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Io gabbiano, tu mare

Il mare della Sardegna e le tue passeggiate lunghissime per poi gettarti nell’acqua a cancellare il sudore col sale.

Le bracciate rilassate in purezza d’intenti e lo sguardo agli scogli o al cielo. Durezza o blu e capelli bagnati d’estate.

Di fianco al letto i tuoi libri vari: lo sguardo sull’oggi e le riflessioni sull’esistenza. Coi dubbi che assalgono chi compie scelte forti e tutto il già detto custodito in silenzi.

Di quella prima volta a pranzo due battute sciocche e l’ironia sulla normalità degli altri, ti immaginavo come uno dei miei personaggi: complesso e folle, e mi mostravi la semplicità del vivere felice.

E così davanti a un caffè cominciare un’amicizia, che fai e come ti chiami e perché non ti lasci mai stare? Sedere alla stessa tavola senza il bisogno di dimostrarsi nulla, i dubbi sul presente e sulle carriere dei grandi. Uno sguardo che prova a scivolare sull’erba per togliere il pallone agli attaccanti del niente. A difendere originalità e brindare alla necessità.

Tu e i tuoi pranzi col lusso e gli incontri in vetrina. I tuoi viaggi a Roma, a Parigi, poi Santorini e i consigli sul bello. Che esiste un’arte da guardare e persone da incontrare. Per tutte le mie debolezze esposte in nero sulla tua camicia bianca e l’occhio esigente, ma comprensivo.

Quelle email che ci scambiamo ogni tanto e la concretezza del quotidiano. Riparare un armadio o accordare un organo.

Pensare alla brocca d’acqua trasparente che tieni sulla scrivania, dissetarsi in franchezza di scambi e simpatie nate in diversità.

Che se io sono gabbiano e volo tra città e mari per esercitare sguardi dall’alto e picchiate improvvise, tu resti mare e raggiungi le coste con sguardo nuovo, eredità millenarie.

Ascolti il mio verso gracidare in lamenti o esaltarsi in gioie da poco: un amore, un letto, un bicchiere di vino buono. Lasci il tuo silenzio ed esplodi in Buongiorno, mio caro, come va e poi stà bene, stà tranquillo. E davanti alle parole dei grandi sorridere ammirati e gesti di scherno e poi guardarci con cenni d’intesa, ogni amicizia una storia e a ogni ritorno un porto.

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Ho voglia di dirti sei bella

Come,

chi è rinchiuso tra sbarre d’uffici,

come,

chi ha una sposa pronta ad accoglierlo ad ogni ritorno, un piatto caldo in tavola, un piccolo uomo sbavoso e felice che piange per notti e poi cerca seno e mano donando affetto in cambio di calore,

come,

può pensare costui che una vita sciolta da ogni vincolo sia gioia e libertà assoluta?

Nulla a che vedere con questo hanno i capelli al vento, nelle vetrine a specchio dei palazzi borghesi i nostri soprabiti lunghi, le tasche lise e i gomiti consumati. I nostri sorrisi folli e quella sofferenza che ci coglie in mezzo alla notte mentre pensiamo al futuro dei nostri cari per lasciare il nostro in preda ai cani che si dividono membra già dilaniate dalle domande che recitiamo al mattino.

Per salutare il giorno coloriamo di nero la moka Bialetti e non ci basta un caffè, non ci basta nemmeno un pasto povero. Ci ingozziamo di vita, noi che non sappiamo accontentarci del sapore e vogliamo andare oltre le pietanze. E sballiamo col vino, i nostri denti rossi e la lingua lunga per cercare diamanti grezzi in seno alla notte.

Recitiamo lo stesso copione falso dei palchetti dorati delle città grandi alle donne incontrate per strada, diamo scandalo pubblico abbassando lo sguardo quando ci sentiamo accettati e ci lanciamo col dire ti amo soltanto dopo qualche minuto, un profumo.

Noi esseri disperati che non sappiamo come le nostre madri abbiano avuto il coraggio di chiamarci per nome, diventiamo rossi per un abbraccio e quando qualcuno prepara la tavola per le nostre facce ribelli, ci dice siediti e non toccare niente, che siamo ospiti entrambi, ma questa è casa mia.

Ospite della vita, in vero, a quattro zampe cerco ancora sul pavimento i cocci di bottiglia dei folli che mi hanno preceduto e ritrovo soltanto fotografie in bianco e nero e pagine e pagine di confessioni.

Vorrei vendere la mia Vespa di panna per poter dire: “Non possiedo nient’altro che una valigia di stracci e medicine contro il mal di testa e scarpe per camminare e diplomi da bruciare davanti al signore di Roma”.

Non sarò certo io a rivoltare gli argini del fiume disumano che attraversa i nostri costumi invernali, le maschere dei maiali e tutti questi no agli agnelli. Come se il bianco fosse intoccabile, la carne indesiderabile.

Mi stenderei sotto il sole d’aprile per aspettare le stelle cadute e maledire il tempo che ho perso e le parole sprecate con le bellissime dei rotocalchi.

Mentre mi accarezzo il petto e penso con stima, piacere, affetto a Lucio Dalla e ai colpi di mano tra i peli radi delle cosce magre, alle canzoni che accompagnano le mie passeggiate e ai viaggi in nave, per quella notte in aereo con Monica Bellucci dopo mesi d’Africa nera. Il bianco dei nostri schizzi è vita sciolta, sprecata.

Niente è più atteso dei tuoi tratti dolci quando in bocca hai l’amaro dei giorni. Ma occorre sciacquarsi le guance e poi ancora aspettare, che i passaggi bruschi non rendono gioie alla lingua.

Addormentarsi una sera ubriachi e ritrovarsi rock star.

Le mie paure delle dipendenze: la droga, l’alcool, l’amore e poi il mare.

Sento il richiamo blu del gabbiano, le isole della Grecia mi attendono ora che è arrivata una proposta da McDonalds spengo lo sguardo e getto la lingua di lato. Ho voglia di dirti sei bella.

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Dei discorsi interminabili di Meucci e delle lenzuola di Hemingway

Gli occhi incastrati tra i comignoli, contavamo fino a quando il pensiero si staccava da noi e ci trovavamo con le dita impegnate senza saperlo.

Il cellulare lasciato sul tavolo, i bicchieri tagliati in due dal rosso.

Per le trasparenze ci bastavano gli occhi e mi chiedevo se ci avessi dato del lucido, se esistessero ancora le bombolette che donavano la patina invisibile ai nostri lavoretti dell’asilo.

Quando il tuo gomito precipitava dal tavolo e facevi finta di niente.

I camerieri imparano tutte le lingue del mondo e io della tua non conosco la forma.

Ci siamo stretti intorno ai vicoli privilegiati di certa gioventù che si guarda troppo allo specchio, e ti dicevo che abbiamo perso tempo ad amarci in decalcomanie, che ora potremmo disegnarci senza l’aiuto delle fotografie.

Per i nei che danno senso al bianco, i punti neri per il grasso in eccesso. E poi un discorso sui trasferelli che non ricordo più.

Ci sorprendeva la grandine quando osavamo prenderci il tempo di guardare tutto dall’alto: il cielo parigino come la panna cotta dopo un lungo pranzo.

E mi chiedevo il perché dello sporco esagerato dei miei capelli.

Quando attraverso la strada ho paura delle biciclette.

E tra le lapidi dei grandi cercavo ispirazione e ti dicevo che sì i politici, sì i rivoluzionari, ma che ne è dei poeti? Hai mai conosciuto uno scrittore felice? Hai mai preso un caffè con Kafka? Un tè verde con Einstein?

Dei discorsi interminabili di Meucci e delle lenzuola di Hemingway.

Dimmelo ancora che i trapassati ci parlano, prossimi o remoti che siano. Dimmi che è della tua pelle bianca, dei pascoli erbosi del mio petto, delle tue labbra fini e del puttane agli angoli della strada. Che si sono divise il territorio per colore, mi dicevi, come a Risiko: qui i cinesi, qui gli indiani, qui gli africani, vuoi dirmelo ora che ne è stato delle prostitute australiane?

Per confidarti che la libertà si misura in incontri, delle malelingue delle città grandi e dei miei affetti per la provincia lombarda. Ti caveranno il sangue a furia di morsi, ti fischieranno le orecchie fino a farti impazzire, ma sai che non è cattiveria, loro lo fanno perché non hanno nient’altro, gli antidepressivi per stare meglio. Il giardino del vicino è sempre più stronzo.

Volevo scriverti dell’amore e ho spalancato le finestre: è entrato un gabbiano. Così gli ho domandato come ci si sente a perdere l’identità dell’io, gli uccelli non hanno nomi propri e va a finire che si confondono. Lui mi ha risposto che faccio domande non interessanti, che meglio è volare, andare, viaggiare, che a lui poco interessa dei riconoscimenti, che fa il pieno d’acqua, e aria, che abita il mare, ma non trascura i tetti, che si nasconde la notte e poi fa bianca l’alba.

Ci siamo stretti le ali come si fa nei libri per bimbi. E quando ha preso il volo mi ha fatto segno di rimanere, di non seguirlo, di prendere l’uscio, che a noi umani le picchiate fanno male, che non conosciamo le correnti e coi venti facciamo guerra, mentre loro no, mangiano, bevono, volano e sanno tutto gli orizzonti.

Così pensavo a te, e raccoglievo una penna bianca, la nascondevo tra i capelli e poi ballavo in cerchio, come fanno gli indiani, c0me fanno i gabbiani, e tu ridevi, pensavi che sciocco e a me andava bene anche così.

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Non sarà certo Baliani a salvarci

Non sarà certo Baliani a salvarci. Le nostre terre promesse i torroni i terroni per le mascelle dure il naso fino cento anni passano così in fretta mi dici che siamo già stanchi del ritmo lineare dei nostri battiti la superficie lucida delle pupille e i viaggi verso l’altrove. Col terzo occhio per i pensieri deboli che è così strano averti accanto e so come si piegano le tue guance quando scoperchi il bianco dei denti perfetti in fila come tanti soldati perché sei pacifista. Per i palati fini per le parole a grappolo che ci scorrono nell’intestino che ho dimenticato il sapore dell’uva mentre ti avevo di fronte. Per le strette di mano i complimenti rari. E poi cantarti in salmi la lista interminabile dei rettangoli che appoggiamo sul comodino e abbiamo fatto le pieghe alle rughe di Harry De Luca ai ghirigori surreali di Pennac e poi quel piano dovresti pimparlo hai presente il negroni quando è fatto bene? Un colpo alla testa, sangue caldo e cannella, le lacrime invisibili per la scena finale di Terraferma e quella barca che diventa cielo. E poi ci sono tutti i pensieri che girano attorno alle prime volte e le distanze che sostengono gli sguardi. Quando volevo essere un gabbiano per guardare dall’alto e dare a tutto una forma che poi se ci pensi più i contorni sono chiari più ti perdi i particolari e non volevo pescare e non volevo volare. E fanculo agli shuttle alle gare d’appalto che chi arriva primo vince e si perde il paesaggio.

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