Raccolgo biglie di vetro trasparente e colori accesi nel centro, poi quei ciclisti che fanno uscire le nonne sui balconi come alle processioni, la mia tasca grande e robusta, la sabbia sotto le unghie e quelle pietre levigate dal mare, quasi sempre verdi: gli angeli delle bottiglie di birra abbandonate dai ragazzi degli anni settanta. Così piccolo che mamma mi chiama da dietro gli scogli, rispondo arrivo, raccolgo tutto e arrivo. E mi stanco in fretta di inseguire i grandi, la dita dentro la sabbia, il sale sulle labbra e il volo dei gabbiani che chissà dove dormono.
Che me ne importa del resto. Se io potessi, se io potessi soltanto ascoltarti e guardarti. Non lo sapevo a quei tempi. Ma mettevo sempre da parte una biglia, la mia preferita, in una tasca con la cerniera. Per proteggerla, per riconoscerla.
Oggi non sono al mare, ma c’è luce, hai visto? Non ti sveglierai più in tasca, ma sarai contenta, la testa un po’ pesante. E molti abbracci e baci da guance consumate e fiocchi, calici e bollicine.
Guardo un documentario sulle tartarughe delle Galapagos che quando davanti al muso gli si presenta una grande pietra continuano a spingere finché la pietra si sposta, fino alla morte o fino all’acqua, al nuoto leggero che non conosce ostacolo e porto. Non vedono che la roccia, sentono i muscoli duri, dimenticano il mare e il carapace non serve più, non c’è alcuna difesa nell’attacco. Così le tartarughe ninja si sono armate perché non hanno pietre da spingere né desiderio di acqua, ecco perché ora mi annoiano.
Quale follia riveste i miei giorni e quale lucerna vado consumando, quale mare mi accoglierà quando sarò poi solo a bearmi della curvatura della terra?
Nelle tempeste si vede solo acqua, nella notte ricerchiamo la luce, soltanto al sole appaiono le ombre. Vorrei prendere a pugni l’ansia e ricamare note sonore sul flauto, sulla chitarra appoggiata negli angoli.
La leggerezza sotto al tuo portone, io, come le moke gonfie di caffè lamento di spegnere il fuoco col borbottio, poi fischio e infine brucio nel disperdermi. Il tuo orecchio teso al gorgogliare, il mio piede tra i castagni s’appassiona al muschio, ma l’occhio si ripulisce e le dita accarezzano il dorso degli alberi.
Non penso al domani, è sempre lo stesso giorno qui sulla terra. Arriveranno i venti per confonderci le carte e poi i viaggi, quando non basteremo più a noi stessi, le nostre teste fatte di stelle non ancora ordinate in costellazioni.
Quanto alla legna lasciamo che bruci nei camini, le fiamme salgono al cielo e riscaldano l’aria abituata all’alito di gente infreddolita che rincorre le strade col passo incerto e lo sguardo sicuro. Ho immaginato il tuo pavimento caldo, le tue pareti pulite e quei colori poco invadenti che fanno il tuo mondo. Ho immaginato il bianco barocco e i tavolini all’aperto, poi le granite. Ho immaginato le piazze e il verde, la c aspirata e il vino. Troppo così ho immaginato che se te lo dico aumentano le ansie e la spontaneità fa il suo sacco per andarsene.
Ora, tutto questo mio scrivere non serve a nulla.
Addio malinconia,
non vorrei crepare prima di aver conosciuto i balconi di Cuba
i pianti sonori di Iguazu
i gechi di pietra del sud
Non vorrei crepare
senza sapere il colore del mare
quando il cielo non c’è
se sotto ai vulcani è freddo
se nel tuo ghiaccio c’è un buco
per poter pescare
se dietro alla tua porta c’è una serratura
per poterti guardare.
Poi finestre spalancate e uliveti, vigneti, yeti,
che lieti giochiamo a rincorrerci.
Foto: dalla rete.
questo tuo modo di scrivere è una sarabanda.
Mi fa pensare a Bach.
mi piace. (se non lo si fosse caputo)
Grazie per…
vedi?
mi emoziono e…refusicchio…)
😦