“Vertiginosa, dolce, le più belle caviglie delle vostre meravigliose bellezze non potevano reggere il confronto con un atomo della carne di Maggie nella cavità delle ascelle, tutti i loro occhi, i diamanti e i vizi nessun confronto con la mia personale e intensa visione di Maggie polvere di stelle.”
Sono parole d’amore, di visioni intense e personali quelle che mi vengono in mente oggi. Maggie Cassidy è il suo libro preferito, uno dei tanti a dire il vero, l’unico però dalla prosa che le appartiene e appartenendo a lei appartiene anche a me. Lei è una mia amica, un’amica di quelle che ce ne sono una e basta che le incastri al cuore e quello sanguina ma poi si abitua al chiodo e se lo togli comincia a sputare sangue qua e là e poi muori perché così è la vita in solitudine, un disfacimento lento farcito di cinismo. Sono passati 46 anni dal tuo ultimo giorno, amico mio, e le parole che di te ricordo son quelle dell’amore. Sarà per la mia età, trent’anni che saranno mai, diresti tu, alza il culo e vai a gioire, amico. Che “Non abbiamo tempo, è una notte eccitante in cui sta accadendo tutto non solo a te ma a tutti quanti perché sta accadendo a te! Siamo raggianti, sazi, malati di felicità.”
La felicità come malattia, come l’amore. L’ho realizzato ieri a notte inoltrata mentre il mio motorino ronzino di ferro mi riportava a casa sfilando le rotaie dei tram. Sono guarito, Neve non è più, o almeno, è ancora e sempre sarà, il lungo inverno del mio cuore bianco. Sono solo e ramingo ora, pugni chiusi e rovinati per le battaglie con lo specchio, sguardo ancora sporco, quanto ci vorrà per lavarmi l’anima? Vorrei parlare a tu per tu, io e te, chissenefrega dei cantanti, chissenefrega dei filosofi, mi annoiano, sai. Tu e i tuoi campi infiniti, i viaggi coi pantaloni sporchi sulle ginocchia le camicie tese tra le tue spalle larghe. Tu che mi inviti alla felicità e mi assomigli in sentire e profondità e debolezze e perdizione e disordine. Il tuo alfabeto mi scardina le costole e arriva a bussarmi alle viscere. Io ti comprendo, tu mi comprendi. Sei annegato nell’alcol, non ce l’hai fatta e potrò mai fartene una colpa? Se fossi vissuto più a lungo ti avrei cercato come un fratello di cui s’ignora l’esistenza fino alla rivelazione improvvisa e alla rincorsa. Avremmo bevuto, questo lo so, poi lunghi silenzi, lo sguardo basso sui culi delle cameriere e delle passanti, sulle caviglie fini che ci ha disegnato Truffaut, basta così. Stare insieme e nulla più. Avremmo parlato disprezzando qualsiasi cosa perché è il nostro modo di amare, la nostra dolcezza, viene fuori così, come gli astici, noi.
È una stronzata scriverti ora, nell’anniversario della tua morte, il punto più alto della tua debolezza. Ma i pensieri degli uomini hanno bisogno di appuntamenti, ieri tutti sono impazziti per l’anniversario un futuro di fantasia, io impazzisco per tutto quello che mi è vietato vivere, per la difficoltà dell’amore, per quel calore che soltanto la tavola sa dare. “Vuoi sederti qui, con me? A fare cosa? Nulla. A passare il tempo. A stare nel tempo.” Che importanza ha tutto quello che veloce scorre intorno quando poi un paio di caviglie, capelli neri lunghissimi e colori pastello ci fanno perdere il senno?
Amico mio, carissimo, amico mio, compagno, nel paradiso di tutti i paradisi tu sei perché là sei sempre stato. Se siamo nati così, imperfetti, indecisi, irascibili, amanti dell’alcol e dell’amore bianco, orfani della grazia, travolti dalla nostra sensibilità, irresponsabili amanti degli esseri umani, seguaci del viaggio e ricercatori saltuari del silenzio, se siamo nati così l’importante è riconoscere un nostro simile per non sentirci soli. Tu sei, sei stato, ci sarai, chissenefrega della retorica amico mio. Ti vorrò bene oggi e ancora e ancora.
Marco
“Conoscevo gioie non per nome ma perché mi attraversavano il petto che raggrumava il sangue caldo e scomparivano senza aver conosciuto nome, ignote, non comunicate ai pensieri di altri ma ordinate nello stesso modo e quindi come i pensieri del negro, intensi, normali. Fu più tardi che ci gettarono giù dal cielo apparecchi radar per confonderci i sensi. Basta con gli eccessi di Rimbaud! Piansi ricordando il bel volto della vita quella notte.”
