Così a mio agio qui, su carta immaginaria, al riparo della luce tenue di una lampada, su un tavolo di legno scuro, con le dita consumate e il velo del sonno che mi scompiglia i capelli. Così a mio agio qui, tra queste righe nate ribelli e ora chete. Goffo invece quando ti invio anche solo una riga, gli sms e il tono sconosciuto ai diapason. E’ questione di spazio e di stare, ci si conosce in presenza il resto è tutto un delegare all’immaginario. Così non sei drago e nemmeno lucertola, ogni tanto non sei nemmeno tu.
Vorrei contare i tuoi capelli e alla prima caduta ricominciare dall’uno. Così la mia pazienza avrebbe un fine.
Mi sono svegliato presto ieri, spremuta d’arance e occhi grandi, il primo caffè per provare a parlare. E ascoltavo Cesare Cremonini, fuori la luce chiara di un sole di febbraio, ero felice così, con tutto da perdere e un giorno da guadagnare. Non c’è nulla di trascurabile nella felicità. Se tutto diventa indefinibile, tutto diventa scomposto, che fine faremo noi abituati ai puzzle coi pezzi mancanti? Le multinazionali in Cina se ne fregano sempre. Se ne fregano i piani alti degli uffici di Garibaldi e se ne fregano pure gli impiegati addetti alle mance dei cessi dell’Autogrill.
Tornavo a casa al mezzogiorno per mangiare coi miei, il profumo della pelle di mamma e imprecare contro la sfortuna dimmi a che serve? Ricerca il sapore di casa, la bicicletta dell’amico che non vedi da troppo.
La memoria è un compasso sgraziato, non disegna che cerchi, come stagni dal fondale ricco, la fatica del nuoto e il tuffo, far forza sui quadricipiti per riemergere.
I quarant’anni di papà intorno al tavolo di nonna, la torta di frutta, i bicchieri di cristallo, la tovaglia bianca, quanti anni avevo allora? Che poesia avrò recitato in piedi sulla sedia, che paura avevo delle altezze?
Ma non si vive di sola memoria e così rovesciavo pagine di libri sul tavolo, mi asciugavo le guance col fumo denso dei sigari, ballavo sui balconi di Viale Marche suoni mescolati e bottiglie vuote. Non c’era vento e non suonavano i carillon. Tu ascoltavi, perché sapevi ascoltare. Io parlavo, perché non sapevo parlare. Così ci addestravamo al timore e nascondevamo i respiri perché troppe leggerezze ci fanno volare lo sai, e abbiamo paura, ora, che non abbiamo dieci anni e nemmeno ottanta, sempre alla ricerca, di cosa poi?
Foto: Ilaria Margutti, Il filo di Ananke.
