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In morte di fratello Jack Kerouac

“A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione.”

Era il 22 ottobre 1969 e moriva Jack Kerouac. Era il 22 ottobre 1969 e tornava alla vita Jack Kerouac.

Fu il successo a ucciderlo, una solitudine invasa dalle telecamere, dai viaggi su aerei di prima classe che non facevano mai un ritardo e cosce sode di hostess ammiccanti, litigi a causa dell’ubriachezza e il peso troppo grande dell’essere diventato un punto di riferimento per una generazione, il padre di un movimento chiamato beat che comprendeva ormai hipster, capelloni e debosciati tutti e aveva perso così la sua identità profonda. Un movimento che considerò fallito, ne uscì come un santo, martire della sua stessa aspirazione all’altissimo.

La morte lo colse al culmine della vita, quarantasette anni per lui che visse molto e scrisse molto, e possedeva verità di storie da raccontare e strade da attraversare. Gli chiesero che ne pensi della guerra in Vietnam, rispose evidentemente alterato dall’alcol che ai vietnamiti piacevano le Jeep, il desiderio era la causa del conflitto. Se una donna lo intervistava provava a sedurla, ma quale seduzione? Soltanto una spinta alla follia delle intimità, alla complessità della vicinanza. Non solo un su e giù di sessi come alternativa alla solitudine della notte, ma un incontro tra anime nude.

Bisogna essere come Jack per capirlo fino in fondo o almeno cercare nelle tapparelle abbassate uno spiraglio di luce prima della sveglia e delle otto ore del lavoro quotidiano. La beat, non era soltanto droghe, eccessi e sessualità esibita, era incontro, stile non artefatto, prosa musicale, tensione assoluta verso la beatitudine, e tutto il resto solo chiacchiere, modaiolo vociare. Non esiste un’estetica che prescinda dal sentire, la parola beat cerca l’armonia e parte dalla verità dell’uomo, testimonia la sua infinita debolezza nella ricerca di una salvezza beata. Lontani i dandy nei loro pantaloni stretti e stirati, lontane le camicie chiuse all’ultimo bottone, sfilano villosi petti per le strade d’America e le spiagge del Marocco. L’occhio furbo di Burroughs, l’urlo liberatorio di Ginsberg, tutti quegli amici che in vecchiaia portarono barbe lunghe e i cui tratti del viso assunsero dolcezza.

Anche Jack fu un uomo dolce, pauroso, fu Jack un uomo rude, coraggioso, sportivo. Amava sua madre al punto da confidarle tutta l’allergia alle scrivanie degli uffici e la sua difficoltà nei rapporti duraturi, quando bastava una piega del mignolo a farlo innamorare. Poi colazioni a base di uova e bacon e notti insonni a battere sui tasti, poco equilibrio nei giorni, momenti di lucidità per scrivere un diario che assomiglia a un Vangelo da tenere sempre sul comodino. Domande sul senso.

“Qual è la tua strada amico? La strada del santo, la strada del pazzo, la strada dell’arcobaleno, la strada dell’imbecille, qualsiasi strada. È una strada in tutte le direzioni per tutti gli uomini in tutti i modi.”

Jack parlava così, in molti pensavano recitasse, spesso capita così quando non c’è distanza tra vita e alfabeto, si rischia di divenire incomprensibili ai più. Kerouac era la sua parola.

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Poteva una donna prendersi carico di tutta quell’irrequietezza, di un desiderio per la novità delle esperienza, di un’idea di rifugio che non è casa, ma viaggio, di un’interiorità che non rimane nascosta ma esplode in parole? Poteva una donna non rimanere affascinata dall’eloquio profondo e a tratti surreali, da un corpo da Cristo avvezzo ai piaceri, poteva una donna non temerlo e allontanarlo fino a relegarlo a un’infinita solitudine?

La scrittura era necessità salvifica, consolazione e anche professione, contava le battute scritte ogni notte il fratello Jack, correggeva, rifiniva e pensava: quando pubblicheranno i miei libri e non dovrò più preoccuparmi di guadagnarmi soldi per lo sconosciuto domani, potrò bere birra di qualità e far riposare la testa su un cuscino, quando avrò il denaro necessario per non chiedere l’elemosina a mamma, quando lei mi vedrà felice e sarà consolata in vecchiaia, quando… quando poi tutto arrivò non seppe reggerne l’impatto. Il suo ultimo romanzo fu Vanità di Duluoz, cambiò stile, meno istintivo, più semplice, ricordi di infanzia, la tensione verso la grande gioia ormai depotenziata, non guardava più avanti Jack e tirò fuori una prosa stanca e sofferente, poi non scrisse più.

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Diventò una star in vita questo un cantore dei vinti e della sconfitta. Non ebbe mai paura di mostrarsi fragile, beveva e beveva perché non si sentiva a suo agio nei salotti, quando abbandonava la strada per rifugiarsi nella sua stanza fatta di letto e scrivania il mondo si faceva troppo distante fino a divenire irraggiungibile, inabitabile e per questo insopportabile. L’unico rifugio, oltre alla carta, oltre alla strada, era la tavola con gli amici fidati: lo stesso alfabeto, lo stesso sguardo, fare notte a leggere poesia, confrontarsi su qualsiasi cosa, diventare surreali in discorsi e droghe e alcol e prendere sonno senza coscienza. Perché la coscienza fa impazzire.

“Sono hip, ma non esibizionisti, intelligenti, ma senza pedanterie intellettuali fin nelle dita dei piedi e sanno tutto-tutto su Pound eppure non la mettono dura e non si parlano addosso in continuazione e sono tranquilli e silenziosi come tanti cristi.”

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E alla mattina, lucido e provato dalle notti, si interrogava sul perché delle azioni quotidiane, della riflessione buddista, delle pagine del Vangelo e di un Cristo sempre più modello di vita:

“Una tazza di caffè e una sigaretta, perché fare zazen? E da qualche parte c’è chi sta combattendo con spaventose carabine, le mani incrociate sul petto, le cinture appesantite dalle granate, in preda alla sete, alla fame, al terrore, alla pazzia.”

E provava a rispondersi mentre tra gli haiku cercava la semplicità.

“Il cielo è blu perché tu vuoi sapere perché il cielo è blu.”

Poi mille e più propositi per una vita felice: “Inoltre oggi ho deciso di non ubriacarmi più, almeno non nel mio solito modo. E’ strano che non ci abbia mai pensato prima. Ho iniziato a bere a diciottanni, ma adesso, dopo otto anni di sbronze occasionali, non lo tollero più, sia a livello fisico sia mentale. E’ stato quando ero un diciottenne che la malinconia e l’indecisione si sono impadronite per la prima volta di me, di certo esiste un legame tra l’alcool e questi stati d’animo. Le ubriacature bloccavano quella che potrei dire l’andatura del mio carattere. Quando sono sbronzo crollare spiritualmente e mentalmente diventa la cosa più facile del mondo. Allora basta. Ci vorrà del tempo, però, prima di riuscire a tener fede a questa promessa, ma devo farlo. Sembra che io abbia una costituzione che non regge l’alcool e ancor di meno l’idiozia e l’incoerenza.”

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Immaginate ora Jack, seduto al vostro tavolo con la camicia a quadrettoni, la sigaretta accesa, il bicchiere sempre vuoto, che parla della luna e del sistema solare, delle serate ancora da vivere e di quelle già vissute, non mostra strade né prospettive, vi guarda e non sorride, ma lo sentite così vicino e presente, incapace di farvi dimenticare quella solitudine malinconica che non vi lascia mai, ma capace di stare al vostro fianco e di offrirvi una spalla e ascolto e racconto. Jack è più di uno scrittore, è compagno, fratello, oltre le pagine, oltre ai romanzi.

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“Devo essere felice o morire, perché la mia condizione terrena è piena di una tristezza insostenibile e io do la colpa a Dio anziché a me stesso.”

Questa felicità, questa felicità di cui tutti parlano che cos’è, fratello Jack Kerouac? Lo immagino scuotere la testa, poi appisolarsi sul divano, un sorso di whiskey, poi a bassa voce:

“Una macchina veloce, l’orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada.”

 

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Bianco di lune

Il primo davanti al palco o l’ultimo della fila, farsi spettatore dietro ai grandi schermi a intonare i cori, accompagnare il cantante.

Le rincorse alle transenne e i due metri dell’uomo a limitare lo sguardo.

Che te ne fai della folla, che te ne fai di una maglietta sudata, di tutte le emozioni che accumuli nel cestino dei vestiti sporchi? Quando al risveglio ricordi soltanto i sogni peggiori, l’odore delle padelle, la cena del giorno prima.

Dimmi cosa ti vieta di proiettarti in futuro? Per quei pochi istanti di terra vuoi smetterla di rinunciare a vivere? Pizzica le corde della chitarra anche se hai appena imparato, lascia le docce al canto, ascolta la musica che ti piace non quella che ti insegnano gli altri, gioca ancora con le posate, se vuoi, ricorda di svuotare la tavola prima del caffè, di lasciare la tovaglia ai discorsi. Che vuoi insegnarmi tu? Nulla, ti dico io, so quel che mi piace e quel che mi spaventa.

Parlami delle impossibilità dei discorsi in piedi davanti al caffè, delle ore vuote trascorse su twitter.

Mi dicevi viviamo in campagna, scegliamo per vicini i cani, le galline e i cinghiali dell’alba, magari il cervo ci farà dono di una fotografia. E invece dalle nostre riparate solitudini guardiamo altrove: il verso animale del branco, la retorica della lamentela, l’invidia e lo sguardo al vestito più caro.

Guarda a te stesso, dicevi, ogni giorno ha la sua pena, cosa vuoi caricare sulle spalle. Non sei un asino, nemmeno un pavone, non hai bisogno di fare la ruota per farti notare. Così prendevo il rullino, la macchina fotografica più vecchia, le istantanee e l’attesa di uno sviluppo.

Non abbiamo più tempo, dicevi, come se fossimo padroni di qualcosa, come se le debolezze non dominassero gli altari. Dentro le fragilità i tagli sulle nostre dita, le unghie consumate, gli angoli del nascondimento, gli abbracci al cesso, le lacrime vietate agli sguardi e i balconi per immaginare i tuffi. Quando ci renderemo conto della sconfitta subita saremo vincenti, ogni giorno la sua gioia, ogni giorno il suo gradino.

Ora donami soltanto bianco e lune crescenti di denti, tu, mia sola gioia, mia amica, mia piccola vita.

Foto: dalla rete.

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Costruiremo case sugli alberi

Girare il cucchiaino e onde nere di caffè.

Mentre le maniglie delle finestre rimangono sempre lucide sfogliamo i quotidiani come se ogni volta la nostra opinione servisse a qualcosa.

Le sei del mattino e le giacche invernali, le pieghe delle lenzuola e le mutande che si sono ristrette.

C’è qualcosa dietro all’esibito che chiede di essere mostrato, farà paura, lo sai, chi ha troppi occhi è chiamato mostro.

Non serve una camomilla per stordirti mentre scrivo sul frigorifero che il mestiere non lo contemplo: moriremo poveri o ricchissimi, fatica o fortuna a faranno da bussole ai nostri risvegli.

Sai, questa notte ho sognato di venirti dentro: mi scopro così debole durante il sonno. Ci sono vestiti sparsi su tutta la terra e mi rimproveri con lo sguardo, la Pangea doveva essere il luogo più disordinato del mondo, ti dico io, e a quei tempi i vestiti neanche esistevano.

Non troverò mai una donna che mi affascini che non s’interessi di moda, ha a che fare col bello, mi dico io, è così normale. E che ne è dei tempi in cui viaggiavi con lo zaino in spalla e dormivi per terra? Te lo ricordi a Santiago: una sola camicia per venticinque giorni. Ricordo soltanto che ci fermavamo nei mercatini e contrattavamo i prezzi, ci provavamo tuniche improbabili e i colori vivaci del Sudamerica, cercavamo stile anche là, soltanto che ci adattavamo al contesto. Sarà, mi dici tu e poi alzi le spalle. Ti cade una spallina e ti aiuto a raccoglierla, stai così bene con le spalle scoperte che dovrei farti una statua. Non sei capace, mi dici tu ed hai ragione.

C’è stato un tempo in cui ricopiavo le copertine dei libri più belli aiutandomi coi vetri che suggeriscono i contorni, poi ci aggiungevo qualche frase a effetto, coloravo qua e là coi pennarelli, scattavo una foto e ti mandavo il tutto via email. Non mi hai mai risposto, chissà cosa pensavi.

Ci tengo a dirti che sono alto ancora un metro e settantotto centimetri, che non sarà poi tanto, ma proprio poco non è, che te ne fai delle pertiche, non devi mica saltare con l’asta. E se poi vuoi arrivare a prendere il fico maturo ti porterò sulle spalle o costruiremo case sugli alberi appena nati, sarà semplice, vedrai, e nel giro di qualche decennio avremo case sparse in tutte le campagne e mangeremo frutta tutti i giorni. Non c’è proprietà privata nel cielo.

Foto: dalla rete.

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