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Le occupazioni studentesche delle librerie

Li vedi dispersi e decisi. Canottiere larghe e sciarpe, e cartelle datate, scritte coi pennarelli neri e spray rossi. Occhi lucidi, appassionati e puri. Lunghi capelli neri. E bionde rasate sui lati. Jeans strappati e pantaloni eleganti a risvolto. Negli zaini libri dalle copertine ingiallite e la critica ai compromessi storici.

Tiravamo sera con l’accendino a consumare i polpastrelli, le dita gialle e smorfie eleganti per soffiare via fumo denso e fare chiarezza nelle nostre notti. Ci dicevamo del senso di essere al mondo, vedevamo tramontare i nostri vecchi e per le nostre idee facevamo ricorso alle date incise sui cartelli intravisti nelle foto in bianco e nero. La barba incolta di mio padre e il pugno alzato a rivendicare il diritto di aprire la bocca e svelare il rosso della lingua.

C’è l’io in formazione, la testuggine organizzata delle battaglie perse, quei megafoni e lo stile vecchio dell’arringare la folla. I motivi va a finire che son sempre gli stessi.

Non ci vedo del bello nelle occupazioni studentesche se non il lucidare le proprie domande e cercare risposte nel collettivo, invocare una giustizia che non si conosce. Il bene comune è un campo da calcio per trascorrere i pomeriggi, la fontanella per bere e i contrasti duri. Le cadute a sangue sulle ginocchia e l’esercizio dei calci piazzati. E sentimenti contraddittori; vorrei dirci di non stancarci, vorrei dirci che è bello credere in qualcosa, un qualcuno, almeno in noi stessi, negli ideali di altri che la nostra breve esperienza ancora non coglie.

Mi piacerebbe ci fossero più case aperte e meno assemblee. L’abuso dei beni comuni. Una libreria è una libreria, e ne sono rimaste poche. Non facciamone slogan, non mettiamoci i libri di un’epoca fa e odore stanco di pantaloni a zampa. Per sconfiggere i pachidermi bisogna farsi furbi e sfidarli su un campo che non è il loro. Portiamoli al mare, facciamoci orche e impariamo l’agilità tra le correnti. Meravigliamoci del giallo fosforescente del plancton e non diamo tutto per due casse semidistrutte, la parata dell’orgoglio dei diversi e quattro stracci senza in tasca neanche più un quotidiano.

Poi quelle divise, il casco a bloccare il pensiero, a cercare il potere nell’ordine, il comando del comandato, la servitù accumula rabbia. Noi figlie e fratelli delle stesse madri. La spesa al mercato e mettiti la canottiera che prendi freddo. Noi seduti agli stessi banchi di scuola ora ci facciamo cariche opposte e poi ci lamentiamo quando siamo i primi a offendere e così fieri di mostrare il taglio sul viso.

Maledetta la comunicazione e maledetta questa spettacolarizzazione dei nostri vorrei.

Che stiamo male è scritto nei nostri rapporti d’amore, nel non lasciarsi stare delle nostre vene e negli stupefacenti che inseguiamo la notte. Diplomati in canti e in letture, chiamiamo compagni coloro che scegliamo fratelli. Quando poi arrivi a casa ti togli le scarpe e cammini piano per non far rumore, poi tiri le coperte fin sotto al naso, respiri forte, guardi il soffitti e dici: sono un combattente, un guerriero. E provi a disegnare un’ideale sulla parete, e va a finire che non ci riesci, che un po’ copi e un po’ ti chiedi se vale la pena stare ancora sull’altalena, ma poi ti spingono e senti l’ebrezza del volo e chiudi gli occhi perché hai paura e non puoi sostenere la vista dall’alto. Così cambi discorso e ti ritrovi bagnato, sudato, e aneli mappamondi di carne per distendere le tue mani stanche e bocche accoglienti per il calore che cerchi e che non trovi più.

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Corrimi incontro quando scendo dal treno

E poi ci sono le redazioni, gli orari frenetici delle ultime notizie e l’accavallarsi di stampe su fogli A4 e banchi spersonalizzati, le foto dei nostri figli e i cioccolatini da mettere in tasca alla moglie, pile di post it come arcobaleno.

Le luci bianche di neon asettici per ricreare la luce del giorno e dire che sì, il lavoro nobilita così tanto che non arriverà un’altra notte, non dormiremo mai più pensando ai nostri figli che a 16 anni si rasano i capelli sui lati e domandano i diritti del terzo mondo e poi una scuola che permetta loro di entrare nel giogo del lavoro.

A 18 anni viaggiare, sperimentare dolcezze infinite e deserti acidi, e poi amare e trovarsi la sera a suonare, a scambiarsi le idee perverse di mondo e la libertà di fumare sigarette lunghissime lontano dagli occhi dei grandi. Quando tutto questo sarà finito piegherete la testa al denaro e vi ritroverete gobbe in mezzo alla schiena, vittime voi degli slogan e dei megafoni.

Che a 20 anni bisogna pensare a sé e trovare passione e credo e desiderio del fare e i bisognosi verranno dopo, non pensare, incontrare, le riflessioni sugli altri valgono poi, in nascita, in morte e in maturità.

Tornare a casa con la borsa a tracolla, realizzati, schivi, comprare una pizza in cartone, magari una birra, un sushi d’asporto. La polvere del mondo fuori di casa, la porta chiude bene, doppia mandata, non verranno a interromperci questa sera. E così il beat elettronico di Deezer e i piedi nudi sul pavimento per dirci ancora una volta che anche le scarpe sono una prigione, figurarsi i muri.

Nel sesso gli sfoghi, guardavi ai due buchi come a una liberazione e mi insegnavi a fottere le regole soltanto col movimento perverso della tua bocca. Non quello cercavo, volevo le tue braccia dietro la schiena, la tua bocca capace di pronunciare parole che io neanche immagino, vederti inventare tramonti di bottoni e laghi di carta stagnola.

Verrà un giorno in cui faremo insieme l’albero di Natale, andremo a prenderlo in foresta e ti mostrerò il luogo in cui sono nato.

Non voglio parlare di quel che succede nel mondo, indossa il vestito leggero, quello che si muove col vento e corrimi incontro quando scendo dal treno.

Foto: Charles Moore

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ZèroZèro

In quel paese dal nome impronunciabile, sconosciuto ai galli eppur famoso tra donnole e volpi, sovvertiremo il banco dei vestiti d’occasione io e te. Ci vestiremo a futuro cominciando con la nudità dei nostri corpi imperfetti. Mentre muoiono le provocazioni dei blog e si organizzano manifesti e stazioni per riperdere il treno del lunedì mattina.

Noi pendolari del tempo deciso, auto tirate a nuovo in docce moderne e schizzi bianchi su lenzuola profumate. Sfioriscono i gerani e il bianco delle margherite veste di nozze il verde dei prati. Mietono lacrime le stanze vaticane ed è gioia. Si impiccano i potenti agli sms erotici e il fascino incestuoso della lussuria. Poi canti semplici di certi cori alpini.

E’ così umana la sconfitta che non serve marchiarti a fuoco le reni, il numero dispari delle dita della mano destra e le tue gambe in coppia. Io sempre in cerca dell’Uno.

Con le macellerie che inventeranno nuovi nomi per le nostre carni infilzate a ganci color alluminio, i nostri denti strappati e le corde vocali vendute in grappoli; quando saranno gli animali del sottobosco a cibarsi di avanzi, e venderemo le tavole delle nostre leggi e libereremo la famiglia dalla colla gialla che la trattiene insieme. Che lasciavamo la città in cerca del bianco delle piste da sci e rimpiangevamo l’Ovomaltina di risvegli capricciosi e potenti. Il maestro di sci per il superamento in slancio delle nostre paure, il naso ghiacciato e l’odore forte delle nostre estremità consumate.

Le tue paure a nominare la gioia.

Quando mi hai domandato delle correnti e tiravo in ballo il ’68, dicevi sarebbe meglio non esistere proprio per niente, quando disegnavo le tue labbra sullo specchio e mi inventavo baci a cavallo del gomito, il dolce sale del tuo collo nudo.

Poi strade lunghe e Parigi di notte, l’insegna al neon del bar zèrozèro e le melodie accentate dei buttafuori neri. Ti dipingevo gli occhi di scuro per pensarti malvagia e disegnavo sulla strada lo spazio vuoto tra i tuoi denti bianchi per camminare nella tua bocca e arrivarti dentro.

Quando soffocavo soltanto per pochi secondi e diventavi ricordo, di notti insonni e di amicizie trascurate, di seni tondi e canottiere a righe, di camminate infinite prima del rosso e verde dei semafori, il giallo dei lampioni e poi il mattino. Si spengono le luci artificiali e quel che resta è una maglietta sudata e patina bianca sui lati della bocca. Lumache nelle mutande e voglia di scriverti e chiudere gli occhi e zaini rosa e cordoni blu, campanelle di scuola e clacson ed auto e zuppe le uscite delle metropolitana.

Immagine: opera di Lucio Fontana.

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Le tue anche larghe, le mani tagliate dal freddo

Per le parole indispensabili che non ricordo.

Con l’arrivo dei container, le stive piene delle nostre generosità: quintali di pasta e scatolette e dita lunghe infilzate nella coscienza, provocarci il vomito per stare meglio: la bulimia delle società di mutuo soccorso.

Poi le manifestazioni per la raccolta differenziata delle identità sessuali e le rimostranze delle spirali attorno al modello precostituito; le moda fa il suo giro e poi ritorna, mi dicevi. Un conto è il vestire e un altro la libertà, rispondevo dall’alto delle mie Clarks. Che differenza fa? Sei mai stato in una grande città? Non c’intendevamo mai sui concetti fondamentali e così ti baciavo solo per farti silenzio. Distruggere la legge con la fede, i poteri forti con i nostri credo.

Parlami ora dei naufragi delle rivoluzioni senza violenza, delle bandiere a mezz’asta e delle lobby delle armi. Noi credevamo nelle barbe lunghe del Sudamerica, e notti di lunghi coltelli e avanzate nei boschi per il nascondimento delle norme d’igiene del belpensiero.

E ti dicevo che l’educazione non fa signori e che i modi buoni nascondono piccolezze. E mi guardavi storto e non sapevi che fare, tracciavi linee a matita e ci scrivevi di fianco un significato. Cadevano le nuvole sulle mie palpebre, che il cristallino non è soggetto a rughe, ti dicevo, il mio sguardo rimarrà sempre bello, ti promettevo.

E continuavi a nasconderti, le camionette si muovono tra le ricerche di mercato e l’ignoranza delle interviste. Quando ti ho detto che seguo il calcio hai alzato le spalle, e mi citavi gli Afterhours col loro paese reale.

Mentre ricalcavo sui vetri quel che è rimasto delle copertine dei miei pensieri sconnessi facevi visita agli alberghi del sud, usano ancora le moquette? Mi chiedevo io. E a furia di scontri siamo finiti così lontani che se non ti avessi legata alle guance finirei per dimenticarti.

E se fossi capace di fotografare vorrei ritrarti in solitudine sopra un letto sfatto, un mattino; i colori vivi e le ombre, l’espressività senza uguali del tuo sguardo disperso. Che appoggi gli occhi sul davanzale quando fai sintesi della realtà, schiacciare un pulsante e imprigionare l’istante. Che ne è di ieri, che importa del domani?

Ci siamo fatti grandi in vagare: dai girotondi al vagabondaggio. Per le commedie italiane che tengo sotto il braccio, perché ogni volta che ti siedi a tavola ti dici ingrasserò e dopo il primo boccone lasci le redini e poi ti senti in colpa.

Guardiamo il mare per guardare noi, ti dicevo. E mi prendevi a schiaffi, la vuoi finire con tutte queste liriche? La vuoi finire con la poesia? Pensa di meno, vivi di più.

Noi siamo quel che facciamo. Siamo quel che guardiamo. Così ti portavo alle mostre e ti preparavo il pranzo e aspettavamo il sole per arrampicarci ai vicoli di Montmartre e il freddo per far delle nostre gole camini accesi. Il fiato corto degli altri e tu che espiravi e inspiravi come fanno le donne gravide, che generavamo futuri a ogni passo e non lo sapevamo.

E ora lo sai perché non chiudo più i miei pezzi con una frase a effetto, ora lo sai perché ho bisogno di realtà e tatto e sostanza.

Le tue anche larghe, le mani tagliate dal freddo e le occhiaia del primo risveglio.

Photo: Philip-Lorca diCorcia

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Chiameremo nostra figlia Domani

I centesimi in tasca per quelli che chiamiamo giorni dei saldi. Se fossi giovane ti direi che non vendono la felicità, che è una parola che trovi nelle discariche, che disegni ancora i tuoi geroglifici sulla mia auto posteggiata male. E mentre ti fotografavo ti dicevo che sotto agli archi sembriamo più piccoli e per i nostri trionfi dobbiamo far ricorso alle infanzie. Quando delle adolescenze preferivamo non parlare. E quando ti scrivo continui con le tue frasi di una riga e alla fine metti sempre un punto. E io lo so il perché, ma non ho mai avuto il senso della finitezza, la reincarnazione dei nostri desideri. La signora coi capelli bianchi a far la fila per quattro yogurt e una bottiglia di rosso, che senso ha essere giovani così mi dicevi e ti guardavo dicendo di dimenticarti i tuoi ieri, di non pensare al domani. Coi sacchetti della spesa bucati, quando cancellavamo la strada con la carta igienica e non sapevamo che nostra figlia, sì, nostra figlia, si sarebbe chiamata Domani. Donami ora i tuoi organi esterni, donami ora i tuoi organi interni. Suoniamo insieme, quattro mani e un piano-cocktail ancora da inventare. E intanto Belleville ci aspetta con le sue brasserie sempre più sporche, gli occhi unti per quando ti ho sorpreso in pianto e i tovaglioli bianchi che non mancano mai.

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Il mio bacino e il tuo culo stretto

Mi volti le spalle per prendere sonno dopo le telefonate impossibili e la ruvidezza dei tuoi gomiti. Non c’è il tuo alito a riscaldarmi le labbra, il mio bacino e il tuo culo stretto, non ci facciamo guerra per i confini.

Coi tuoi sussulti dentro a una notte fatta di tende tirate e letti sfatti. Le istantanee che ti scattavi da sola, come se tutti bastassimo poi a noi stessi.

E ti facevo domande sciocche soltanto per sentirti ridere. Che quando siamo sdraiati la nostra voce ha una pasta diversa.

E ti incollavo sul petto le scritte fosforescenti delle mie voglie, poi mi chiedevi di pulirti le spalle e di sistemarti i capelli.

Tra i nostri discorsi sulla violenza della parola amo, quando alzavi le sopracciglia, trasformavi le labbra in tunnel per inghiottirmi e rimanevi incastrata: un buco sulla guancia e poco sangue sulle lenzuola.

Moriremo d’insonnia prima o poi.

Dei tuoi arrivi e delle mie partenze.

Dei nomi che continuiamo a sottrarci.

E col cucchiaio di legno fare la guerra, rompere il ghiaccio delle tue sopracciglia, far piangere la tua conchiglia in tinta con le mie dita e mettere in sottofondo l’armonia tentennante dei carillons.

Quando la giostra gira soltanto per il padrone e i bambini la guardano con le mani sugli occhi e poi nel naso; a cavallo delle spalle dei padri ci facciamo largo tra la folla.

Noi che chiediamo libertà senza saperne il significato e nei discorsi traduciamo in energia le nostre pulsioni. Vorrei vedere ancora la tua camicia a quadri, le scarpe che d’estate non indossi mai per ritrovare il senso di questo tempo che ci scavalca, dove andremo noi non ci saranno strade era una frase di Ritorno al futuro.

Leccami          e             fottiti,                   amami e soffocami.                                                     Leccami e fottiti, amami e soffocami.

Solo a parole non si va da nessuna parte lo sai? Con l’Uniposca rosso ho scritto ora et labora sullo zaino Invicta per ricordare agli hipster che non c’è possibilità alcuna di dar tregua al pensiero durante le traversate, i coast to coast in queste città ricche d’invisibili.

Chi cade a terra può soltanto essere mangiato, come le mele, nutrimento e quiete.

Dal frutto il seme nelle favolose canzonette della scuola elementare, dal frutto il seme, che se non cadi e non ti fai assaggiare, poi non fai fiori, non diventi albero, non metti radici.

E poi sei bella, te lo scrivo ancora, te lo scrivo così, perché val la pena di ricordarcelo quanto sei bella.

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Prima o poi

Di quella volta che somigliavo a Garrel che non ho i suoi fianchi stretti il naso lungo per farti salire sui miei balconcini alla francese, fumarci l’ultima sigaretta nell’inquadratura della mia finestra. Come in quella foto di Ray Man saremmo albero e sole e non sarà un supereroe a prenderci in braccio per i voli rasoterra dei nostri mozziconi stanchi. E consumiamo la vita con la rotella dell’accendino che traccia solchi sui nostri pollici opponibili. Le nostre impronte digitali perché qualcosa sta cambiando mi hai detto con le stagioni che si confondono le piazze in fiamme le camionette come tanti trenini elettrici e piff puff paff coi sassi dei nostri incidenti le vernici rosse pop e per le nostre provincie i tubi colorati del Boburg. Che giocavamo alle carte, i segni silenziosi per non comprenderci e non si è mai visto che un due di picche batta un cavallo. Il potente vince il potente diceva mio nonno il resto è contorno, il resto è di mazzo, per i processi sfiorati le morti scontate i mancati imbarazzi santi imbarazzi! Quando ci si insultava sei un pirla, due sberle, un rosso e questo era tutto. Poi sulle piazze con le panchine accoglienti, il vento freddo e quelle sciarpe di feltro a raccontarsi dei c’era una volta la laurea dei nipoti e quella volta. Come è raro il presente in vecchiaia, è ricordo e futuro per gli skateboard senza ruote di mr. McFly e il ballo liscio delle orchestrine come son bravi come son belli che se guardi da lontano ti sembra un film, le carrellate infinite di Tarkovskij per i nostri sogni ad occhi aperti. Ti hanno messo delle gocce tra le pupille che non ci vedi più. Per quello sguardo che mi è rimasto aggrappato alla sciarpa. Per la caccia al tesoro le librerie di Milano le commesse incompetenti leggerò a bocca aperta come si fa coi poeti. Guarderò a lungo come con i quadri 3D mille e mille contorni e poi più guardi più vedi più leggi più sai. Per gli orizzonti vicini, le linee oblique le colonne vertebrali dei palazzi e la tua schiena mentre ti allontani. Per la nostalgia dei lillà, le favole che dovremmo raccontarci più spesso che prima o poi si avverano i tuoi prima o poi, prima o poi.

Foto: Ray Man

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