tu esisti soltanto in fotografia, sei messaggi sui social network, un tempo eri volto, ora sei ricordo, un montone grigio, lana bianca. Sei, sarai, continuerai a esistere finché imparerò la dimenticanza.

Foto: © Giulia Bersani

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Tu dormi già

Per cercare la quiete ci siamo fatti straordinari. La nostra camera tutta un letto, la posizione verticale un impiccio, chiudere gli occhi è il rimedio allo scorrere immotivato dei pensieri degli altri. Guardiamo a noi, mi dicevi, e i nostri mondi diventavano sempre più piccoli fino a ridursi a un punto immobile, tu lo mettevi sui tuoi capezzoli, poi pubblicavi le tue nudità su Instagram. Che senso ha il nostro rimanercene sotto le lenzuola fino a tardi oggi che è sabato e sole sui davanzali e sole sulle terrazze e sole sulle foglie rosse e gialle dei parchi. Se ti spaventa il puzzo della circonvallazione trattieni il respiro fino a raggiungere la porta di casa mia, suona due volte e ti aprirò a torso nudo, ti chiederò a quale statua assomiglio, tu riderai come ridi tu e saremo ancora una volta incapaci di fare l’amore. Lasciamo sfitte le case e occupiamo le fabbriche dicevi con la superficialità degli anni giovani, scrivevi anche tu su quei blog dell’hipsteria collettiva e usavi le parole come i fumogeni e i fuochi artificiali, chiedevi attenzioni così. Io ti leggevo con sufficienza, ti giudicavo, ebbene sì, immatura e bella, come gli scritti di Rimbaud. E mentre ti confidavi al computer cercavo nei libri risposte, così andavo in giro addobbato dalle parole lette, come le signore che entrano alla Rinascente, le ragazze tutte nere che si specchiano nei camerini di Zara, facevo del mio pensiero un riassunto dei discorsi luminosi degli altri. Dov’è la coscienza, dov’è la libertà? Per fortuna inciampo spesso nei sampietrini e qualcuno ride, vergognoso ride. Al posto di bruciare i documenti dell’Aler dovremmo cancellare tutte quelle scritte sulle vetrine, urlare che l’amore non si merita, il male è inevitabile. Potresti ora dirmi di saltare sulle tue labbra e toccare il cielo, sarebbe inutile perché non ne ho le forze e lo sai, mi si stringe il petto e piango tutta questa generazione che cerca la distruzione, vorrei ci salvassimo tutti. Non abbiamo equilibrio per cavalcare i tornado, io ho le mani troppo deboli, nessuna idea di come si costruisca una barca capace di sollevarsi sulle onde dei nostri giorni, affrontare le tempeste delle tue diffidenze. Mi dici che hai paura, ti rispondo anche io e rimaniamo immobili a guardarci. E quando comincio a parlare tu già dormi e sogni e non mi ascolti.

Foto: © Miraruido

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Più nudo del secondo uomo che ha visto la terra

Come le turiste che al posto di guardare la luna ci cliccano col dito perché è più famigliare. Trascuriamo il blu, il cielo, gli arrivederci. La testa china sui pixel del cellulare.

I tuoi vestiti lunghi, le scarpe col tacco alto e il rossetto rosso alle labbra. Finisco per cercarti dove non sei e un giornalista di SkyNews dice che in questi giorni non si parla di programmi, soltanto offese, provocazioni e sgarbi.

Non la sedia, non la poltrona, non il letto, non c’è posizione che riesce a darmi tregua. Soltanto a sera, i sampietrini in terra, i gabbiani in cielo e tovaglie di carta, sedie mal ridotte e bicchieri colmi di rosso che si svuotano in fretta. Di me che ricordo il cibo più buono e associo la tavola alla quiete.

Nell’ultima pagina del mio quaderno non so mai cosa scrivere, non ho età da vate e nemmeno da fanciullo. Ora è rivolta, ricerca d’equilibrio e noia che conduce a morte certa. Dici che mi accendo soltanto quando c’è in ballo la mia inesperienza, le frustrazioni per traguardi mai raggiunti. Che sono diventato cinico e il bene agli altri lo attacco alla schiena come i pesci d’aprile che non faccio mai. Io scherzo, molto, sai, solo che non te ne accorgi.

Autostrade ci separano e binari dei treni e binari dei tram. Arriverà un giorno in cui mi stancherò di tutta questa lontananza, tu forse ci speri, io non lo so. E mentre sfogli le fotografie di instagram e mentre il tuo telefono suona, io cerco il bianco dei muri e il legno dei tavoli.

Ombrelli per deporre semi inutili, ciglia che dilatano il tempo e musica per far arrivare il giorno.

Dove sei non basta più. Tu sempre qui come la neve sul Kilimangiaro, in tua assenza sarei più nudo del secondo uomo che ha visto la terra, vergognoso e inutile. Come abiti scelti mi fai grazioso, valorizzi il corpo, e anche il passo cambia.

Mi troveranno per strada intento a salutare sconosciuti, a ringraziar bambini nei parchi delle provincie, loro il pallone, io la penna, a chiamarci per gioco, quello è innamorato, per me è solo scemo. Ce ne manca uno, vuole giocare?

Foto: dalla rete.

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Le quattro frecce sempre accese

Era così bello starsene a letto immaginando il sole fuori e i cerchietti fosforescenti. Le vetrine sempre pulite e le commesse nei tailleur neri. Era così bello starsene in viaggio e pensare qualche volta a casa più per dovere che per nostalgia. Era così bello trascorrere le ore tra le pozzanghere a guardare i girini trasformarsi e cercare di formulare una domanda, perché questo è il tempo delle domande e mai delle risposte. Cerchiamo di sensibilizzarci. Cerchiamo di sensibilizzarci. Mi davi le tue mani gelate e mi dicevi sei fatto apposta per scaldarmi. Io ridevo, ridevo tantissimo. Le montagne erano tutte bianche. Chi riesce ad alzare la mano e chi invece non ce la fa, e vive meglio, e vive meglio. Le macchine parcheggiate ai bordi della strada con le quattro frecce accese, le code per la benzina e le gomme da neve. Le città buie e i lampioni che si accendono con i calci. Tutti i miei sigari spenti sul marciapiede e le corse a cento all’ora per venire da te.

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Quando divento alta ti sposo

Si sono rotti gli altoparlanti e la stazione è un gemito lungo che costringe le mani a riparare le orecchie. Come tanti conigli sulla banchina aspettiamo la partenza.

Fanno finta di nulla gli adolescenti con le loro caviglie scoperte e le gambe fasciate dai pantaloni della tuta, mulinano le lingue giovani e le fanno incontrare, la mano che stringe il trolley si rilassa. Poi il rumore sempre uguale delle rotaie, la geometria delle coltivazioni dei pioppi e per tracciare i fili dei nostri giorni i tralicci della corrente ci raggiungono ovunque. E fiori bianchi e fiori rosa e arbusti ai lati della ferrovia.

C’è una ragazza, una maglia bianca morbida senza maniche, sfoglia un quaderno, si stufa, si appoggia sul fianco e poi chiude gli occhi. Il ragazzo di fronte a me non teme il sole, indossa occhiali neri, lascia tranquille le tende blu. Io mi guardo intorno, poi mi perdo in pensieri tra le righe di un libro, uno sguardo al cellulare, uno al finestrino, cercare solidarietà nella lingua incomprensibile dei neri dalle labbra grandi mentre una donna sui trenta, capelli nuovi e shatush, tra un figa e un bella stila l’elenco delle sue nuove amicizie.

Chissà tu come siedi quando viaggi sola, se ti addormenti facile oppure lavori, magari alleni lo sguardo e ringrazi il riparo delle province d’Italia. Dove vado io e tu dove vai? Cosa c’è dopo queste rotaie, dopo la strada fuori dalla stazione, oltre il verde, oltre il mare, oltre l’orizzonte, cosa c’è?

Ieri pensavo a Rahel, alla sua pelle d’oro, agli occhi grandi, al suo fratellino col pugno sempre alzato. Eravamo bellissimi, dicevi, quando divento alta ti sposo. Ma eri già grande e io non lo sapevo, avevi le mani forti e i piedi più duri dell’asfalto e ora che il tempo è passato sei nei racconti e morsi di serpente sulle tue braccia, poi quattro figli e un collo resistente per trasportare sulla testa gli otri dell’acqua. Cara Rahel, era così bello, non ti ho mai amata come volevi tu, hai ragione, ti ho voluto bene e non era abbastanza, ma non è stata colpa mia, non si poteva e basta, ero così giovane, ero così sciocco.

Sul muro della stazione una scritta: “Oggi ho battuto la vita, sono morto.” Così mi son fatto silenzio e per un’ora, forse di più, non lo so, non ho pensato a nulla, nulla che ricordi, non ho pensato… ho pensato che, che non mi va di raccontarlo. Poi le borse, le scarpe, la moda, il colore, le riviste, ho preso aria, aria ancora, ho aperto i finestrini, ho guardato fuori, i ragazzi ridevano, i bambini giocavano a rincorrersi, facevano finta di picchiarsi, le madri parlavano tra loro, la vita era fuori, qui dentro che c’è? Dove li stendo i pensieri?

Poi nel vagone risuona una domanda: “Dite davvero che mi vesto da troia?” E’ ancora silenzio, diverso da prima, gli amici che ridono, e il selfie di rito. La ragazza con gli occhiali neri fa la foto alla terra rivoltata, i riflessi del finestrino e i filtri di Instagram, saremo bellissimi quando guarderanno i nostri album di fotografie. Cosa diranno i tuoi occhi senza il riparo del trucco? Il tuo culo senza i pantaloni sarà ancora lo stesso?

Vai tra, ti dico io, non sei credibile quando porti al polso i braccialetti dei villaggi turistici. Mi controlli più tu degli impiegati, solo a Bologna e a Milano ti fermano, nel mezzo non fare il biglietto, dai non pagare, non serve a niente. E poi quei discorsi: le osterie non son più come un tempo, suoni la chitarra tu? Diventiamo ridicoli, come quell’altro che si domanda se esistono ancora i quartini di vino sfuso o la mezza nelle caraffe di vetro, sarebbe un’indecenza, dice, un insulto al gusto, dice, poi pubblica pagine sulla provincia, ma che ne sai dei miei giorni, delle mie indecisioni? Che c’è di male nell’indecenza? Cosa dovrei dirti ora che frequentiamo lo stesso giardino, gli stessi salotti? Sorriderò come tutti gli altri, complice anch’io di questa falsità che tutto vela, che ci rende ciechi e sordi e muti, coi denti bianchi e le labbra sempre più rosse. Il sangue blu.

Scendo dal treno in fretta, poi ti dimentico. Non ti dimentico.

Foto: dalla rete.

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Fiorellino lillà

Ho perso il tempo a non scriverti. Qui anche il mattino si dà da fare e mi sorprende alle spalle il desiderio di dirti buongiorno.

Tra i discorsi della strada i miei sorrisi leggeri e la pelle che perde in trasparenza, mi avvicino ai muri in solitudine per guardare ed essere guardato.

Da dove viene questo rifiuto al presente, ai nomi comuni della gente comune, all’amore esibito che non è amore e all’odio che quello sì, è odio. Dalla cloaca dei talk show della notte pochi sussurri di salvezza. La comunicazione è buona, buono è l’audio, le persone sono buone, le parole buone e associo l’aggettivo al gusto, mi viene a noia e poi la fame e il frigo è vuoto.

Sono entrato in una chiesa ed i colori erano tutti morti, e gli uomini erano morti ed ero morto anche io. Io che mi interrogavo sul presente, che avevo paura di perdermi e rimanevo sempre immobile.

Sono entrato in un cinema ieri, e le sedie erano morte, ed ero morto anche io, che giudicavo i commenti degli altri e le pettinature e le accompagnatrici e gli accompagnatori.

Volevo dirti che nascondo un fiorellino lillà sotto la camicia, ma non te l’ho detto. Volevo dirti che non l’ho comprato, che è cresciuto spontaneo. Volevo dirtelo, ma non servirebbe a nulla. Il fiorellino spaventa. Spaventano le mie euforie momentanee.

Quando poi prenderò il coraggio della banalità e continuerò a dirti sei bella così ti imbarazzerai, lo farò soltanto in presenza per prenderti le spalle e allontanare l’ansia che immobilizza. Qui tutto ci porta all’isolamento e finiamo per non scegliere, goderci il tutto per non goderci nulla. Pensiamo ci sarà sempre qualcosa di meglio, desideriamo l’irraggiungibile e ci appaga l’idea stessa che noi, noi siamo irraggiungibili, dei semidei.

Quante vite ho vissuto fino a qui? Quante mani ho stretto? E poi i ricordi sono sempre gli stessi. A che serve apparire supereroi quando le notti le lacrime bagnano quel fiorellino lillà di cui nessuno sa. Qualcuno intuisce, lo riveliamo al raro delle candele accese, per non dimenticarcelo. Soltanto nel viaggio, lontano da tutti, allentiamo i bottoni della camicia e lasciamo che esca a decorarci il volto, si infila tra i capelli e splende, splendiamo anche noi che mettiamo la paura in bocca al cielo e non rimandiamo nulla, diciamo che sì, la vita comincia ora, quando avremo il coraggio di svelarci. Ma non è poi così, bisogna stare attenti.

Non è bene rivelarsi a chi non può comprendere e come ai due giorni del militare ti crede folle. Non è bene svelarsi, bisogna trovare un riparo che sia saldo e farci furbi, decorarlo con cura e uscire di casa coperti, sperare che uno sguardo nuovo ci scopra e intuisca, non veda, soltanto intuisca. Dicevo, un tempo, l’inverno è così duro con i lillà, ma ora è primavera, partono ancora gli aerei, ma a volte è bello scegliere di stare.

Foto: Samuel Roy-Bois.

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