Il braccio rosa di una bambola a galleggiare sull’acqua del Canal St. Martin e i bicchieri pronti ad affogare nel vino. Le ultime ore del pomeriggio, è autunno, lo sai, viene buio presto e memorizzo i tuoi colori per affrontare la sera: le nostra labbra sono così rosse perché le teniamo a distanza di sicurezza.
Tu prendi aerei sempre troppo tardi e quando arrivi sei così stanca che posi la testa sul cuscino, dici: meglio così, niente di nuovo sul fronte dei desideri. E poi la notte sogni di soldatini e battaglie di ventri.
Ti scrivo così tanto che potrei farci un libro: sull’incapacità al freno e sulle piste d’atterraggio delle curiosità.
Di questi silenzi come coperte per ripararci dalla naturalezza degli incontri e dai miei schizzi di parole che ti sorprendono senza avvisare.
Delle pozzanghere che si creano sotto ai marciapiedi e delle automobili che non rallentano mai.
Per tutte le volte che usciamo con gli stivali per scoraggiare le rincorse; ti suggerivo locali introvabili per i nostri aperitivi in camere separate, noi così riservati alle occhiate furtive degli stranieri e alla cortesia nella domanda di un cocktail. Mentre i tuoi vodka lemon non faranno la storia, che importano agli astemi le mie radici di vino e le intolleranze alla mancanza di attenzioni. Di quando ti metti in posa e resti sull’attenti. E’ tutto così relativo che quel che distingue la class non è il vestito, ma l’atteggiamento, il tono della voce. Così mi ritrovo a elemosinare virgole e punti, le tue pause infinite e le mie notti trascorse a far fuoco contro sagome immaginate.
E bruciavo le tende per guardare i colori del tramonto alle tre del mattino, quando i caffè non bastano mai e l’ansia dei mille futuri possibili ci solletica la pianta dei piedi. Vorrei dirti facciamo l’amore, ma confonderesti sesso e routine. Vorrei dirti: lo sai, ho voglia di un pompino? La fenomenologia dell’egoismo diresti tu. E cominceremmo discorsi interminabili sulla pulizia dei sessi e sugli zaini dei rasta di Place de la Republique.
Te lo ricordi quando dormivamo per terra? Eravamo gli stessi, allora? Io che scuotevo la testa e poi ti ricordi quando hai preso il primo aereo della tua vita?
Ho cominciato a immaginarmi le tue dita lunghe intrecciate alle mie, l’antidoto alla paura nelle nostre estremità più esposte. Che per dimenticare la morte dovremmo farci sussulto, che te ne importa dell’orecchio degli altri, troviamo la giusta distanza, per ascoltarci meglio, per sussurrarci all’orecchio un buongiorno e non sentirci più in colpa.
Foto: dalla rete.