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Verrà poi Draxler alla Juve?

Sarà il calciomercato, l’avvicinarsi di settembre, dormire con le finestre chiuse, respirare sempre la stessa aria da troppi giorni. Un treno, rotaie lunghissime, aria condizionata e poi prati verdi, bicchieri di vino e case bianche. Questo ci vuole, cambiare aria al pesce, spostare latitudini. Mi hai scritto proprio ora lo stress è come un bicchiere d’acqua, se lo prendi in mano è leggero, se lo reggi per un’ora è insopportabile. Mollare bisogna, non preoccuparsi dei vetri e del rumore al contatto col suolo, sedersi dove capita, ferirsi coi ricordi e lasciare che il sangue sgorghi un poco, poi il tempo, le piastrine e tutto il resto, il taglio si rimargina e il dolore che porta diventa un ricordo. Certo che l’ansia di non sapere se Draxler verrà finalmente a regalare poesia all’attacco bianconero per me rimane un peso. Verrà il trentuno del mese e avremo chiuso con tutte le dicerie e i discorsi fuorvianti e sarà tempo di fare i conti con quel che c’è, decidere il modulo, dare fiducia al capitano e sudare e sudare negli allenamenti per fiorire in partita e vincere, vincere, vincere non trascurando il bel gioco. È il quinto caffè che mi annerisce lo stomaco, è il terzo sonno dalle tre del mattino, dovresti smetterla, colora di bianco i tuoi denti, dici così, a me, intollerante ai latticini e ai consigli. E mentre tutti tornano noi partiamo, e mentre tutti dormono noi dormiamo. Smettila di cercare l’orizzonte, dici ancora, e io che gli orizzonti li ho sempre inseguiti ora che faccio? Basterà un balcone? Un letto? Una finestra? È inevitabile. Guarda i miei occhi ora nuovi, ne ho consumati un paio o forse più, guardaci dentro e dimmi che vedi. Io ancora niente, sono in rodaggio. Comincio con te, rimani qui, proprio davanti, e prima metto a fuoco e poi mi guardo intorno, così che tutto, questa volta, lo sai, parte da te, che sei mio occhio, mia destra, mio inaspettato orizzonte.

Foto: © Giulia Bersani

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Parole non dette, canzoni mai ascoltate

Non c’era tregua nelle loro parole, tutto intorno il mondo si specchiava in luci e automobili ma a loro non sembrava interessare. Il centoventicinque ai settanta all’ora sulla statale che porta al concerto. Cosa si sono detti nessuno lo sa e lo saprà mai, li hanno visti così vicini che sembravano una persona soltanto. Una volta arrivati le canzoni non le hanno ascoltate, nemmeno una, hanno smesso di parlare e si sono guardati e basta. Pause soltanto per sorseggiare il giallo delle birre e un oooh di meraviglia quando sono scesi i coriandoli tra tutti quei neon colorati e il cantante ha detto buonanotte. Tutti amici intorno. Tutti i saluti dell’universo al loro piccolo pianeta inventato lì e là sul momento e la consapevolezza che la bolla era scoppiata. Il sogno interrotto. E poche stelle in cielo. E molte gru. Lei pelle sensibile e occhi enormi, lui capelli lunghi e polsi magri. Si erano detti il loro nome molte volte. Si erano conosciuti lentamente, eppure erano due vulcani fatti di lava e labbra morbide. Lui senza barba, lei senza trucco. E le macerie intorno. Le amicizie del recente passato avevano perso colore, soprattutto calore. Guardavano i miti dei più come chi conosce gli uomini e sa che dietro allo spettacolo è tutto una miseria perché misero è l’uomo. Che dietro allo spettacolo è tutto una meraviglia perché meraviglioso è l’uomo. Difesi dai maglioni lunghi con le maniche consumate, difesi da abbracci ripetuti e mai invadenti, si parlavano come fanno le montagne. Silenzi carichi di pioggia, grandine e neve, soltanto a volte, gioiose, la neve. Poi pallidi soli e quotidianità. Lui aveva scritto lettere tutti i giorni per cinque lunghi anni a un’altra donna, capelli lunghi e neri, volo del corvo. Lui ora incapace di fogli, iniziative timorose, proposizioni coraggiose soltanto dopo l’alcol della mezzanotte. Lei leggera a volo di libellula, dita lunghissime e caviglie fini. Il bacino urlava, la lingua spingeva sul palato, anche il cazzo bussava con forza nei jeans prima larghi ora troppo stretti. Perché quella pausa dal sesso che riposa i pensieri e dona al corpo il respiro della quiete? Perché evitare di rivelarsi ancora in nudità e verso animale, violenza di schiaffi ed esplosione di impronte sul culo sodo delle giovinette? Paura. Se la solitudine è l’immagine della morte, la paura è un recinto. Quando batte forte il cuore, quando l’intestino geme, quando non c’è lenzuolo che non venga voltato e rivoltato da un corpo caldo che cerca un posto nella notte delle domande, il timore s’esprime in ansie e difficoltà nel respiro. Da quanto tempo lui non faceva colazione ascoltando una canzone, una qualsiasi? Da quanto tempo lei, cuor di leonessa, anche scaltre, fica splendente, da quanto tempo lei non riceveva sguardi così lunghi, densi e incompiuti. Da quanto tempo lei non si sentiva amata. Li chiamano angeli bianchi, teste logorate da velleità sante, poveri profughi del quotidiano, incapaci, inespressi. Li chiamano irrisolti soltanto gli psicologi dagli uffici all’odore di deodoranti sintetici. Lui la accompagnò sotto casa. Lei aprì il portone, salì le scale, lui aspettò che si accendesse la luce del piano. Guardò il soffitto, bianco. Guardò il cielo, nero. Indossò la sua tutina da supereroe e tornò a casa. Sul centoventicinque lei non c’era più e quella notte era ricordo. Magari sogno. E poche stelle ancora.

Foto: © Nicoletta Branco

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Scegliere di stare è un viaggio

Smettere di bere è soltanto un proposito, il frigo si svuota ora dopo ora e l’ultima settimana di agosto brancola tra la nebbia e soli pallidi di questo nord così piatto che si fa invito a materassi morbidi e occhi chiusi. Immaginarti qui è uno sforzo inutile, non ci sei, non c’è il tuo odore, i tuoi fianchi appuntiti, nemmeno i tuoi denti a ricordarmi le alpi, la trincea bianca e confusa che separa la tua voce e la mia. E più viaggio e più scrivo e più penso, più popolo l’orizzonte di magre cerbiatte dal colorito chiaro e mi accoccolo sul ventre loro caldo e intreccio il collo ad altri colli, più la solitudine bussa allo stomaco. Come se il mondo non bastasse al mondo, come se il cuore non bastasse al cuore. Stronzate! Mi sono rammollito dici, uomo che non conosce quiete, uomo che non sa cadere nel sonno in un prato, cantare forte al largo dell’immenso mare di Sardegna, farsi grido nei folti boschi della Valtellina. E gira e gira questo smania di emergere, il piede affonda nell’asfalto caldo del quotidiano, inquieto il respiro, affannoso l’eloquio, quel che guardi sei, quel che desideri diventerai. Pensa tu ora a dove dirigi i tuoi occhi, al desiderio profondo che anima il tuo fare, non mentire. E ora decidi, la tavola è apparecchiata, la valigia pronta, o siedi o vai, falla semplice. Se tutto intorno sono colori pastello e terrazze, blu di cieli e blu di mari, gatti e finestre, persiane pitturate e mura bianche, case basse, se tutto intorno sono giorni felici e ombre che regalano profondità, chiediti perché tu sei l’uomo che guarda e non quello che vive. Fallo lo sforzo della semplicità, è lo scorrere dei giorni, uno a uno, che si fa vita, non l’idea del vivere a dar forma ai giorni. Perché tutti questi punti di domanda? Lei, lei o un’altra, ti aspetta, ti cerca, magari non lo sa, magari non lo sai tu, che aspetti a vivere? Scegliere di stare è un viaggio, posa la borsa e prendi confidenza coi muri, apri le finestre e guardati intorno, impara ad amare il tuo cielo, ci hai mai provato prima d’oggi?

Foto: © Sarker Protick

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Ce ne andiamo a giro

Ora che è tutto chiaro: bianco l’asfalto, i palazzi, bianche le pietre agli angoli delle stradine di campagna, i fiori dei campi che il tuo piede leggero calpesta, si fanno candidi anche i miei occhi e quel che vedo è luce. Non c’è alba né roseo tramonto in questo mio guardare, non c’è riposo, ma la purezza di denti capaci di morsi, c’è quella voglia misteriosa di sporcarmi che domina le ore chete dei pomeriggi d’agosto. L’ultimo abbraccio estivo, sudore alla fronte, piedi nudi e il motorino con la freccia accesa a indicare una fermata mai una sosta, l’arrivederci che prima o poi verrà, le felpe e i maglioni, poi dicembre. Noi che ci sediamo fronte a fronte incapaci di pensare ai domani tiriamo fuori dal pozzo delle viscere i ricordi stravolti dal nostro vivere sensibile e immaginifico e continuiamo a donarceli senza stancarci; non sono foto pancia scoperta, costume a fiori, non sono canzoni, siamo noi, dici tu, io dico boh così siamo d’accordo. Raccogliere i pensieri degli altri, il film delle intimità confessate ai conoscenti, la nostra rabbia sfogata dietro alle finestre e quelle allergie che ci tormentano. Vogliamo dare ancora la colpa alla sensibilità? C’è in tutto questo nostro avvicinarci la corda invisibile dell’ego imperfetto così possiamo soltanto sfiorarci. Se tu fossi me, io te, che cambierebbe? Ce lo diciamo per gioco, per riempire il silenzio. Ti dico il bar mi rovina le mani, dici che il viaggio rovina i tuoi piedi, è come se le tue mani fossero i miei piedi, dici ancora, io dico wow. Tutti questi nostri ragionamenti non portano profitto a nessuno, lo sai? L’economia rallenta perché la rallentiamo noi, sentiti in colpa. Dobbiamo fare i conti anche col mondo, mi dici, altrimenti scappiamo. Scappare da chi da cosa da dove? Scappare per andare dove a fare cosa e poi perché? Ci facciamo lotta col desiderio di emergere, di riuscire, di farci finalmente belli, belli davvero, che ce lo dicono in tanti ma in fondo in fondo nessuno ci persuade. “Persuade”, rideresti a sentirmelo ripetere e giocheremmo con l’accento. Ci piace così, ci divertiamo con quel che c’è, sappiamo ancora distrarci e confondere il reale col su forza, raccontami una storia. Mille incipit e mai una fine, non ti viene ancora a noia raccontarti? No, dici tu. No, dico io, così ricominciamo da capo. “Piacere Marco”, mi dai la mano, io la stringo, e non è come la prima volta. Mi conosci già, dici tu, io faccio sì con la testa e ce ne andiamo a giro e intorno, sai, tutto intorno, vola tutto anche se non te ne accorgi.

Foto: © Conor Clarke

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A rimandare i tramonti

La differenza tra Milano e Parigi la fanno le scarpe mi dici, che se ho dei problemi con quegli zatteroni tutti neri e strisce lucide è tutta colpa della mia infanzia. Vedo vestiti a righe dappertutto e sulle spiagge sono alla ricerca dei costumi interi, la pancia te la guardo quando sei con me: conosco i tuoi muscoli, i tuoi nei e la forma tonda del tuo ombelico. È agosto di ventilatori, deumidificatori, aria condizionata nei centri commerciali, nella tua stanza. È agosto di barche e porti, di mete da raggiungere, da immaginare, di voli che partono in ritardo, di cammini in solitaria, di vette e nevi sciolte, grigliate in giardino, spiedini di pesce. Birra, birra e ancora birra, poi a pranzo insalata e cipolle tagliate a fresco, pomodori dappertutto, le tue guance rosse, le tue cosce bianche, la stella tra le tue gambe che non cade mai e illumina i miei giorni tutti uguali. Lasciami penetrare il tuo buio, morirti dentro in mugolii animali per poi rinascere nel respiro che torna regolare, tornare uomo, guardare il contorno dei tuoi fianchi, farmi voce e caffè, persiane aperte. Salutiamo il giorno prima di tutti gli altri, il rosa dell’alba e tutti i fiori che non ti ho mai regalato, le lettere che non ti ho mai spedito e ora intere trascorse in pensieri. L’impronta delle dita sull’Iphone, tutte le mie noie a portata di click. Leggerti è meraviglia ti dico, abbiamo solo un cuore, mi dici, io non lo so se posso contenere tutto, se prima o poi esploderò, io, i miei oggi, i miei domani e tutte le parole che fanno bruciare la mia pelle e illuminano tutto intorno. Se tu ci sei io vivo, se tu sei lontana io arrivo. Ho preso un treno oggi, poi dieci chilometri a piedi, poi ancora treno, pullman, una corsa in cima alla collina per guardare tutto dall’alto e cominciare a possedere con lo sguardo. Chiamare mio quello che è di tutti gli altri, avere la coscienza che se succede qualcosa di straordinario a noi succede a tutti e il mondo intero apre la bocca per fare wow, così quello che per molti è uno sbadiglio noi sappiamo stupore. Non ti ho trovato questa notte, domani un altro treno, un volo, un atterraggio e chilometri e chilometri di pensieri ancora, ho pronunciato così tante parole fino ad oggi che quando ti avrò di fronte non dirò nulla ma l’amore infinito mi salirà nell’anima e dovrò scappare, lontano, molto lontano, così nascosto nei miei pensieri che dovrai stare al mio fianco e aspettare fino a che il cuore rallenterà, fino a che il cazzo smetterà di pulsare. Infilerai una mano tra i miei capelli, libererai i miei occhi dal nero e mi ridonerai la vita. Così le tue spalle, le mie mani, così il tuo collo, le mie labbra, così il tuo ventre, i pettorali, il mio bacino e il tuo monte di Venere, sarà danza e profumo, saranno scintille e fuochi. Quando le stelle cadranno fermeranno la curva lucente del loro andare per guardarci e la notte sarà chiara. Vedrò il mondo nelle tue pupille, tu, aggrappata ai miei fianchi rivolgerai l’ultimo saluto alla luna e per noi sarà un giorno eterno. Mi hai ricordato che cosa è il corpo, a me, angelo dalle parole di lava, ti chiamo estate, tu autunno di foglie, ti faccio ombra così respiri, ti fai luce infinita tu, rimandi i tramonti e aspetti che io impari a guardarli.

Foto: © Luca Bortolato

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Lo skyline di Manhattan

C’è un cane che abbaia giù in fondo alla strada. Le lavandaie lavano. Odore di sapone e finestre aperte. Tu alzi una mano per salutare, sorridi con quei tuoi denti che paiono lo skyline di Manhattan. C’è il tuo neo che saltella per strada, lo prendo al volo e me l’appiccico sulla guancia, ora ci assomigliamo un po’. Ti ho detto l’ho sentito dal primo momento che eravamo come il pane e il pomodoro, mi hai risposto io no e poi hai infilato la testa sotto al tavolo. Non mi guardare hai detto, non posso fare altrimenti, ho detto io. Proprio “altrimenti” ho detto. Da quel momento in poi la mia esistenza è cambiata. Non ero più solo al mondo, non c’eri nemmeno tu al mio fianco. Una valanga di pensieri e una tempesta di vorrei, mi sono tagliato i capelli due volte per cercare di non riconoscermi, per confondermi ai tanti. Ho fallito. Ora mi guardo allo specchio e mi riconosco e dico sono questo qua, soltanto questo, se ti basta appoggiami ancora il mento sulla spalla. Ti penso e mi appare la tua immagine come dentro al caleidoscopio. Cazzo che fatica scrivere una parola così. C’era la luna blu nel cielo, hanno detto, qui era nascosta da nuvole scure, ho aspettato tutta la notte che tu mi scrivessi: guarda il cielo. Non l’hai fatto, ma non importa, sai, era un modo come un altro per farti entrare nei miei giorni, per sentirmi più leggero, che le ali ce le ho ma manca il vento. Ho amici dappertutto, la provincia sotto questo punto di vista è un bell’aiuto.

Lo sai cos’è il duende?

C’è chi non sa piangere davanti a una poesia, chi invece lacrima per l’emozione di un regalo ricevuto, di una nuova nascita e così via. Sto diventando così banale che ora potrei chiederti quanti siamo nel mondo, tu risponderesti che non lo sai, andremmo a cercarlo su Google e poi diremmo tra tutti questi noi. E io scoppierei a ridere e tu anche e mi diresti andiamo alle terme e ti direi basta un asciugamano bianco e mi chiederesti se ce la stiamo facendo ad assomigliare a tutti gli altri. Allora ti porterei in Rinascente e così, davanti all’ennesimo specchio, ti direi: eccoci qui. E tu non ti nasconderesti più ma proveresti le tue mille espressioni. Me lo rubi un vestito? Al massimo te lo regalo, ti direi io. E giocheremmo come fanno le coppie a cambiarci d’abito e sfilare fuori dai camerini aspettando un giudizio e uno sguardo. Facciamo come in quel film e corriamo fuori e facciamo suonare gli allarmi di tutta la città? Io me lo immagino ma poi non ho il coraggio. Tu non ci pensi e lo fai, io ti rincorro e prima di raggiungerti pago. Così litighiamo e mi chiedi perché lo hai fatto? Per il “quieto vivere” rispondo io. E tu t’incazzi. Sei così bella arrabbiata. Siamo come tutti gli altri, siamo come tutti gli altri, siamo come tutti gli altri. Solo che tu hai un numero imprecisato di lentiggini, quante altre come te? Solo che ho un numero imprecisato di parole che combino a caso e per fortuna tu ci capisci qualcosa e non hai paura e ti avvicini. O hai paura e ti allontani? E ora dove sei? Non lo so più.

Foto: © Tomas Deszo

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L’arcobaleno di chissà dove, i tuoi nei per chissà chi

Se non lo fai non lo impari. Se non lo hai vissuto non ne puoi parlare. Tutta quella cosa che chiamiamo esperienza ci riempie le guance e ci fa gonfiare il petto. Tutta quell’aria dentro ai polmoni non può rimanere soltanto per noi, mi dici, così via a respirare più forte fino ad ansimare. Chiamerai ancora godere tutto questo nostro dirci, questo nostro cercare d’interpretarci? Scriviamoci ancora di notte, telefoniamoci per sempre. Sai bene che sempre e mai sono due parole senza significato e noi, noi che siamo cacciatori, perché non smettiamo di pensarci prede? Noi che ci crediamo navigatori, perché non la smettiamo di disegnare rotte e avere in mente porti? Ci perderemmo, mi dici, ci distruggeremmo, mi dici, moriremmo di fame, di sete, di lontananza. Quante altre strade si aprirebbero davanti ai nostri passi se soltanto dimenticassimo da dove veniamo e chi siamo? Mi dici prova a farlo almeno dopo le otto di sera, lascia a perdere i farò, lascia perdere i dovrei, sii ora e sii qui, come diceva Baudelaire. Come se il qui e l’ora fossero una garanzia, come se essere unificati e presenti fosse sempre la cosa migliore da vivere. Perché bevo, mi chiedi? Per non pensare, rispondo io. Ci riesci, mi chiedi. Solo per un po’, rispondo io, e il giorno dopo è sempre un disastro, tutto raggiunge lo stomaco, chiamiamola ansia, mi dici, diamolo finalmente un nome alle cose. Poi la tua foto, l’arcobaleno di chissà dove, i tuoi nei per chissà chi. Dove sono io? Dove sei tu? Risposte semplici. Risposte complicatissime. Vorrei parlarti ora di mare, di paguri e conchiglie, di ricci crudi e lenzuola appese, nel tuo costume da bimba degli anni Sessanta, voglio dimenticare l’oggi e credere al sogno, l’immaginazione che crea futuri possibili e improbabili. “Futuro” è soltanto una declinazione dell’essere, ancora non esiste perché non si vede. Io lo vedo, ti dico, limpido e chiaro, lo vedi anche tu, sta davanti a noi dicono i più, io dico ci sta dietro, come la pensano in sudamerica: il passato sta davanti perché già visto e noto, il nostro divenire invece ci sta dietro e ci sorprende. Dove saremo tra un mese, tra un anno? Avrai tagliato i capelli o copriranno ancora il tuo seno tondo? Ti immagino seduta ora, qui, davanti a me, mi guardi e basta, mi guardi e poi ti giri e io, dietro, come il futuro. Prendimi le mani, fammi raggiungere il tuo petto, guarda la tua pelle che si dilata tra le mie prese forti, io posso solo immaginare il tuo volto, oggi, e domani ancora.

Foto: © Julien Magre

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Il uauauauao dell’universo

Non mi hai ancora detto smettila di scrivere di me. La voce di mamma, le pale del ventilatore e tu che stai in fissa cercando un’idea per combattere la noia, quando ti metti a favore dell’aria i tuoi capelli prendono il volo, ti chiedi dove se ne vanno, se se ne vanno e chissà com’è vivere sopra di te. Dal piano di sopra qualcuno sbatte forte le scarpe contro il pavimento che poi per te è il soffitto, è un bel ritmo per la tua chitarra così muovi le unghie colorate e ti fai voce e pensi che prima o poi anche loro apprezzeranno, che prima o poi tutto si avvera, che prima o poi smetterai di dirti prima o poi perché sarai quel poi. Sulle strade le sirene delle autoambulanze e dossi dappertutto per i nostri sbalzi d’umore. Così se ieri eri vicina oggi sei lontanissima. Ci diciamo sempre dove andiamo e mai cosa facciamo forse per paura di dire soltanto: niente. Oggi non ho fatto niente. Siamo qualcuno anche quando restiamo inoperosi perché il pensare, lo sai, è già azione. Arriviamo a sera stanchissimi e non riusciamo a prendere sonno. Tengo il cellulare tra le mani per farmi luce e leggo le notizie del giorno, i commenti alle notizie del giorno, le ironie sulle notizie del giorno. Io nemmeno lo so quanti sono cinquecento anni luce, ma su Kepler 186 F ci arrivo con l’immaginazione e penso, penso a come sarebbe il mondo che abbiamo immaginato insieme. Come tutte quelle volte che ci siamo parlati e tu non c’eri, come tutte quelle volte che ti ho vestita e vestita eri già, come tutte quelle volte che ti ho spogliata e già ansimavi. Tutto è relativo, gli universi paralleli e bla bla bla, io non ci capisco nulla e costruisco teorie fatte di vuoti da riempire. Pensa alle bottiglie di plastica. L’adolescenza dell’immaginazione quando finirà? Mi chiedi. Fai una cosa giusta, prendi la valigia e vieni, dimentica la valigia e vieni, chisseneimporta, l’importante è che vieni. Quante volte ti ho detto che il viaggio ti insegna che tutto è superfluo? Che basta il passo, le scarpe e una meta, che senza quella non si è da nessuna parte e un conto è non fare nulla e un conto è non essere da nessuna parte. Non ho imparato niente. Perché il luogo, lo sai, il luogo è importante, ti ho detto. Di che colore sono le tue pareti, oggi? Di che colore sono le tue gambe oggi, quanti altri lividi dei colori del tramonto punteggiano la tua pelle? Non ora, qui, mi hai detto. Ho bisogno di sentirti, non chiamarmi. Ho bisogno di scriverti, scrivimi il meno possibile tanto lo sai che rispondo soltanto se mi va e spesso non mi va. Perché, mi chiedo io, perché in presenza è tutto così semplice? Prendimi gli occhi e baciami forte tutta la notte, il giorno e il giorno dopo ancora, oppure girami intorno o intorno ti giro io, come davanti al ventilatore si confonderanno i nostri capelli. A cosa servono i satelliti se non a far sentire meno soli i pianeti? Ma non basta, dovremmo toccarci, credo io, è quello che muove l’universo, il desiderio di fusione che la vicinanza impone, se succedesse sarebbe un boom un boom boom boom, un uauauauo e l’universo scoppierebbe e scoppierei anche io e chiuderesti gli occhi tu, dilateresti le dita dei piedi e poi rimbalzeresti, stremata, sulle lenzuola sudate.

Foto: © Jo Straube

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Ordino una pizza, ti dico

Domenica è campane e chiese, domenica è letto, testa pesante, gambe leggere; domenica è luce chiara, prime ore del pomeriggio, solitudine di pagine bianche e desiderio d’incontro. Domenica è il treno e il lago, domenica è Chianti in tavola, rosso di prosciutto, pane spezzato, occhi che s’incontrano, tintinnio di bicchieri. Domenica è il tuo mento posato sulla mia spalla, a prendere aria con quel che si può, la strada il motorino e magliette sempre bianche. Stanchezza e vino e così tante cose da dirci che finiamo per farci silenzio. Tu, io, e le ferrovie italiane. In quei paesi dove tutti conoscono tutti, finestre come cannocchiali per vedere senza essere visti lo sporco delle nostre vite imperfette. Se t’immaginassi ora una sedia di vimini, le tue gambe aperte, la gonna corta e lo sguardo incollato al mio, se t’immaginassi qui, a cavalcare i miei pensieri confusi, a farmi ansimare fino alla piccola morte, per spalancare gli occhi mentre mi aggrappo alle tue spalle minute, la bocca dispersa sul tuo collo magro, vedere il muro e accorgermi del bianco. Di guardare il cielo siamo buoni tutti, puoi scriverlo in francese, in inglese, sulle infinite mura del mondo, sai, quel che importa è la coscienza, essere nell’istante, presenti a sé stessi, vivi nel frattempo, verrà il futuro, tornerà il passato, che importa? E il contorno, il mondo che ci gira intorno? Dobbiamo farci i conti mi dici, l’onda ha bisogno della spiaggia altrimenti fa danni. Bagnati come siamo, ti dico, zuppi d’immagini e desideri, mi dici, complessi e così semplici, ti dico, dovremmo non vergognarci dell’animalità dei nostri cuori, pensa al sangue che ci attraversa, ai nervi che si tendono, a quel che avviene di un gamberetto dopo che è entrato nella nostra bocca. Ti chiedo spiegazioni, scuoti la testa, mi baci. Rimaniamo sdraiati, guardiamo il soffitto. Metto della musica, mi dici. Ordino una pizza, ti dico, e il tempo scorre e il muro resta bianco.

Foto: © Giulia Bersani

Autosave-File vom d-lab2/3 der AgfaPhoto GmbH

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Chissà se te ne importa

Mi ritrovo a sussurrare nelle orecchie di altri quel che vorrei sussurrare a te. Dove hai dimenticato paletta e secchiello, dove conchiglie da appoggiare all’orecchio per sentirci meglio? Lasciamo la spiaggia ai gabbiani, ai culi accoglienti ed enormi delle madri delle periferie: sei bimbi tutt’intorno, pasta fredda, tè freddo, pianta del piede bollente e a quanti gradi il cuore? Non parlarmi ora dei rotocalchi, dei ninnoli d’oro, dei costumi firmati delle pause tra l’ufficio e le terme, dei viaggi organizzati nei paesi lontani, dell’amore per i balli di gruppo e dei muscoli del capovillaggio. C’è un amico che mi telefona dice mi sento così solo, lei mi ha lasciato, mi sta lasciando, mi lascerà, non ha più tempo per me gli chiedo e tu, tu cos’hai fatto per lei? Ti è bastato stare, stare, vi siete portati in giro troppo a lungo, farsi compagnia non è l’amore. L’amore cos’è? Mi chiede, io mi rifugio nelle frasi degli altri. Siamo così zuppi di lavoro, del pensiero del lavoro, dell’ansia del lavoro, della gratificazione del denaro, che non abbiamo più strade lunghe e camminate per parlarci, ma luoghi per riposarci dalla corsa, per guardarci allo specchio negli occhi degli altri e vedere noi, sempre noi e noi soltanto, non te ne accorgi? Lo sai che non so stare a un tavolo senza bere nulla, senza fumare, senza mangiare? Parliamo di cosa fare domani, dopodomani e trascuriamo l’oggi. E quando faccio sì sì con la testa spesso è perché non me ne importa nulla. L’Expo? La crisi greca? Le vacanze? Ieri sera al ritorno dal bar, maglietta sudata, non è nemmeno troppo tardi, vado a sentire Celestini, penso che bello. Quello inizia a parlare io lo ascolto, lo ascolto e mi ricordo di com’era una volta, e nel ricordo m’addormento. Al risveglio formiche ovunque, mannaggia alla mano appoggiata al tronco del tiglio, mi prendo a schiaffi, mi rivolto nell’erba, lui continua a parlare, chisseneimporta io penso a te, chissà che fai, chissà dove sei. Avrei dovuto portarti qui tra le amache, tra le formiche, a queste manifestazioni che non si sa se bisogna alzare il pugnetto o nasconderlo in tasca mentre si fa dei carabinieri barzelletta, non è un giudizio, sai? Dovremmo pur riconoscerci in qualcosa, arrabbiarci con qualcuno. Avremmo riso insieme, ce ne saremmo andati sul prato a raccontarci cose, a pronunciare ad alta voce i nostri vorrei, a dimenticarci per qualche istante l’insopportabile nostro sentire. Vesto di bianco da giorni e tu di nero, quando vestivo di nero eri bianca, siamo equilibrio lo sai, fai segno di sì, chissà se te ne importa.

Foto: © David Jiménez

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