Ho quasi trent’anni e scrivo un blog, prendo a pedate il pensiero e lo costringo a vomitarsi e farsi parola.
Navigo a vista tra i libri, il mio dire nasce nella banalità dei più e si espone ai venti della moda dell’oggi.
Nasco negli anni ottanta, gli anni dell’embargo all’Iran, degli attentati, di Like a Virgin e Born in to U.S.A., di Cernobyl, Gorbacev e Regan, del muro di Berlino e della tragedia dell’Heysel, dei Gun’s, gli Iron Maiden, il Greatest Hits dei Queen e della morte di Bob Marley.
Son figlio della televisione e della mani grandi dei nonni, dell’Alfa Romeo e dell’Ibm, di Gianni Agnelli e Berlusconi, inutile negarlo.
Ora, la mia voce rimane qui, debole, tra le pagine in pixel di un blog. Ma leggo i quotidiani e mi pongo domande perché confronto le parole dei saggi dell’oggi alla vita.
Benigni Roberto, un grazie grande alla sua visione alta, il sorriso buono e il saltello goioso, a Santa Croce ripete quel che ha già detto più volte in riferimento al canto undicesimo, l’intuizione buona de “Il lavoro umano prosegue il lavoro di Dio.” Or bene, dico io, quale lavoro? Quale? Qualsiasi? La domanda è per chi sto lavorando io? Per me stesso? Per i miei figli? Per un futuro? Per chi? La frustrazione viene dall’annullarsi in quello che si fa, nell’ordine vuoto dei padroni, nella vanità delle visioni che ci hanno regalato i grandi. Esiste un lavoro inumano che allontana dall’uomo ed allontana da Dio. E questo va detto, con fermezza. Siamo dentro all’inevitabilità di un tutto, a un pensiero dominante che ci fa pensare al lavoro come un dovere. Le parole di Benigni aiutano a svegliarsi con una speranza, all’accettazione della nostra condizione. Ma, io dico, può un lavoratore costringersi al dovere per otto, dieci, dodici ore al giorno svolgendo un’attività che non gli appartiene, non cogliendone il senso e lo scopo solo in virtù di un’idea: il proseguimento del lavoro di Dio. Quale lavoro e soprattutto quale Dio?
Bisogna essere franchi, non cadere nell’accettazione della retorica affascinante di certa intelligenza e provare a formulare un pensiero nuovo e coraggioso, accettare il rischio dell’insensatezza, della povertà e ritrovare dunque il contatto con l’umanità. Perché il lavoro sa essere disumano e se non lo è sulle prime può diventarlo in fieri.
Ci pensa poi Serra Michele a rincarare la dose e nell’Amaca di oggi riprende le parole del caro Benigni Roberto e va oltre, una pacca sulla spalla ai più e la bonarietà consolatoria di parole pseudo-evangeliche quali non cercate il riconoscimento e la fama, ma il valore del vostro lavoro.
Facciamo una premessa dicendo che il lavoro nasce da una necessità, interna o esterna all’uomo. Su “quale lavoro” e “quale necessità” possiamo poi interrogarci.
Una volta che questo si mostra necessario, il suo valore -penso io, e non è dunque verità, lungi da me- è nella sua accettazione e nel riconoscimento. Non importa a che livello. E il riconoscimento, il primo, quello che deve venire dal lavoratore stesso sul proprio lavoro è un’ accettazione di necessità e la scoperta di un senso del proprio fare dentro al lavoro o al di fuori del lavoro stesso, è così che si comincia a dare un nome alle proprie fatiche e a riconoscerle. Questo dare un nome ha a che fare col conoscersi, e, come accade con i bambini appena nati, accolgono un nome, ma poi questo ha poi bisogno che qualcun altro lo pronunci, lo riconosca. Riconoscimento dunque come accettazione del proprio essere e, per questo, non sempre porta guadagno, ma concede una breve tregua, una certezza, una consolazione tra i pensieri sul sé.
Urge poi una distinzione tra lavoro e lavorio, tra lavoro per sé o lavoro per altri, tra homo faber e homo servus.
L’homo faber attraverso il riconoscimento giunge alla fama, che ha l’etimologia greca del grido, grida il lavoro ben fatto, grida di sé e chiede riconoscimenti non importa quanti o quali.
Grida ora il mio animo e quell’infelice pazzia che scuote i miei oggi, perché io grido il mio pensiero, grido alla possibilità del dire e mi indigno di fronte a un intellettuale che utilizza la parola giusto con la facilità con la quale bevo un caffè.
E, per dirla tutta, comincia un articolo così: “Barak Obama, lui che un nome se l’è conquistato, eccome.” C’è qualcosa in questa frase che non mi convince, non lo so spiegare, la rileggo, poi rileggo il resto, e ritorno al silenzio, all’infelice pazzia che scuote i miei giorni e porta rispetto all’umanità di Serra Michele, agli inni sacri di Benigni Roberto e ha troppa stima per usare con leggerezza parole quali bellezza, felicità, giusto, uomo, Dio.

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