C’è il sole, fammi compagnia

Sono i piccioni i primi a salutare il blu.

Senza avvisare prende il suo posto la primavera e scivolano veloci tra le scollature sguardi d’uomini d’ogni età.

Quando abbiamo preso la via per lasciarci alle spalle le installazioni colorate delle serate mondane, l’electro beat adatto ad accompagnare lo svago e i pensieri fumosi del dopocena. Ti guardavo di profilo cercando una qualche somiglianza con le sfingi d’Egitto. Che avevi gli occhi strani e una certa inclinazione alle allitterazioni, e ripetevi sempre la stessa frase, che te ne fregavi di tutto e pensavi soltanto a te e a quanto è bello vivere il momento. Eri ubriaca, camminavi come i pulcini appena nati, senza direzione, con lo sguardo appassito e i tacchi consumati. E mentre ti aggrappavi alle mie braccia pensavo che forse avrei dovuto studiare la fisica per comprendere che non tutti i corpi s’attraggono. Interessante, certo, ma non abbastanza, e poi che significa tutto questo?

Quando fai tardi hai bisogno di ridere, e districarti nell’arzigogolo dei discorsi, e dimenticarti i cominciamenti, giungere a massime che segnerai sulla strada come apoftegmi per i camion della pulizia di quartiere. E un giorno ancora ad ignorare il tempo perché lui ignora me. Questa è la logica disumana delle relazioni, misuriamo tutto sull’orologio del cellulare e non ce ne facciamo nulla delle attese degli altri.

Il lavoro stanca, il lavoro piega, il lavoro seduce col soldo e ti rende l’utile mettendo ordine tra le tue giornate. Progetteremo un futuro quando incorniceremo sul muro i nostri contratti indeterminati.

E nelle mie relazioni non c’è coerenza che brucio le radici col dire e il fiore appassisce in fretta.

Nei versi di Majakovskij una rabbia che non posso permettermi. Vorrei indossare un’abito elegante, colorato però, e un papillon consumato e largo. Farti delle fotografie sull’erba come fanno gli adolescenti. E per un’istante evitare lo specchio e lo sguardo dall’alto.

E quanto poi sarebbe bello che mi corressi incontro con le braccia aperte. Hai presente quando ti accompagnavo al treno e mangiavamo un panino a Mcdonalds e chi se lo ricorda il sapore che m’ero perso sulle tue labbra. Tu scartavi sempre il cetriolo e mi dicevi dovremmo mangiare meglio andrà a finire male così. E poi non è proprio finita perché non è mai cominciata.

Vorrei la leggerezza delle canzoni di Marco Levi o di Dente. Ho i capelli di Devendra e lo spirito di Kerouac. E così va a finire che mi confondo.

Ed ora sono su un balcone a Lisbona, e griglio agnello e bevo del rosso, e scrivo felice e tu mi aspetti sul letto, mi urli è pronto e ti dico non ancora, vestiti e vieni fuori, c’è il sole, fammi compagnia.

lisbona-alfama

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