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Nell’ombelico trovano casa i paguri

Giocavamo a tirarci la sabbia negli occhi. Io ridevo, tu ridevi. Tenevo le palpebre chiuse e inginocchiato riempivo le mani di granelli, facevo forza sull’avambraccio e lanciavo. Correvi lontano con quel costumino blu e le spalle strette. E quando la tua gioia è scomparsa sei scomparsa anche tu. Ho aperto gli occhi e d’improvviso il vuoto, scavavo a fondo ora, fino alla sabbia bagnata, la appallottolavo con forza e la lanciavo lontano, nel mare, poi dietro le spalle, speravo nascessero uomini e donne, come un nuovo Deucalione credevo che dai miei desideri fiorissero uomini, fiorissi tu e ritornassi a risplendere e a farti guardare sotto questo sole che non serve più a niente da quando non scalda le tue guance sottili. Lontano da quelle strade che non portano in nessun luogo se tu non ci sei. Vicino a questo camino che non scalda, a queste nevi che si sciolgono, a queste bestie che non figliano se tu non ci sei. La sabbia bagnata fa male, lo sa quell’uomo che l’ha presa sul petto, si è avvicinato e mi ha colpito il viso col pugno serrato, ora sanguino e il mio occhio destro è socchiuso, ho voglia di piangere, ma mi mordo le labbra e seduto sullo scoglio aspetto la sera. Quello mi dice che vuoi, sei pazzo, fatti gli affari tuoi. Su quella lingua di terra che si lascia prendere a schiaffi dal mare mi chiedo che senso ha se siamo così gelosi dei nostri affetti, perché precludersi vie di conoscenza e nuovi sguardi? Perché far coincidere il mondo con te? Passerà questa mia passione per l’incontro, mi dedicherò prima o poi a svelare le bruttezze del globo, a farmi buono, uscirà un mio reportage? Non ho mai ascoltato mamma quando diceva sotto ai tappeti si nasconde la sabbia. La sabbia è ovunque, dicevo io, portiamolo in giardino il tappeto e sbattiamolo insieme, poi regaliamolo e non usiamolo più, lasciamolo respirare il pavimento e camminiamo a piedi nudi, li laveremo prima di dormire oppure chissà, mamma, non ho tempo, c’è una bicicletta che aspetta e gli amici, ricordati il maglione, dice lei, fa freddo, non preoccuparti, rispondo io, ci facciamo i pali delle porte con quello. Viene la sera e scendono le stelle, nero è il mare e nessuna luna dietro alle nuvole. Tu su quale treno, su quale aereo, in quale albergo, tu in anticipo, tu in ritardo, tu e i tuoi capelli lunghissimi, tu e le camicette bianche e i bottoni slacciati, gli occhiali su quale comodino e quale candela accenderai oggi? Il passo stanco, forza sui quadricipiti, nessuna casa è lontana, dove passare la notte è una domanda senza importanza, mi concederò alla sabbia che prenderà la mia forma, ne sono certo, saprà capirmi, sarò sabbia e terra e poi magma e poi centro del mondo, là dove tutto brucia. Verranno a trovarmi gli insetti, nei corridoi del mio naso, delle mie orecchie, nell’ombelico troveranno casa i paguri. E verranno le albe, i tramonti, le onde, verranno gli sguardi degli sconosciuti, avrò il tuo sorriso sul volto e tra le dita parole e un disegno, quelli di qualche anno fa, quando appoggiato ai vetri ricalcavo copertine di libri bellissimi e ci scrivevo sopra il tuo nome.

Foto: © Benedetta Falugi

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Ivresse

Il nodo mancato, la corda che scivola e il cerchio in acciaio suona una nenia, poi s’interrompe. Così lo scafo è in balia delle correnti, sfiora la riva, poi prende il largo. La traccia sull’acqua subito scompare e non c’è suono che desti dal sonno, nemmeno uno spettatore sui balconi del borgo. Soltanto un cucciolo di cane, la notte sul fondo dello scafo, gli occhi aperti in risveglio e un latrato sottile, dove sono le case? Poi un ululato, le zampe appoggiate sul legno in movimento. Così si radunano i curiosi, l’orecchio teso, le mani a visiera per lanciare lo sguardo lontano. E i salvataggi per mare, il pelo zuppo, i capelli bagnati e applausi sul bagnasciuga. La barca ritorna alla terra, il nodo è nuovo e chissà quale notte ancora potrà giocar col fato e bagnarsi dei primi soli in mezzo allo specchio infinito che tutto riflette.

Mi dici non riesco, non è colpa mia, torno sempre indietro come i boomerang. Legno leggero che matura tra i panda, specie in via d’estinzione e contraddizioni in bianco e nero.

Io qui, tra le pieghe del viso, porto i segni del cuscino, delle mie sveglie posticipate. Non riesco a emozionarmi proprio, non riesco a sforzare le labbra in un wow davanti ai riconoscimenti degli altri, nemmeno davanti ai miei. Mi dici che non si fa, a volte le feste ci sono dovute. Alzo le spalle, dico, lo sai, sono tutto istinti e così distinguo la verità da quel che mi fa grande all’occhio fotosensibili degli altri. Emozione e desiderio, la razionalità è per i titoli dei giornali.

Nelle fragilità e nelle profondità dei ventricoli, le ansie che ci sorprendono prima di uscire di casa, il tuo sorriso quando è spontaneo, le mie innumerevoli debolezze, le ricerche di svago e le indignazioni che dovrei tenere soltanto nel portafogli e mostrare soltanto in intimità, come la figurina consumata di Alessandro Del Piero.

E ora ce l’abbiamo fatta, quella parola suona sulle bocche di tutti, con la sua doppia z che taglia, tre sillabe e un ritmo perfetto che si leva piano, s’innalza e poi si chiude dolce, è onda e non scompare, ma penetra la sabbia lasciandola bagnata e modellabile. Unisce quel che prima era soltanto un granello. Ora ce l’abbiamo fatta, è di tutti, per tutti, e non è un aggettivo che ha bisogno di sostegno, ma sostantivo che basta a se stesso. Che ci sarà poi? Un punto fermo, un segno esclamativo? Io sono per il punto di domanda, il dubbio e la tensione che suscita la ricerca della risposta.

Quale? Dove? Ognuno ha la sua, personale e raggiungibile, idealizzata o reale. Sai che ti dico, la ricerca vale tutto, tutto davvero e quando si muta in conquista allora è difficile trasformarla in parola.

Apro il mio portafogli: una fototessera da bimbo, l’asilo e il grembiule giallo pallido, i miei capelli a scodella e un sorriso bianco. Mentre si celebra il paese con la parola che ci lascia con la bocca aperta e le energie che si moltiplicano, mentre si celebra il paese io non mi emoziono, ma guardo la barca, là, col nodo teso e le onde che si fanno soltanto culla, barca che smania di prendere il mare, conoscere lo sconosciuto, gettare l’ancora tra le tue efelidi e respirare un poco l’aria che solo l’ebbrezza dell’inatteso sa dare.

Foto: dalla rete.

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Costellazioni

Raccolgo biglie di vetro trasparente e colori accesi nel centro, poi quei ciclisti che fanno uscire le nonne sui balconi come alle processioni, la mia tasca grande e robusta, la sabbia sotto le unghie e quelle pietre levigate dal mare, quasi sempre verdi: gli angeli delle bottiglie di birra abbandonate dai ragazzi degli anni settanta. Così piccolo che mamma mi chiama da dietro gli scogli, rispondo arrivo, raccolgo tutto e arrivo. E mi stanco in fretta di inseguire i grandi, la dita dentro la sabbia, il sale sulle labbra e il volo dei gabbiani che chissà dove dormono.

Che me ne importa del resto. Se io potessi, se io potessi soltanto ascoltarti e guardarti. Non lo sapevo a quei tempi. Ma mettevo sempre da parte una biglia, la mia preferita, in una tasca con la cerniera. Per proteggerla, per riconoscerla.

Oggi non sono al mare, ma c’è luce, hai visto? Non ti sveglierai più in tasca, ma sarai contenta, la testa un po’ pesante. E molti abbracci e baci da guance consumate e fiocchi, calici e bollicine.

Guardo un documentario sulle tartarughe delle Galapagos che quando davanti al muso gli si presenta una grande pietra continuano a spingere finché la pietra si sposta, fino alla morte o fino all’acqua, al nuoto leggero che non conosce ostacolo e porto. Non vedono che la roccia, sentono i muscoli duri, dimenticano il mare e il carapace non serve più, non c’è alcuna difesa nell’attacco. Così le tartarughe ninja si sono armate perché non hanno pietre da spingere né desiderio di acqua, ecco perché ora mi annoiano.

Quale follia riveste i miei giorni e quale lucerna vado consumando, quale mare mi accoglierà quando sarò poi solo a bearmi della curvatura della terra?

Nelle tempeste si vede solo acqua, nella notte ricerchiamo la luce, soltanto al sole appaiono le ombre. Vorrei prendere a pugni l’ansia e ricamare note sonore sul flauto, sulla chitarra appoggiata negli angoli.

La leggerezza sotto al tuo portone, io, come le moke gonfie di caffè lamento di spegnere il fuoco col borbottio, poi fischio e infine brucio nel disperdermi. Il tuo orecchio teso al gorgogliare, il mio piede tra i castagni s’appassiona al muschio, ma l’occhio si ripulisce e le dita accarezzano il dorso degli alberi.

Non penso al domani, è sempre lo stesso giorno qui sulla terra. Arriveranno i venti per confonderci le carte e poi i viaggi, quando non basteremo più a noi stessi, le nostre teste fatte di stelle non ancora ordinate in costellazioni.

Quanto alla legna lasciamo che bruci nei camini, le fiamme salgono al cielo e riscaldano l’aria abituata all’alito di gente infreddolita che rincorre le strade col passo incerto e lo sguardo sicuro. Ho immaginato il tuo pavimento caldo, le tue pareti pulite e quei colori poco invadenti che fanno il tuo mondo. Ho immaginato il bianco barocco e i tavolini all’aperto, poi le granite. Ho immaginato le piazze e il verde, la c aspirata e il vino. Troppo così ho immaginato che se te lo dico aumentano le ansie e la spontaneità fa il suo sacco per andarsene.

Ora, tutto questo mio scrivere non serve a nulla.

Addio malinconia,

non vorrei crepare prima di aver conosciuto i balconi di Cuba

i pianti sonori di Iguazu

i gechi di pietra del sud

Non vorrei crepare

senza sapere il colore del mare

quando il cielo non c’è

se sotto ai vulcani è freddo

se nel tuo ghiaccio c’è un buco

per poter pescare

se dietro alla tua porta c’è una serratura

per poterti guardare.

Poi finestre spalancate e uliveti, vigneti, yeti,

che lieti giochiamo a rincorrerci.

Foto: dalla rete.

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Io gabbiano, tu mare

Il mare della Sardegna e le tue passeggiate lunghissime per poi gettarti nell’acqua a cancellare il sudore col sale.

Le bracciate rilassate in purezza d’intenti e lo sguardo agli scogli o al cielo. Durezza o blu e capelli bagnati d’estate.

Di fianco al letto i tuoi libri vari: lo sguardo sull’oggi e le riflessioni sull’esistenza. Coi dubbi che assalgono chi compie scelte forti e tutto il già detto custodito in silenzi.

Di quella prima volta a pranzo due battute sciocche e l’ironia sulla normalità degli altri, ti immaginavo come uno dei miei personaggi: complesso e folle, e mi mostravi la semplicità del vivere felice.

E così davanti a un caffè cominciare un’amicizia, che fai e come ti chiami e perché non ti lasci mai stare? Sedere alla stessa tavola senza il bisogno di dimostrarsi nulla, i dubbi sul presente e sulle carriere dei grandi. Uno sguardo che prova a scivolare sull’erba per togliere il pallone agli attaccanti del niente. A difendere originalità e brindare alla necessità.

Tu e i tuoi pranzi col lusso e gli incontri in vetrina. I tuoi viaggi a Roma, a Parigi, poi Santorini e i consigli sul bello. Che esiste un’arte da guardare e persone da incontrare. Per tutte le mie debolezze esposte in nero sulla tua camicia bianca e l’occhio esigente, ma comprensivo.

Quelle email che ci scambiamo ogni tanto e la concretezza del quotidiano. Riparare un armadio o accordare un organo.

Pensare alla brocca d’acqua trasparente che tieni sulla scrivania, dissetarsi in franchezza di scambi e simpatie nate in diversità.

Che se io sono gabbiano e volo tra città e mari per esercitare sguardi dall’alto e picchiate improvvise, tu resti mare e raggiungi le coste con sguardo nuovo, eredità millenarie.

Ascolti il mio verso gracidare in lamenti o esaltarsi in gioie da poco: un amore, un letto, un bicchiere di vino buono. Lasci il tuo silenzio ed esplodi in Buongiorno, mio caro, come va e poi stà bene, stà tranquillo. E davanti alle parole dei grandi sorridere ammirati e gesti di scherno e poi guardarci con cenni d’intesa, ogni amicizia una storia e a ogni ritorno un porto.

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Estivi ritorni

Così storpio un motivo degli anni ottanta e fischietto donando le guance al sole di luglio. Con la disinvoltura dei vecchi lancio occhiate invadenti ai lavori in corso, ai colori accesi delle gonne lunghe e a questo vento leggero che nulla può contro i mozziconi di sigaretta aggrappati all’asfalto.

Le giacche dei professionisti appese alle sedie per le nostre pause pranzo a base di calciomercato. Prendo le vacanze in settembre, d’altronde.

Mentre sulle terrazze si consumano i rituali moderni degli aperitivi noi cerchiamo una scusa per non sfiorarci.

Vorrei evitare di pensare al futuro e mettere radici nel presente. In questi incontri da segni sul collo e catene sulla schiena.

Dei balconi di Lisbona e degli amici in partenza per la Liguria. La tua automobile porta tutto e i film degli anni novanta. Coi western ripieni di pasta alle vongole e i vini aperti lasciati appassire sulla tavola.

Mentre non ci raccontiamo nulla, prendiamo il sole e commentiamo le notizie del quotidiano locale. Lanciamo palloni contro i treni che filano veloci accanto alla collina e gonfiamo il petto per sfidare le onde più grosse e per qualche istante sentirci invincibili e giovani, e tutti insieme per questa grande occasione.

Finiremo per disperderci nell’agosto torrido della penisola, ci scriveremo i nostri come stai su whatsapp, poi la grigliata di ferragosto e i nostri ritorni con tutte le foto caricate sull’Ipad.

Così aspetteremo il matrimonio degli amici, arriverà in fretta settembre e ci ritroveremo più grandi senza accorgercene.

Sulle mie tempie i primi capelli bianchi e la castità dei ventri gonfi delle nostre compagne.

E ti ricordi quando parlavamo di una grande cascina, tutti insieme e vivere dei nostri lavori, una comunità dell’amicizia, l’utopia irraggiungibile della convivenza.

E così ora immagino la notte e quella casa così grande, il balcone sul mare e il piccione viaggiatore del vicino. Bottiglie e bottiglie vuote ad aspettare mattino per suonare nelle campane della raccolta differenziata. Materassi stesi per terra e divani aperti. E puzzo di vita, per quel tempo che scorre così in fretta e che aspettiamo un anno per poter ricordare.

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A culo

Trovare gioia dai giorni e allontanare la paranoia: son stati abbastanza i miei ieri? Che ne sarà del domani?

Ci trovavamo la sera a mettere in comune i nostri quotidiani, sottolineavo i tuoi sbagli con le mie labbra rosse e mi donavi vita allungandomi la tua schiena perché avessi spalle a cui aggrapparmi e sostegno per il mio bacino freddo. E ti chinavi sul tavolo per mostrarmi il tuo mondo, si spegnevano le luci degli altri, cavalcavamo noi nei pascoli immensi delle nostre intimità. E respiravi finalmente, lasciavi perdere tutti i tuoi però e ansimavi come dopo una corsa.

Coi pendolari immersi nelle trilogie, le teste chine sugli smartphone e la ricerca di parole sempre nuove per i nostri giochi di società. E mi chiedevi i tuoi voti in un like, mi domandavi come stai e quando ti rispondevo bene ne avevi già a sufficienza.

Del mio romanzo nessuna traccia. Alla Siae domandano ancora delle mie canotte estive. Quando Michael Jordan giocava nei Bulls, le mie preoccupazioni erano tornare a casa in orario e poi andare a scuola, nascondere i voti a mamma e non farmi interrogare l’indomani.

E così ora vorrei guardare un film, uno qualsiasi, uno in bianco e nero. Ma sono zuppo di derive, il torrente dei desideri e le ipotesi sui futuri prossimi; mi contraddico come i nostri premier. Mi contraddico come gli agenti del calciomercato. Dovrei alzare la cresta e impugnare il tridente come Massimo Allegri. Il dettato dei padroni e gli errori che continuo a fare: da voi non imparerò mai. E farò del pugno bandiera, scivoleranno via le retoriche novecentesche e rimarrà il primitivo, e camminerò per le strade elevando l’unico membro degno degli interni.

E per la cronaca degli oggi lascio spazio ai giornalisti, le capriole di Brera ci facevano divertire, a culo l’erudizione esibita, a culo la prosa scarsa dei rotocalchi. E poi lo sai che se non ti facessi ridere finirei per stancarti.

E la cultura è diventare difesa: degli animali, delle verdure, degli interessi e dei confini delle nostre voglie. Quando pensavo che bisognasse attaccare, progredire in ascolto e coscienza e mettere mano alla spada; le pistole di Tarantino e i surrogati delle nostre velleità.

Nella casa che non ho, nelle tasche vuote, nella mia vespa lontana e nella potenza delle mie cosce c’è il mio cammino. Se non avessi un Mac sarei un nullatenente, il giro del mondo in migliaia di sguardi e la gratuità dell’immaginazione. Che è sulla strada che impari a chiedere, che poi desideri il mare, una casa grande, le mura bianche, un tavolo in legno e la tua mano poi sulla mia che dice scusami, se ero lontana era perché mi stavo preparando, che non avevo ancora le forze, che non avevo ancora il coraggio.

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Non preoccuparti

Nella testa china delle piante aromatiche la nostra vittoria. Il balcone e il rifugio delle sigarette, il mio cappotto lungo e questo freddo che tarda ad arrivare. Le difficoltà con le lingue degli altri e poi in libreria per la lettura settimanale delle prime tre pagine in nuova pubblicazione. Questa sintassi stanca e punti e a capo per la sconfitta del nuovo sentire, con Milano che si guarda l’ombelico e gli scrittori sovrappeso e forfora sulle spalle in attesa di un nuovo giudizio, il pugno alzato e il dito puntato. Le contraddizioni dei quarantenni. La povertà dei beni materiali e la crescita esponenziale della considerazione del sé. Tra le vostre letture barba bianca per sguardi cristallizzato e già morti perché immobili. Quanto vorrei prendere la mano a un nonno sconosciuto, sedermi sulle sue gambe e guardare da vicino i tratti del suo viso senza che mi chieda che fai e perché credi ancora all’impossibile. La distanza necessaria tra ideale e reale. Quando lasci nella tasca un sasso bianco per ricordarti la strada di casa. E ti chiederanno il perché dell’erranza, della tua mancanza di stima verso i più e le debolezze di questo sistema che ti considera giovane a trent’anni. Quando in Eritrea ho visto madri di anni dieci e potenza d’affetto e schiena chinata e ideali di vita e progetti. Sulle nostre spalle consumate i lividi neri dei nostri bagagli. Per la leggerezza è necessario l’abbandonare. Lasciare in ego e possedimenti, che quel che si fa regale è il dominio del sé che agli altri poi ci penserai. Non preoccuparti. Guardare dentro al pozzo scuro delle nostre debolezze, e fecondare le arsure col credo. E nelle relazioni il mondo nuovo della scoperta dei precipizi e altezze sconosciute della nostra sensibilità. Creare legami per distruggere il nostro sentirci indispensabili. E poi lasciarsi andare all’altro, di quella mia volta in Sicilia, otto anni di bimbo e i capelli rasati, così al largo e re di un mondo ancora sconosciuto, poi il giubbotto di salvataggio che si sfila, la paura e acqua da bere in sorsi e pensare oggi sarò morto, morto come i grandi, morto come i pesci morti nella mia pancia viva, e poi una mano, papà e la forza del suo braccio e lasciarsi andare al pianto, acqua nell’acqua, sale con sale e sapore d’affetto e vita nuova in abbraccio. Dall’acqua per l’acqua. Che questo nostro andare sia cosciente del pericolo degli abissi, che i nostri giorni non trascurino mani, abbracci, affetti. Un mese al Natale e questa neve che prima o poi arriverà, che poi lo sai che per definizione allontana le aridità degli oggi e promette primavere e germogli.

Foto: Robert Frank

Photo editing: Neige

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Con la promessa di appenderle al cuore

Il mattino e l’oro tra le coperte. Le nuvole bianche della Sicilia e tracciare coi piedi le linee bianche degli aerei. Modificare le piogge dei tuoi capelli e pensarti sui tetti di Londra con le luce fredda di novembre e le tue gambe a cavallo delle terrazze. Quando srotolerai le ciocche per farmi salire sulle tue guance mi terrò stretto al bavero del cappotto invernale per tenere al caldo le spalle e poi donartele quando sarà tutto pronto sulla tavola del nostro futuro prossimo. Come quella polaroid che dovremmo scattarci, io non so nulla sui tempi d’esposizione dei sentimenti così dico tutto e subito e non ho rispetto dei tempi del prossimo.  La prima pietra scartata dai costruttori, i disturbi degli alimentari e le sveglie alle sei del mattino col martello pneumatico delle lamentele degli altri puntato alla gola. Maledette malelingue e quel Sanremo lontano, la voce di Graziani per le contraddizioni della provincia e la mia malinconia per i pomeriggi passati sulle panchine dell’oratorio quando non c’erano argomenti e si tirava il pallone contro al muro per scacciare la noia. Così i primi tiri di sigaretta e gli sguardi lontani delle ragazze. Ti piace quella? E la risposta era sempre un no. Rimandare tutto ai sogni della notte e poi i sensi di colpa immerso com’ero nel perbenismo dei più. E ora che vengo a bussare alle tue costole e non so spiegarmi il perché. Le tue frasi brevi e la punteggiatura naif, le storie che volevamo raccontarci, e quando ti vedo in televisione mi sembri meno bella. Per gli slanci rimando alla carta, agli aeroplanini lanciati dal tetto e alle traiettorie strane dei miei pensieri di oggi. La prepotenza dei tuoi stivali e quei vestiti insoliti. E su di me lo sguardo da boia dell’impossibilità di una qualsiasi autarchia, che sia del sentire o persa in estetiche, per i vizi di forma del mio sedere e questa barba che si fa più lunga col passare dei giorni. Vorrei venire a prenderti in bicicletta, sentirti scendere le scale, e non so ancora come cammini sui tacchi e dimentico ancora come sorridi quando saluti. Portarti al mare e parlare del niente, lanciare il pallone verso l’orizzonte e poi aspettare che l’onda lo riporti in riva. E se non torna fare il bagno e rincorrerlo, nudi o vestiti che importanza ha, che non è il nudo ciò che ricerco in te. Il desiderio è una questione di dilazioni. Chissà se mai riusciremo ad essere come quelli dei film. Così belli, così felici. E lasceremo impronte sulla spiaggia la mattina presto, prima del mondo, prima di tutti. E non aspetteremo l’arrivo degli altri e nemmeno ci volgeremo indietro. Conserveremo ricordi come fotografie, con la promessa di appenderle al cuore quando baciandoti mi abiterai.

Foto: da celluloidpolaroid.tumblr.com

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Con le palpebre ancorate all’autunno

Lasciare il mondo con le palpebre ancorate all’autunno.

Il bianco degli occhi, la riva del fiume, i sassi lanciati al pelo dell’acqua e lo sporco sotto le unghie. Le ginocchia piegate ad arco per l’attraversamento pedonale dei cigni.

Vorrei avere ventidue anni. Un’estate. Il barcone sulla Senna, i nostri corpi nudi, l’odore rancido dell’acqua del bordo. A scaldarci come rami intrecciamo le ossa: i rituali dell’ardere e poi sospirare guardando il cielo che non c’è, lo sciabordio delle onde degli sguardi degli altri. Dentro gli oblò che danno sulla riva i binocoli ciechi dei curiosi. Il mio pene disegna rotte sul pavimento, lo segui con gli occhi e mi dici che somiglio a un compasso e prendi in mano il mappamondo e cominci a farlo girare forte così che i continenti si confondono, lo alzi e diventiamo campioni, la coppa blu e verde per quei nostri mari che hanno la consistenza dei prati.

Dove vorresti andare tu?

I pesci che sbattono le ali mentre lasciano andare alla bocca le parole che abbiamo mandato in letargo.

Hai urlato forte il mio nome, io il tuo, il mondo appoggiato al pavimento e noi a girarci intorno, a giocare a prenderci, a far rimbalzare i denti contro i muri, l’odore fresco dei sorrisi dell’adolescenza.

Ci siamo detti, andiamo, partiamo, coi nostri corpi che si sono alzati in volo, sull’altalena dei tuoi fianchi le mie spinte più belle. Nelle discese sulla tua schiena gli uau che m’erano rimasti in bocca nelle estati in montagna. I roller coaster dei week end estivi e le mani dei genitori. Quei silenzi da ritorno in automobile, dormire sul sedile di dietro e poi in braccio tra le coperte pulite. Il peso dell’affetto di mamma a sfondare il materasso e il c’era una volta per la buonanotte.

S’è fatto buio e siamo scesi a riva. Mi hai detto bello sarebbe i nostri piedi nudi e lanciarci dal Pont Neuf e dimenticarsi dei colori degli oceani. Mi hai guardato negli occhi: lo sai quanti ne ha uccisi la musica? E la scrittura ti ho detto io, lo sai quanti ne ha uccisi? Così abbiamo acceso lo stereo, il ritmo elettronico dei nostri cuori, la mia lingua lunga, ti ho scritto sulla schiena qualcosa che non mi ricordo. Quando mi hai detto, non è importante che cosa, lasciami dimenticare, non vorrei essere io la causa delle tue morti e io ti ho detto che sapevi di sale.

Foto: André Kertész, Distorsioni Cognitive

Photo  editing: Neige

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Ci siamo detti “fuck” soltanto per sentirne il suono

A cuore aperto il vuoto delle bottiglie di birra e la nostra malavoglia a decorare il pieno della pattumiera. Le scale e l’odore delle nostre cene passate. A niente servono gli inviti se nessuno li accoglie. A nulla i cappelli se nessuno li indossa. Sono sei mesi, ma sembra un anno, i miei capelli in grappolo e il rifiuto per le coperte. Non ci sono letti troppo piccoli quando si ha la libertà dell’andare e scelte varie per il domani. Ci hanno addormentato da infanti con la storia del destino, che tutto è scritto e così seduti al banco, il grembiule nero e le alzate di mano per andare in bagno. Quando mi trascinavo fino al treno e mi alzavo alle sei del mattino, l’inchiostro simpatico per le memorie a termine e la paura delle interrogazioni a esplodere nei giornaletti porno all’uscita da scuola. Quando ora vorrei domande a grappolo e tutto il tempo per le risposte. Mi hai detto che il silenzio è un tuono e invece piove e mi manca la tua voce. Le lenzuola si fanno contorno quando sei così cruda che vorrei morderti e poi cuocerti con l’ansimare ardente del respiro. E tutti quei casini che ci ricamiamo addosso, la perdita dei peli superflui per fare ordine nella carne e lo svelamento delle emozioni che proviamo a chiamare curiosità. E sui giornali la serie B della lingua italiana, l’esibizione dell’accademia e sintomi di pressapochismo per i nostri clic pagati a caro prezzo. E scaglie di cuore sulle nostre paste scotte, sulle pizze ordinate al telefono ed i formaggi sintetici per l’addestramento chimico delle nostre preferenze; il gusto decadente dei tetti invisibili di Milano e quei disegni che tieni nascosti sotto le ascelle. Del Marocco e delle mie prime corse a cavallo, gli zoccoli sulla sabbia e schizzi di mare sui tuoi seni acerbi. Cresceranno, crescerai, cresceremo e lanceremo bottiglie nel mare senza messaggi per il futuro, ci affascina il rumore limpido dei vetri rotti e la capacità del mare di smussare gli angoli. Ci siamo detti “fuck” soltanto per sentirne il suono e poi hai alzato la gonna mi hai detto ti ricordi quando mettevo ancora le mutande? Ti ho detto no. E sei scappata via. Così ho lasciato il cavallo e ho cominciato a rincorrerti.

Foto: Elliott Erwitt, North Carolina

Photo editing: Chiara

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