Giocavamo a tirarci la sabbia negli occhi. Io ridevo, tu ridevi. Tenevo le palpebre chiuse e inginocchiato riempivo le mani di granelli, facevo forza sull’avambraccio e lanciavo. Correvi lontano con quel costumino blu e le spalle strette. E quando la tua gioia è scomparsa sei scomparsa anche tu. Ho aperto gli occhi e d’improvviso il vuoto, scavavo a fondo ora, fino alla sabbia bagnata, la appallottolavo con forza e la lanciavo lontano, nel mare, poi dietro le spalle, speravo nascessero uomini e donne, come un nuovo Deucalione credevo che dai miei desideri fiorissero uomini, fiorissi tu e ritornassi a risplendere e a farti guardare sotto questo sole che non serve più a niente da quando non scalda le tue guance sottili. Lontano da quelle strade che non portano in nessun luogo se tu non ci sei. Vicino a questo camino che non scalda, a queste nevi che si sciolgono, a queste bestie che non figliano se tu non ci sei. La sabbia bagnata fa male, lo sa quell’uomo che l’ha presa sul petto, si è avvicinato e mi ha colpito il viso col pugno serrato, ora sanguino e il mio occhio destro è socchiuso, ho voglia di piangere, ma mi mordo le labbra e seduto sullo scoglio aspetto la sera. Quello mi dice che vuoi, sei pazzo, fatti gli affari tuoi. Su quella lingua di terra che si lascia prendere a schiaffi dal mare mi chiedo che senso ha se siamo così gelosi dei nostri affetti, perché precludersi vie di conoscenza e nuovi sguardi? Perché far coincidere il mondo con te? Passerà questa mia passione per l’incontro, mi dedicherò prima o poi a svelare le bruttezze del globo, a farmi buono, uscirà un mio reportage? Non ho mai ascoltato mamma quando diceva sotto ai tappeti si nasconde la sabbia. La sabbia è ovunque, dicevo io, portiamolo in giardino il tappeto e sbattiamolo insieme, poi regaliamolo e non usiamolo più, lasciamolo respirare il pavimento e camminiamo a piedi nudi, li laveremo prima di dormire oppure chissà, mamma, non ho tempo, c’è una bicicletta che aspetta e gli amici, ricordati il maglione, dice lei, fa freddo, non preoccuparti, rispondo io, ci facciamo i pali delle porte con quello. Viene la sera e scendono le stelle, nero è il mare e nessuna luna dietro alle nuvole. Tu su quale treno, su quale aereo, in quale albergo, tu in anticipo, tu in ritardo, tu e i tuoi capelli lunghissimi, tu e le camicette bianche e i bottoni slacciati, gli occhiali su quale comodino e quale candela accenderai oggi? Il passo stanco, forza sui quadricipiti, nessuna casa è lontana, dove passare la notte è una domanda senza importanza, mi concederò alla sabbia che prenderà la mia forma, ne sono certo, saprà capirmi, sarò sabbia e terra e poi magma e poi centro del mondo, là dove tutto brucia. Verranno a trovarmi gli insetti, nei corridoi del mio naso, delle mie orecchie, nell’ombelico troveranno casa i paguri. E verranno le albe, i tramonti, le onde, verranno gli sguardi degli sconosciuti, avrò il tuo sorriso sul volto e tra le dita parole e un disegno, quelli di qualche anno fa, quando appoggiato ai vetri ricalcavo copertine di libri bellissimi e ci scrivevo sopra il tuo nome.
Foto: © Benedetta Falugi
Non leggerei mai questa roba. Una colonna di testo inattaccabile.
Non lo legga, Filippo, eviti. La roba fa male.