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Verrà poi Draxler alla Juve?

Sarà il calciomercato, l’avvicinarsi di settembre, dormire con le finestre chiuse, respirare sempre la stessa aria da troppi giorni. Un treno, rotaie lunghissime, aria condizionata e poi prati verdi, bicchieri di vino e case bianche. Questo ci vuole, cambiare aria al pesce, spostare latitudini. Mi hai scritto proprio ora lo stress è come un bicchiere d’acqua, se lo prendi in mano è leggero, se lo reggi per un’ora è insopportabile. Mollare bisogna, non preoccuparsi dei vetri e del rumore al contatto col suolo, sedersi dove capita, ferirsi coi ricordi e lasciare che il sangue sgorghi un poco, poi il tempo, le piastrine e tutto il resto, il taglio si rimargina e il dolore che porta diventa un ricordo. Certo che l’ansia di non sapere se Draxler verrà finalmente a regalare poesia all’attacco bianconero per me rimane un peso. Verrà il trentuno del mese e avremo chiuso con tutte le dicerie e i discorsi fuorvianti e sarà tempo di fare i conti con quel che c’è, decidere il modulo, dare fiducia al capitano e sudare e sudare negli allenamenti per fiorire in partita e vincere, vincere, vincere non trascurando il bel gioco. È il quinto caffè che mi annerisce lo stomaco, è il terzo sonno dalle tre del mattino, dovresti smetterla, colora di bianco i tuoi denti, dici così, a me, intollerante ai latticini e ai consigli. E mentre tutti tornano noi partiamo, e mentre tutti dormono noi dormiamo. Smettila di cercare l’orizzonte, dici ancora, e io che gli orizzonti li ho sempre inseguiti ora che faccio? Basterà un balcone? Un letto? Una finestra? È inevitabile. Guarda i miei occhi ora nuovi, ne ho consumati un paio o forse più, guardaci dentro e dimmi che vedi. Io ancora niente, sono in rodaggio. Comincio con te, rimani qui, proprio davanti, e prima metto a fuoco e poi mi guardo intorno, così che tutto, questa volta, lo sai, parte da te, che sei mio occhio, mia destra, mio inaspettato orizzonte.

Foto: © Giulia Bersani

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Delle tue guance hai perso il conto dei baci

Dietro la tenda lilla, oltre lo sporco dei vetri, la merda dei gabbiani sul davanzale. Nel vento che muove le cime degli alberi rari, che scuote le scritte americane sulle magliette appese, i raggi di questo sole enorme e pallido, che illumina e non scalda. Non manchi tu è la mia bugia di oggi. Fradici i miei giorni delle tue lacrime maledette, di quel giorno a rincorrerti per tutta via Dante e poi fermarti, scandire il tuo nome, poi i nostri corpi col freno a mano tirato e la promessa di un arrivederci. Non è tempo questo di colazioni lunghissime al riparo delle stufe a fungo dei bar di Brera.

Cosa ti manca? Continui a chiedertelo perché non lo sai. L’amore? Un lavoro? Un figlio? Tu, lo stesso maglione da giorni, le scarpe consumate, trecento e più chilometri in venti giorni. Tu, diviso, viziato, solitario e solo. Tu, col culo pesante e scuro di guardo. Ricorda, ti ha detto lei un tempo, se sei scuro sei luce. Così hai iniziato a incidere la tua carne, a usare il coltello per far forza sullo sterno, liberare il pensiero, essere finalmente quel tu: il sofferente, il ribelle, il divelto? Che senso ha tutto quel sacrificio di sangue se poi il nero scompare nell’urlo e rimane l’abbaglio, wow, urli, wow, finalmente io, io davvero, io! Ma lei ha paura, ma lei si nasconde. Che farai ora? Ora che hai perso tutto, dove se n’è andato il pudore? Gli occhi fanno male, faranno male per sempre. E quel sempre è un mai. Parole inutili.

Tornate qui, maestri miei, sedetevi a corona intorno al mio letto, sputatemi addosso l’imperfezione che vi ha resi eterni, la malattia che vi ha resi grandi. Insegnatemi la sopravvivenza di colui che si è diviso e ora tutto gli passa attraverso, nulla gli resta addosso. Pronunciatelo il vostro ti amo simpatico, lo ripeteremo insieme fino a farne un suono, la litania potente di questo nostro stare insieme. Fuori non capiranno, ma che ce ne importa. Che fine ha fatto il cuore, il nostro cuore? Volevamo estirparlo, dovevamo estirparlo e non siamo stati capaci, perdenti ancora, ci chiamano nullità, lo siamo davvero?

Lo senti il battere del mio cuoricino? Il maledetto suo battere, portalo via, tienilo tu! Dammi la mano, sfiora il mio corpo di carne, le ossa, i muscoli, il pelo. Puoi dirlo, se vuoi, puoi dire: “Sei vivo amico mio bellissimo, amico mio perduto.”

Verrà quel giorno, amorino, che ci ritroveremo ancora in quel caffè del centro, tu prenderai il tuo orzetto, io il mio caffè lungo, mi chiederai se voglio lo zucchero e ti risponderò di no e continuerò a farlo finché te ne ricorderai. Saremo amici allora, l’unica parola che possiamo concederci, mi griderai addosso tutta la frustrazione di questi anni, perché quando parlo non si capisce un cazzo, perché costringerti a fare lo sforzo del vedere oltre, perché dovevi capire oltre il già detto? Perché tutto ho abbandonato, per te, per te soltanto, per me, per me soltanto. Te lo ricordi il giorno che hai perso la pazienza? Mi chiedi. Incrocio indice e medio, te lo prometto, comincio oggi la mia ricerca, aiutami tu, amorino, prendimi per un braccio, prendiamo il primo treno, sentiamoci invincibili, andiamo a Venezia, cadiamo nella laguna, spendiamo tutto e chiediamo l’elemosina di uno sguardo nell’enorme piazza San Marco tra quelle mille colonne che rendono impossibili gli incontri. Poi portami nella tua casa al mare, prendiamo il sole nell’ultima spiaggia, portiamoci gli occhiali neri, salviamo gli occhi perché voglio vederti invecchiare. Poi portami nel giardino delle fate, di giorno tutto un colore, tutto uno specchio, la notte scuro di trucco abusato. E poi dimmi che delle tue guance hai perso il conto dei baci, delle tue labbra invece tutto ricordi.

Foto: © Benedetta Falugi, http://www.benedettafalugi.com.

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I pressapoco della mia lontananza

E poi il vino e pensieri deformi, i tuoi vent’anni e i pressapoco della mia lontananza. Tra studi classici e maledizioni col dito medio in fotografia, poi bluse a fiori, caratteri sparsi sul tavolo del nostro ieri. Tensione verso l’alto e bacino orizzontale sempre in movimento, al riparo dei cuori candidi, delle tende nomadi dei raccoglitori di gioventù. Con gli ideali per cappello, i pantaloni che si arrendono alla presunzione del passo. Andremo avanti fin quando ci fermeranno, faremo fatica a distinguere tra il noi e il loro, concentrati come siamo al presente. Tutto intorno movimenti visibili e invisibili, tettonica zolle e la velocità supersonica delle navicelle spaziali, cantieri interminabili intorno a piazza ventiquattro maggio. Ci addestriamo alla guerra e diventiamo capaci di lanciare soltanto lo sguardo, le nostre visioni mistiche sui canali di stato, quei trecentossessanta gradi di speranze che fanno i tuoi piedi il sabato sera. Faranno fatica a comprenderci, noi fuori dai televisiori, fuori dai bar e lontano dalle piazze, a cercare gli angoli, gli sguardi nascosti e privilegiati sull’oggi. Lingue su lingue penderanno sui nostri soffitti, avremo spalle forti, guance trasparenti. Saremo belli, finalmente belli e sconfitti, diventeremo invincibili soltanto quando sarà tardi, troppo tardi. Impareremo ad amare, terremo in tasca il desiderio irrinunciabile del ricevere attenzioni. E carezze e abbracci, quelli che arrivano troppo tardi, quelli che arrivano il giorno che non te l’aspetti. Tu, creatrice di rane di carta, di barchette da far galleggiare nella vasca da bagno, tu, donna nuda con la sciarpa lunghissima, orchidea blu, tu passo incerto, neo nero, tu, mia simile, amica.

Foto: © Anthony Goicolea

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Dalla collina, il mare

Le tue passeggiate al mattino e poi il bagno nel mare. Camicie azzurre e giacche appese non sono soldati, ma sorvegliano lo stile, la credibilità si conquista in presenza. E poi la parola che conosce le pause, con la schiena che riposa sulla poltrona, accavalliamo le gambe soltanto quando gli sguardi ci rassicurano e l’amicizia fa di una stanza orizzonti. Guardare il mondo dalle colline e poi scendere in città, quel ch’era piccolo si fa realtà, prima cos’era? Magari il cinema, una pizza, quella stanza d’albergo, il lusso di un taxi. Ma tre giorni in terra; ricerchiamo il bello, magari il buono: acciughe, pane tostato e burro, un Martini rosso e due pop corn a Saint German per festeggiare un traguardo. Con l’idea ferma, il tuo passo che si allontana, un saltello sul marciapiede e una mano bianca che si complimenta. Scriverti è aprire la voragine del cuore, rivelare i vuoti e la piccolezza del mio diventare adulto. Dov’è la libertà in tutto questo mio andare? Dov’è il riposo in questa insoddisfazione che sa trovare gioie sorprendenti e poi malinconie infinite? Il luogo, il luogo dicevamo. Ma non lo so, non lo so ancora. Girovago e ospite, io, incapace di quiete, l’orecchio sempre teso, una sensibilità che difetta in concentrazione e d’estate esplode in allergie. Il cappotto, il cappotto, il passo deciso, il capello lungo, la cintura all’ultimo buco. Guardare e poi scrivere, questo solo, faccio del passo la mia collina, mentre il tuo abito bianco, il tuo inchino, il canto, la consapevolezza dei trent’anni è dannazione, poi guardo a te, le campane suonano, ma non c’è fretta, soltanto vita, che chiede disciplina e ascolto, mentre il mio corpo urla, le mie labbra faticano al silenzio. Amici così in queste vite diverse, a ritrovarci in abbracci e pacche sulle spalle, dirci sono contento, ci sei anche tu, ci sarò ancora.

Foto: © Luca Tommaso Cordoni

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Costellazioni

Raccolgo biglie di vetro trasparente e colori accesi nel centro, poi quei ciclisti che fanno uscire le nonne sui balconi come alle processioni, la mia tasca grande e robusta, la sabbia sotto le unghie e quelle pietre levigate dal mare, quasi sempre verdi: gli angeli delle bottiglie di birra abbandonate dai ragazzi degli anni settanta. Così piccolo che mamma mi chiama da dietro gli scogli, rispondo arrivo, raccolgo tutto e arrivo. E mi stanco in fretta di inseguire i grandi, la dita dentro la sabbia, il sale sulle labbra e il volo dei gabbiani che chissà dove dormono.

Che me ne importa del resto. Se io potessi, se io potessi soltanto ascoltarti e guardarti. Non lo sapevo a quei tempi. Ma mettevo sempre da parte una biglia, la mia preferita, in una tasca con la cerniera. Per proteggerla, per riconoscerla.

Oggi non sono al mare, ma c’è luce, hai visto? Non ti sveglierai più in tasca, ma sarai contenta, la testa un po’ pesante. E molti abbracci e baci da guance consumate e fiocchi, calici e bollicine.

Guardo un documentario sulle tartarughe delle Galapagos che quando davanti al muso gli si presenta una grande pietra continuano a spingere finché la pietra si sposta, fino alla morte o fino all’acqua, al nuoto leggero che non conosce ostacolo e porto. Non vedono che la roccia, sentono i muscoli duri, dimenticano il mare e il carapace non serve più, non c’è alcuna difesa nell’attacco. Così le tartarughe ninja si sono armate perché non hanno pietre da spingere né desiderio di acqua, ecco perché ora mi annoiano.

Quale follia riveste i miei giorni e quale lucerna vado consumando, quale mare mi accoglierà quando sarò poi solo a bearmi della curvatura della terra?

Nelle tempeste si vede solo acqua, nella notte ricerchiamo la luce, soltanto al sole appaiono le ombre. Vorrei prendere a pugni l’ansia e ricamare note sonore sul flauto, sulla chitarra appoggiata negli angoli.

La leggerezza sotto al tuo portone, io, come le moke gonfie di caffè lamento di spegnere il fuoco col borbottio, poi fischio e infine brucio nel disperdermi. Il tuo orecchio teso al gorgogliare, il mio piede tra i castagni s’appassiona al muschio, ma l’occhio si ripulisce e le dita accarezzano il dorso degli alberi.

Non penso al domani, è sempre lo stesso giorno qui sulla terra. Arriveranno i venti per confonderci le carte e poi i viaggi, quando non basteremo più a noi stessi, le nostre teste fatte di stelle non ancora ordinate in costellazioni.

Quanto alla legna lasciamo che bruci nei camini, le fiamme salgono al cielo e riscaldano l’aria abituata all’alito di gente infreddolita che rincorre le strade col passo incerto e lo sguardo sicuro. Ho immaginato il tuo pavimento caldo, le tue pareti pulite e quei colori poco invadenti che fanno il tuo mondo. Ho immaginato il bianco barocco e i tavolini all’aperto, poi le granite. Ho immaginato le piazze e il verde, la c aspirata e il vino. Troppo così ho immaginato che se te lo dico aumentano le ansie e la spontaneità fa il suo sacco per andarsene.

Ora, tutto questo mio scrivere non serve a nulla.

Addio malinconia,

non vorrei crepare prima di aver conosciuto i balconi di Cuba

i pianti sonori di Iguazu

i gechi di pietra del sud

Non vorrei crepare

senza sapere il colore del mare

quando il cielo non c’è

se sotto ai vulcani è freddo

se nel tuo ghiaccio c’è un buco

per poter pescare

se dietro alla tua porta c’è una serratura

per poterti guardare.

Poi finestre spalancate e uliveti, vigneti, yeti,

che lieti giochiamo a rincorrerci.

Foto: dalla rete.

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Estivi ritorni

Così storpio un motivo degli anni ottanta e fischietto donando le guance al sole di luglio. Con la disinvoltura dei vecchi lancio occhiate invadenti ai lavori in corso, ai colori accesi delle gonne lunghe e a questo vento leggero che nulla può contro i mozziconi di sigaretta aggrappati all’asfalto.

Le giacche dei professionisti appese alle sedie per le nostre pause pranzo a base di calciomercato. Prendo le vacanze in settembre, d’altronde.

Mentre sulle terrazze si consumano i rituali moderni degli aperitivi noi cerchiamo una scusa per non sfiorarci.

Vorrei evitare di pensare al futuro e mettere radici nel presente. In questi incontri da segni sul collo e catene sulla schiena.

Dei balconi di Lisbona e degli amici in partenza per la Liguria. La tua automobile porta tutto e i film degli anni novanta. Coi western ripieni di pasta alle vongole e i vini aperti lasciati appassire sulla tavola.

Mentre non ci raccontiamo nulla, prendiamo il sole e commentiamo le notizie del quotidiano locale. Lanciamo palloni contro i treni che filano veloci accanto alla collina e gonfiamo il petto per sfidare le onde più grosse e per qualche istante sentirci invincibili e giovani, e tutti insieme per questa grande occasione.

Finiremo per disperderci nell’agosto torrido della penisola, ci scriveremo i nostri come stai su whatsapp, poi la grigliata di ferragosto e i nostri ritorni con tutte le foto caricate sull’Ipad.

Così aspetteremo il matrimonio degli amici, arriverà in fretta settembre e ci ritroveremo più grandi senza accorgercene.

Sulle mie tempie i primi capelli bianchi e la castità dei ventri gonfi delle nostre compagne.

E ti ricordi quando parlavamo di una grande cascina, tutti insieme e vivere dei nostri lavori, una comunità dell’amicizia, l’utopia irraggiungibile della convivenza.

E così ora immagino la notte e quella casa così grande, il balcone sul mare e il piccione viaggiatore del vicino. Bottiglie e bottiglie vuote ad aspettare mattino per suonare nelle campane della raccolta differenziata. Materassi stesi per terra e divani aperti. E puzzo di vita, per quel tempo che scorre così in fretta e che aspettiamo un anno per poter ricordare.

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Buon compleanno, fratello Jack Kerouac

A te che sei nato oggi, alle tue scarpe consumate, alle tue colazioni improbabili, alle guance sporche di nero e alle ferrovie americane.

Le palle lanciate sui campi da baseball, le fotografie in bianco e nero e la mascella squadrata.

Ai tuoi amici bellissimi, all’omosessualità esibita sulle spiagge marocchine, ad Essaouira e al grande sud.

A chi ti descrive come un vagabondo, un furfante, un piacione. Ai film americani e alle attrici bellissime. Alle tue prime serate e agli scrittori che sanno leggere a voce alta. Al bebop jazz della nostra scrittura che prende forma nell’aria e negli occhi e fugge dai classici.

Noi orrore delle case editrici: le frustrazioni degli editor per le nostre ansie.

Alle tue camicie a quadri, alle tue mani forti.

Alle sedie troppo basse, a quelle troppo alte, alla nostra schiena storta. Ai fogli stracciati e dispersi. Al ticchettio della macchina da scrivere. Ai vuoti delle bottiglie di birra, ai rutti sonori, i vaffanculo fuori dai locali, le gonne leggere delle adolescenti e labbra rosse per morire da vergini.

Il beat nervoso della tua voce, le lunghe pause e gli haiku per cercare la pace.

Ti presentavi alle interviste ubriaco per rispondere alle domande insensibili del pubblico adulto. Ti capisco, amico, quando cercavi la beatitudine e ti trovavi davanti il rispetto educato dei tailleur e le cravatte a righe dei professionisti della questua.

Ed io lo so che avresti preferito pisciare dai tetti o il petting spinto tra le auto parcheggiate a fila. E poi il senso di colpa della nostra istruzione cattolica, le ore spese in pigrizia e chiedersi il perché delle performance senza tregua degli altri.

Spaventiamo le femmine con le nostre domande sudate, l’impervia scalata del cuore degli altri mette in conto il sangue.

Tagliavamo pane e salsiccia per rimanere in contatto con la natura. E Gesù il Cristo in croce sui nostri letti, la benedizione alle nostre notti insonni, alle mattine trascorse a riprenderci.

E combattevamo la retorica del cielo, e usavi la parola stella perché prima o poi esplodessimo in luce. La necessità della scrittura come una doccia, i nostri abiti sporchi del pensiero nero e della debolezza incredibile che sapevamo riconoscere, ma non lasciavamo mai.

Che nei primi anni della nostra vita ci vergognavamo ad usare parole come seno, e sesso, e successo, ed ora andiamo di cuore e lasciamo la fica alle bocche degli altri. Che preferiamo i particolari, gli occhiali grandi e le vene pronunciate, le dita lunghe e le unghie curate.

Ti ho scoperto in via Festa del Perdono, Milano di luglio e motorini in festa. Ho comprato il tuo diario al Libraccio, On the Road lo avevo impilato tra le velleità della mia gioventù, tra la mia Africa e il Baobab della savana eritrea.

Che beat è beatitudine, cercare la purezza nelle viscere del proprio io, il sangue in grumi alla nascita e il desiderio dell’amore universale che non riesce a prendere forma.

Per questo versiamo cenere sui pavimenti in legno delle nostre case piccole, chiediamo scusa al mondo per le nostre domande di troppo e raggiungiamo il mare per dare sfogo alla nostra ricerca dell’infinito.

E come le onde torniamo sempre, il moto perpetuo del nostro sentire, ti scriverò ancora, e un’altra volta, una ancora, che per me sei oggi e buon compleanno, fratello Jack Kerouac.

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Quando saremo vaso e fiore avremo sconfitto la morte

Quanti comignoli nel fumo grigio del cielo di Gennaio.                                                                               E tetti abitati, finestre illuminate.

Il ticchettio della pioggia dei giorni nuovi. Coi rumori di casa a comporre melodie elettroniche.

Le serrature chiuse per proteggermi dalla nostalgia delle mie infanzie a cavallo delle siepi. Le corse calciando il pallone sotto al sole di luglio e suonare i campanelli e ridere e poi scappare via. Signora, le mancheranno le mie invadenze.

Rimanevamo colpiti dei mondi che ci circondano, non siamo i soli sotto ai lampioni. Non siamo soli, i treni partono in ritardo e gli aerei atterrano. Penso ai bus notturni per i viaggi di mille chilometri tra le Ande e i piatti stranieri al sapore di conoscenza. L’intontimento per gli alfabeti degli altri.

Non ci capiamo a parole e ora non bastano nemmeno gli sguardi. Sei così lontana che dovrei mettere un . e poi andare a capo.

Le lettere non spedite e quelle che tieni sul davanzale della finestra: le dichiarazioni di umanità nelle debolezze.

La libertà di un ti amo.

L’emozione soffre se non si fa carne, accumula forza come le molle e poi non saltella

                                                                                    se non togli il dito

                 .e le permetti lo scarico

E’ una questione di spinte lo sai, che anche la fisica sa di poesia.

E con la sindrome della donna angelo ci siamo strofinati come si fa con le auto nuove, la tua pelle di daino e le mie corna fosforescenti.

E se mi guardo allo specchio trascuro i contorni e mi soffermo sui difetti.

Dimmi soltanto che quando saremo due ci sosterremo senza farci grucce, dimmi che troverò un volto che accolga lacrime e due cosce per il riposo delle mie vacuità.

Quando saremo vaso e fiore avremo sconfitto la morte.

             E dai nostri capi svaniranno le ombre.

Il popolo nero dell’alba, quando proiettavamo sulla strada le nostre paure e aspettavamo mezzogiorno per schiacciarle sotto ai piedi: un piatto di pasta, un bicchiere di vino.

Gli amici che accompagnano le partenze e la fotografia dei nostri momenti più belli.

La nostalgia non è un momento, la malinconia non è una scelta. E per la gioia levighiamo ancora le nostre estremità, come fa il mare coi pezzi di vetro, come fa il cielo con le meteoriti.

E finiremo per incontrarci,

quando anche il tempo si sarà fatto da parte e ti accorgerai che la porta è aperta, che non ci sono chiavi e per le illusioni lascerai il posto ai maghi.

Foto: Ray K. Metzker

Philadelphia, 1983, City Whispers series

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La festa a sorpresa che io non aspetto

E rivoltarsi nel letto, con le dita striate di viola, gli occhi gonfi e la testa pesante. Col sudore che si scioglie sul naso e le mani dietro la nuca. I ricordi vaghi del giorno prima e questi trent’anni che si avvicinano mentre ho scritto tempo fa che non credo negli orologi e i calendari sono soltanto invenzioni numeriche. Vestito a festa ti chiamano a cena cantore di vino ed oblio, afferra il bicchiere e bagna le labbra, baci di donna regalo di nuvole bianche. E sottobraccio Baudelaire, Kavafis, Khayyam e i periodi lunghi di fratello Kerouac, e poi pensi chissà, meglio sarebbe un mago o un clown per animare una cena di luglio. Immaginarsi panzuti dottori, donne in tailleur e figlioletti in jeans eleganti con la maleducazione in cintura. E tuo fratello, quello vero stavolta, ti dice che ti accompagna lui, che dopo le parole dei grandi arriverà il tempo della nostra tavola e di quelle discussioni lunghe e vino e sciocchezze e parlare sciolto, le tirate del ti racconto e le riflessioni sull’oggi. Saran signori e poeti, ma il lavoro è un lavoro, siamo in ritardo, quell’autostrada agli ottanta all’ora dico sei scemo e poi che fai, io lavoro, lo sai? Il suo cellulare che vibra, le mie idee sul presente, vorrei un posto tra gli scaffali delle librerie, saprei spolverarle a dovere e issarmi con grazia là sul soffitto e dall’alto balzare sulle teste sciocche delle letture di massa, saprei cadere e dormire sui pavimenti per gli inchini delle giovani e i loro vestiti in fiore, larghi e leggeri. Ti porterò sulla mia Vespa, ti porterò al lago, là dove non si fa il bagno, là dove si china il capo. Accelera, dai, forza, ci siamo, che bello, c’è il verde, le viti, i prati fioriti. T’accoglie lo zio, dice tranquillo, dai vieni e poi seguimi e qualcosa non torna. Un cartello, un saluto, le mie foto d’infanzia, il tratto di mamma, e poi ecco, servito. Gli amici di sempre, sorpresa, frastuono. Dai forza, via presto, che scemi, che stronzi, io a casa ritorno. La mamma, il papà, la nonna, la zia, la tavola lunga per le parole che non so dire. Esplodo in sconcezze, mi siedo, dai bevo. Le feste a sorpresa degli anni duemila, col tavolo lungo e la tovaglia bianca, il vino in brocche e poi carne e la gincana dei baci che non fai un discorso che sia uno, il bicchiere in mano e le labbra bagnate, non c’è parola che valga presenza. Voi qui, io così, arrogante e indifeso, presuntuoso e sciocco, poeta e buffone, ubriacone. Io provinciale, io amico, io figlio, fratello, nipote, ragazzo. E libertà, non c’è paura, né freno tirato, così come appaio io sono per voi che frequentate da tempo il mio volto e le fisarmoniche dei miei fianchi. Che intorno alla tavola si contano affetti e tiri tardi, coi fuochi nel cielo e gli abbracci e che dire? Il silenzio che ho dentro, l’intimità che esibisco soltanto al riparo dei pixel e la mia festa che non vuole vetrine. I grazie sì, non siamo poi così soli e alzerò il bicchiere ancora e pioggia di volti e vicinanze per quei ti voglio bene che si liberano dalle mie guance come risvegli, uno e più al giorno. La cura e l’attesa. E poi viene il sonno.

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In tempo per i girotondi

I vuoti a rendere dei nostri passati stanno sull’attenti a ricordarci quanto abbiamo bevuto. Seduti al tavolo l’esercito delle sedie che ci chiama a raccolta. Noi che sbraniamo paste d’annata e ripieni al ragù di carne. E inneggiamo a questa figa che sta sulla bocca di tutti e abbiamo perso di vista. E i pensieri ci sporcano le magliette, le scritte mitologiche dell’adolescenza e l’acqua frizzante rimane nel frigo che qui si celebrano solo le nozze di Canaan. Che lei non c’è e tu ci pensi ancora. E quando brindiamo ci guardiamo negli occhi. I profitteroles con l’ancòra del ricordo che non sappiamo tirarci addosso. Saremo come le briciole e verranno a raccoglierci. I nostri lavori a tempo determinato, i progetti per la conquista dell’Asia e i tatuaggi per sconfiggere le paure. I legami che non ti ho detto e le camere d’albergo col bidet per ripulirci le labbra e parlare d’altro. Delle nostre vacanze finite al mare. Il muro di Berlino della famiglia e i saldi per le stanze in affitto. L’ultimo moschettiere si è depilato il petto. I passeggini parcheggiati nei corridoi e i Peter Pan in giacca e cravatta. Uno per tutti e tutti per mano che siamo ancora in tempo per i girotondi.

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