E rivoltarsi nel letto, con le dita striate di viola, gli occhi gonfi e la testa pesante. Col sudore che si scioglie sul naso e le mani dietro la nuca. I ricordi vaghi del giorno prima e questi trent’anni che si avvicinano mentre ho scritto tempo fa che non credo negli orologi e i calendari sono soltanto invenzioni numeriche. Vestito a festa ti chiamano a cena cantore di vino ed oblio, afferra il bicchiere e bagna le labbra, baci di donna regalo di nuvole bianche. E sottobraccio Baudelaire, Kavafis, Khayyam e i periodi lunghi di fratello Kerouac, e poi pensi chissà, meglio sarebbe un mago o un clown per animare una cena di luglio. Immaginarsi panzuti dottori, donne in tailleur e figlioletti in jeans eleganti con la maleducazione in cintura. E tuo fratello, quello vero stavolta, ti dice che ti accompagna lui, che dopo le parole dei grandi arriverà il tempo della nostra tavola e di quelle discussioni lunghe e vino e sciocchezze e parlare sciolto, le tirate del ti racconto e le riflessioni sull’oggi. Saran signori e poeti, ma il lavoro è un lavoro, siamo in ritardo, quell’autostrada agli ottanta all’ora dico sei scemo e poi che fai, io lavoro, lo sai? Il suo cellulare che vibra, le mie idee sul presente, vorrei un posto tra gli scaffali delle librerie, saprei spolverarle a dovere e issarmi con grazia là sul soffitto e dall’alto balzare sulle teste sciocche delle letture di massa, saprei cadere e dormire sui pavimenti per gli inchini delle giovani e i loro vestiti in fiore, larghi e leggeri. Ti porterò sulla mia Vespa, ti porterò al lago, là dove non si fa il bagno, là dove si china il capo. Accelera, dai, forza, ci siamo, che bello, c’è il verde, le viti, i prati fioriti. T’accoglie lo zio, dice tranquillo, dai vieni e poi seguimi e qualcosa non torna. Un cartello, un saluto, le mie foto d’infanzia, il tratto di mamma, e poi ecco, servito. Gli amici di sempre, sorpresa, frastuono. Dai forza, via presto, che scemi, che stronzi, io a casa ritorno. La mamma, il papà, la nonna, la zia, la tavola lunga per le parole che non so dire. Esplodo in sconcezze, mi siedo, dai bevo. Le feste a sorpresa degli anni duemila, col tavolo lungo e la tovaglia bianca, il vino in brocche e poi carne e la gincana dei baci che non fai un discorso che sia uno, il bicchiere in mano e le labbra bagnate, non c’è parola che valga presenza. Voi qui, io così, arrogante e indifeso, presuntuoso e sciocco, poeta e buffone, ubriacone. Io provinciale, io amico, io figlio, fratello, nipote, ragazzo. E libertà, non c’è paura, né freno tirato, così come appaio io sono per voi che frequentate da tempo il mio volto e le fisarmoniche dei miei fianchi. Che intorno alla tavola si contano affetti e tiri tardi, coi fuochi nel cielo e gli abbracci e che dire? Il silenzio che ho dentro, l’intimità che esibisco soltanto al riparo dei pixel e la mia festa che non vuole vetrine. I grazie sì, non siamo poi così soli e alzerò il bicchiere ancora e pioggia di volti e vicinanze per quei ti voglio bene che si liberano dalle mie guance come risvegli, uno e più al giorno. La cura e l’attesa. E poi viene il sonno.
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
Marco! Sei una creatura straordinaria!
per questo tu sei un GRANDE!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Per te le pAROLE HANNO ANIMA E SONO COSì LONTANE DALLA MONOTONIA DEI NOSTRI GIORNI!
GRAZIE!
TUTTI NOI ABBIAMO BISOGNO DI PAROLE VERE, Pulite per spiegare ciò che c’è nel nostro cuore!