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Cascate tra le vostre gambe

Provocavamo con l’estetica e suggerivamo ai passanti luoghi appartati per guardare l’orizzonte. E ci sorprendevamo a scoprire che l’immagine interroga più della parola. Così finivamo a riflettere sulla mediocrità dei nostri quotidiani che distraggono lo sguardo e costringono all’occhiale.

Dalla finestra di fronte la telecronaca di Genoa-Napoli e il vantaggio partenopeo. Dietro le porte piastre per i capelli e profumi dolci: i preparativi per questa notte, ci presentiamo alle cene già apparecchiati e non abbiamo pazienza nell’attesa delle pietanze.

Così ci riempiamo la bocca con le ultime del giorno e sonnecchiamo sui ricordi.

Un amico intanto scrive dove voi odiate, noi amiamo e tornano a sorridere le due metà della luna.

Dovresti scrivermi che mi vesto sempre di nero e scurisco il blu per distinguermi dal cielo, che sono tempesta e grandine e danneggio con facilità tutte le mie semine. Chiamiamole sconfitte queste mie incapacità ad adeguarmi alla norma. Chiamiamolo egoismo questo temporale che si gonfia di tuoni e coi fulmini costringe ad alzare lo sguardo. Così invadente che finirò sui libri di storia, un po’ come i romani, solo che loro conquistavano tutto mentre io brucio e faccio scintille nel cielo. Se scriverò ancora di stelle prendetemi il bavero e caricate il destro. Mentre coi cioccolatini alimento la mia bulimia. Non c’è dolcezza in queste parole. Siamo cascate e ci dirigiamo tra le vostre gambe senza pensare. Vi sorprendiamo nel mezzo del buio o alle prime luci dell’alba, voi vi chiedete perché, vi lasciate affascinare dalla piena, poi costruite degli argini. Che a lasciarsi sommergere non si sa che fine poi si fa, e sarete una novella Atlantide o una triste Venezia. Coi turisti e la malinconia delle isole coi contorni che puoi tracciare col dito.

Per diventare necessari abbiamo bisogno di correre il rischio delle mani vuote, di quando serri le palpebre, accompagni le mani sul cuore e pensi: che ne sarà di noi. E a furia di ripeterlo ti viene fuori la zeppola del Muccino giovane, così sorridi e pensi a Santorini. Ti chiedi: verrai con me, prima o poi?

Foto: dalla rete.

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Io gabbiano, tu mare

Il mare della Sardegna e le tue passeggiate lunghissime per poi gettarti nell’acqua a cancellare il sudore col sale.

Le bracciate rilassate in purezza d’intenti e lo sguardo agli scogli o al cielo. Durezza o blu e capelli bagnati d’estate.

Di fianco al letto i tuoi libri vari: lo sguardo sull’oggi e le riflessioni sull’esistenza. Coi dubbi che assalgono chi compie scelte forti e tutto il già detto custodito in silenzi.

Di quella prima volta a pranzo due battute sciocche e l’ironia sulla normalità degli altri, ti immaginavo come uno dei miei personaggi: complesso e folle, e mi mostravi la semplicità del vivere felice.

E così davanti a un caffè cominciare un’amicizia, che fai e come ti chiami e perché non ti lasci mai stare? Sedere alla stessa tavola senza il bisogno di dimostrarsi nulla, i dubbi sul presente e sulle carriere dei grandi. Uno sguardo che prova a scivolare sull’erba per togliere il pallone agli attaccanti del niente. A difendere originalità e brindare alla necessità.

Tu e i tuoi pranzi col lusso e gli incontri in vetrina. I tuoi viaggi a Roma, a Parigi, poi Santorini e i consigli sul bello. Che esiste un’arte da guardare e persone da incontrare. Per tutte le mie debolezze esposte in nero sulla tua camicia bianca e l’occhio esigente, ma comprensivo.

Quelle email che ci scambiamo ogni tanto e la concretezza del quotidiano. Riparare un armadio o accordare un organo.

Pensare alla brocca d’acqua trasparente che tieni sulla scrivania, dissetarsi in franchezza di scambi e simpatie nate in diversità.

Che se io sono gabbiano e volo tra città e mari per esercitare sguardi dall’alto e picchiate improvvise, tu resti mare e raggiungi le coste con sguardo nuovo, eredità millenarie.

Ascolti il mio verso gracidare in lamenti o esaltarsi in gioie da poco: un amore, un letto, un bicchiere di vino buono. Lasci il tuo silenzio ed esplodi in Buongiorno, mio caro, come va e poi stà bene, stà tranquillo. E davanti alle parole dei grandi sorridere ammirati e gesti di scherno e poi guardarci con cenni d’intesa, ogni amicizia una storia e a ogni ritorno un porto.

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Non ho mai amato nessuno, amo te

La ferita aperta sotto l’occhio sinistro e il mio sbattere la testa contro i tuoi muri.

Questo frequentare l’aria aperta e poi le strade vuote a cavallo d’orizzonte; mi troverai a immaginare le vite interiori degli altri.

Con le mandate di chiave sui tuoi desideri e poi queste fottute distanze che non ti bastava la sicurezza e hai fatto costruire un fossato col ponte levatoio dei tuoi spostamenti settimanali. Potevamo conoscerci al Plastic e incastrare le lingue, la testa pesante e l’alito sconvolto della domenica mattina. Mi hai detto un giorno che il tuo cielo è grigio e io ho pensato a Tiziano Ferro e a quelle canzoni che mi vergogno di continuare a cantare. Del mulino de la Galette e delle pale a vento sulle colline del centro Italia, dei nostri venti che cambiano direzione a seconda dei giorni e non c’è spazio per accumulare energie, soltanto chili di troppo e preoccupazioni sui giudizi del sé.

Non ho muscoli per abbattere i labirinti muscosi delle tue lentiggini, brucerei in un baleno nel rosso delle tue gengive e sangue dal naso per gli sbalzi di pressione. Ho visto le braccia colorate di Jovanotti e ho pensato a una fiaba, tu nella bocca della balena e il mio dente da narvalo per penetrarti. E farti scappare. Dalle gabbie e dagli aerei. Brucerà il tempio prima o poi, si scoperchieranno i tetti dei nostri desideri e dalle anfore scorrerà il vino lasciato da parte per i futuri importanti.

Come a Santorini ci faremo magma, luminosi al contatto con l’aria e poi neri da affondare il mare. Dalla lava le ceramiche più belle, le teiere che tratti con cura. Mi inviterai prima o poi a prendere un tè e mi si appanneranno gli occhiali. Per quel calore che tengo dentro, che tu rifiuti. Non ho mai amato nessuno, amo te. Non sono mai stato così lontano da me.

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Vediamo ogni giorno il mare

Ascoltavo Cremonini perché un giorno migliore verrà e non mi vergogno dei gusti pop dei miei jeans larghi delle chiazze d’olio sulle magliette il sudore della mia fronte è gratis in questi giorni d’afa. Non mangiano più le zanzare troveranno altre caviglie per succhiarci le forze per farci a pois come i cani antipatici che non ci fanno le feste quando torniamo a casa. Dovremmo uscire a cena, berci una birra e farla scaldare a furia di parole, perderci il tempo per le passeggiate nei parchi per fare ironia sulle corse zoppicanti dei giovani d’oggi. Quando eravamo sani quando eravamo belli ci sbucciavamo le ginocchia e leccavamo il sangue che sapore ha poi il dolore? Le nostre croste i nostri passatempi le lenti d’ingrandimento per le lucertole che sapevamo prendere i raggi del sole e fare un fuoco di paglia. Rapiti da questa città i tentacoli delle nostre relazioni appena nate e poi morte di sonno. Quando ti ho scritto che dovevamo fare dei tetti una coperta e lanciare le nostre frecce avvelenate all’ordine dei teatranti alle cronache scariche dei giornalisti e a questi critici a questi critici che condannano l’uso sano dell’intelligenza per la virtualità dei pensieri e la carica elettrostatica del nostro agire. Mio nonno coltiva pomodori sul balcone e sa dirmi con certezza che fare quando la luna è piena. E tu cos’hai da dirmi e tu cos’hai da darmi? Che poi non m’interessa che merito ne avrò che gusto c’è. Ho smesso di bere ti ho detto che non sento più i sapori quando smetterai di fumare di atteggiarti in riva alle finestre sentirai il pulsare forte del muscolo che tengo nascosto, il cuore lo sai che mi piace quando pensi male. Le tue mani scolpite sopra il mio letto quando ti sei sporta più in là e disegnavamo L nella stanza come a dire che per ribaltare il mondo basta rivoltare noi. Che abbiamo ricevuto un dono due volte e non abbiamo potuto restituirlo questa sensibilità che disegna i contorni alle cose semplici alle cose sane alle cose buone e l’impossibilità assoluta di sentirne il sapore che come gli asini sulle schiene portiamo i ricordi e rincorriamo le carote le pietanze impossibili e sulle strade irte di Santorini portiamo a spasso i turisti i culi sodi delle adolescenti ansimiamo forte un passo e un raglio i nostri oh sì ah di soddisfazione per lo sporco che accumuliamo tra gli occhi che vediamo ogni giorno il mare ma non possiamo tuffarci.

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