Delle tue guance hai perso il conto dei baci

Dietro la tenda lilla, oltre lo sporco dei vetri, la merda dei gabbiani sul davanzale. Nel vento che muove le cime degli alberi rari, che scuote le scritte americane sulle magliette appese, i raggi di questo sole enorme e pallido, che illumina e non scalda. Non manchi tu è la mia bugia di oggi. Fradici i miei giorni delle tue lacrime maledette, di quel giorno a rincorrerti per tutta via Dante e poi fermarti, scandire il tuo nome, poi i nostri corpi col freno a mano tirato e la promessa di un arrivederci. Non è tempo questo di colazioni lunghissime al riparo delle stufe a fungo dei bar di Brera.

Cosa ti manca? Continui a chiedertelo perché non lo sai. L’amore? Un lavoro? Un figlio? Tu, lo stesso maglione da giorni, le scarpe consumate, trecento e più chilometri in venti giorni. Tu, diviso, viziato, solitario e solo. Tu, col culo pesante e scuro di guardo. Ricorda, ti ha detto lei un tempo, se sei scuro sei luce. Così hai iniziato a incidere la tua carne, a usare il coltello per far forza sullo sterno, liberare il pensiero, essere finalmente quel tu: il sofferente, il ribelle, il divelto? Che senso ha tutto quel sacrificio di sangue se poi il nero scompare nell’urlo e rimane l’abbaglio, wow, urli, wow, finalmente io, io davvero, io! Ma lei ha paura, ma lei si nasconde. Che farai ora? Ora che hai perso tutto, dove se n’è andato il pudore? Gli occhi fanno male, faranno male per sempre. E quel sempre è un mai. Parole inutili.

Tornate qui, maestri miei, sedetevi a corona intorno al mio letto, sputatemi addosso l’imperfezione che vi ha resi eterni, la malattia che vi ha resi grandi. Insegnatemi la sopravvivenza di colui che si è diviso e ora tutto gli passa attraverso, nulla gli resta addosso. Pronunciatelo il vostro ti amo simpatico, lo ripeteremo insieme fino a farne un suono, la litania potente di questo nostro stare insieme. Fuori non capiranno, ma che ce ne importa. Che fine ha fatto il cuore, il nostro cuore? Volevamo estirparlo, dovevamo estirparlo e non siamo stati capaci, perdenti ancora, ci chiamano nullità, lo siamo davvero?

Lo senti il battere del mio cuoricino? Il maledetto suo battere, portalo via, tienilo tu! Dammi la mano, sfiora il mio corpo di carne, le ossa, i muscoli, il pelo. Puoi dirlo, se vuoi, puoi dire: “Sei vivo amico mio bellissimo, amico mio perduto.”

Verrà quel giorno, amorino, che ci ritroveremo ancora in quel caffè del centro, tu prenderai il tuo orzetto, io il mio caffè lungo, mi chiederai se voglio lo zucchero e ti risponderò di no e continuerò a farlo finché te ne ricorderai. Saremo amici allora, l’unica parola che possiamo concederci, mi griderai addosso tutta la frustrazione di questi anni, perché quando parlo non si capisce un cazzo, perché costringerti a fare lo sforzo del vedere oltre, perché dovevi capire oltre il già detto? Perché tutto ho abbandonato, per te, per te soltanto, per me, per me soltanto. Te lo ricordi il giorno che hai perso la pazienza? Mi chiedi. Incrocio indice e medio, te lo prometto, comincio oggi la mia ricerca, aiutami tu, amorino, prendimi per un braccio, prendiamo il primo treno, sentiamoci invincibili, andiamo a Venezia, cadiamo nella laguna, spendiamo tutto e chiediamo l’elemosina di uno sguardo nell’enorme piazza San Marco tra quelle mille colonne che rendono impossibili gli incontri. Poi portami nella tua casa al mare, prendiamo il sole nell’ultima spiaggia, portiamoci gli occhiali neri, salviamo gli occhi perché voglio vederti invecchiare. Poi portami nel giardino delle fate, di giorno tutto un colore, tutto uno specchio, la notte scuro di trucco abusato. E poi dimmi che delle tue guance hai perso il conto dei baci, delle tue labbra invece tutto ricordi.

Foto: © Benedetta Falugi, http://www.benedettafalugi.com.

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