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Le lettere non si scrivono più

Non c’è coraggio nelle valigie, ma nelle braccia di chi le solleva.

La cura nel costruire architetture del bello per i nostri risvegli, le pareti bianche per svuotare lo sguardo e prepararlo all’incontro.

Lo stereo suona musica da camera, non so perché va a finire che giudico anche la musica che ascolto: se è colta mi porta al vezzo e i cantautori che potevi incontrare a Bologna già mi sanno di vecchio. Dovrei lasciarmi andare alla corrente romana, ma troppe g mi vanno di traverso e il canto della sofferenza ci scava le guance. Dico davvero, li vuoi guardare ora i miei occhi? Ho perso in bellezza e concedo alla barba d’incorniciarmi il viso. La mia risposta alle tue questue di tracciar dei confini.

Sarà che siamo raggiungibili sempre e comunque, sarà che la tecnologia ha tolto il freno alla lingua, ma quattrocento e più lettere dentro al mio blog e quattrocento e più colpi sparati a salve.

Ti ho sognata questa notte, lo sai, e cucinavi peperoni verdi e rossi, ti dicevo falli bruciare così la pelle viene via e dentro rimangono teneri e cotti. Rispondevi: ho paura del nero, dicevo, prova e te ne accorgerai. Lasciavi perdere, prendevi la macchina fotografica e l’appoggiavi tra le mie mani dicevi: scatta senza pensarci. Io non riuscivo. Non è la stessa cosa? Perché non la smetti di pensare e fai, dicevi tu. Cosa? Rispondevo io. E mi accarezzavi il neo sulla guancia sinistra, appoggiavo le labbra al tuo collo e inspiravo col naso per ricordarmi del tuo profumo. La tua pelle così compatta e la camicia a quadri con le maniche arrotolate. Quanti complessi hai tu? Ricordo il culo, le braccia e poi i piedi. Troppo celebrale per arrivare così in basso. Così istintivo da rubarti le anche e sussurrarti da dietro che le parole non servono a nulla.

Quando parlo di Parigi mi danno dello snob, quel che è rimasto dei miei viaggi nel nord Africa è soltanto sapore d’avventura. Che ne sai tu dei tramonti deludenti di certa savana, dell’equilibrio straordinario dell’orizzonte e delle spine delle acacie. Di quei cammelli che attraversano deserti per anni e il perché lo sanno soltanto loro mentre esistono treni fermi da trent’anni abitati dalle formiche. Quando Marquez Gabriel Garcia parlava della pietra filosofale che tutto trasforma in oro non si dimenticava degli innumerevoli ritratti di famiglia e della libertà necessaria dalle confraternite. Mi dici lo sai, domani De Luca Erri parla all’università statale all’ora di pranzo? Mi sembra una cosa bella, ti dico io. Verrai? Credo di no. Perché? Perché gli ho scritto una lettera e non mi ha risposto. Lo sai a quante lettere avrà dovuto rispondere? Le lettere non si scrivono più.

Foto: dalla rete.

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La libertà scritta sulle lenzuola

Così ti hanno dato il permesso di svitare il barattolo, che era già aperto, dicevi tu, ma non potevi uscire.

Che frustrazione guardare il cielo e trovare il vetro che spegne ogni volo.

E sostituivi ai muri i quaderni e poi mille tag  per decifrare il significato del tuo nome e isolarlo dagli altri. Tu li chiamavi fratelli, lo vedi poi che il cristianesimo e il comunismo in fondo in fondo si baciano? Te lo ricordi il graffito sul muro di Berlino, quello che nessuno capisce che significa e non si distingue tra giacca e camicia così sia lode ai patti stabili, agli amori senza distinzione di sesso.

Questa libertà ci farà male, ti dicevo io, mentre la trota cuoceva nel forno e tu appoggiavi gli occhi sull’orizzonte, dicevi lo vedi laggiù, lo sai che oltre mi è vietato andarci?

E col pensiero scalavi montagne e ti fermavi a riflettere sul significato della parola impegno e ci tiravamo paranoie infinite sui fumetti erotici degli anni novanta e mi dicevi che non è tanto l’atto in sé a sapere di meraviglia, ma tutto quello che c’è intorno. E l’inerzia ci portava a ballare sotto i soffitti alti i ritmi elettronici di un non so chi e mi dicevi lasciamo perdere i contatti, è questione di odori, lo sai.

E l’animale giocava tra i cuscini e tenevamo lontana ogni seduzione perdendoci a guardare gli spazi sporchi tra le piastrelle, colpa degli spliff dicevi tu, è un fumo di merda, potevi almeno pensarci.

E attraversi ora le strade facendo forza sulle cosce sode, la velocità dei pattini a rotelle e nessun timore dei semafori rossi. Sui luoghi del passato prossimo quelle lenzuola con scritto il tuo nome e la parola libertà. Sei libera ora oppure si sono allargati gli spazi? Che ne sarà di quei domani che avevi appuntato sul calendario? E l’emozione del varcare la soglia ci farà ancora venire presto e si rivelerà in pene o in gioie?

Per festeggiare taglieremo i cuscini e dai balconi getteremo piume: strade bianche e voglia di neve. Fatti abbracciare dai tuoi e riprendi il tuo posto. Sorridi ancora e sorprenditi diversa. Che i luoghi ci cambiano e gli orizzonti ancora ci interrogano. E attraverseremo le strisce pedonali ricordandoci di guardare negli occhi gli sconosciuti, per domandarci da dove vengono e dove andiamo noi. E spegneremo anche Rai3 quando ci accorgeremo che ci mettono a pecora per assecondare la morale dell’oggi e non far male a nessuno, sentirci più buoni. E ti prometto che non criticherò più il narcisismo degli altri e sostituirò l’io col tu che solo così ogni incontro è possibile e le domande non restano al silenzio.

Foto: dalla rete.

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Non è Mourinho e nemmeno Real. Manifesta.

E ancora Madrid non è Mourinho e nemmeno Real. Una scarpa rossa dimenticata sul marciapiede e piedi scalzi sulle terrazze. Odore di griglia e bandiere. Il fumo nero delle marmitte e i pianti molesti dei bimbi. Gli ululati lunghi dei cani e quei caschi tutti uguali. Non serve conoscere la lingue per preoccuparsi di quel che ci accade intorno. La pioggia di bombe e la mia vicina che se gettassi un lacrimogeno dal balcone verrebbe a prendermi per il collo, avvelenerebbe il ragù e comincerebbe a chiedermi dell’andirivieni che bussa alla mia porta. E classificare le morti a grappolo con un va così e non sentirsi morti un po’. Che quando sparisce un innocente che ne è della mia umanità? E quando faccio finta di niente è solo allora che raggiungo serenità prima impossibili. E concentrarsi sulla tensione dei muscoli e l’igiene dei condimenti. Faranno la mia anima a pezzi per darla in pasto a qualche bestia. Nei pascoli erbosi si mesce vino inquinato e acini d’odio, col venticello della calunnia che diventa monsone. Verrà il brutto tempo, arriverà sulla penisola e ci chiuderemo in casa, noi sotto i letti aggrappati al blu di Facebook che per salvarci scriveremo agli sconosciuti raccontando di noi. Di quando tornavo a casa un sabato sera, la via chiusa e camionette e divise antisommossa per rimuovere i nostri stati d’animo che fanno pernacchie alla quiete e si cibano di spazio. La strada chiusa è toglierci un altra possibilità di fuga o di cammino. Ci togliete spazi perché non potete toglierci il tempo. Le sigarette accese e raccontarvi i particolari poco interessanti: le tette sode della manifestante e le ossa deboli dell’adolescente. Che fine faremo noi davanti alle vostre forbici per tagliarci le lingue? Il corso lungo di Porta Romana e quei muscoli in movimento separati ormai dal corpo. Sempre le stesse parole. Ci hanno ridotto al silenzio ritagliandoci lo spazio intorno. E come i trasferelli siamo avvezzi all’appiccico. E siamo così vicini che ci confondiamo. E siamo così vicini che non respiriamo. E come uscire da tutto questo? Una barca e andare e poi verso dove? Come in Albania negli anni novanta quando partiva una nave diretta verso l’Italia correvano tutti: i belli e i brutti, i ricchi e i poveri, i giovani e i vecchi. Tutti correvano verso la terra vista in tivù, tra i pixel e il design raffinato, i culi grossi delle trasmissioni di cucina, i muscoli tonici dei calciatori e le cravatte dei professionisti. Le canzoni dei premier e i dibattiti moderati. E giornalisti al posto degli intellettuali. E come noi oggi correvano tutti e perderemo tutto il fiato per lo sforzo così quando arriveremo un giorno a prua e ci chiederanno il perché  del nostro andare noi non sapremo rispondere.

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Con le palpebre ancorate all’autunno

Lasciare il mondo con le palpebre ancorate all’autunno.

Il bianco degli occhi, la riva del fiume, i sassi lanciati al pelo dell’acqua e lo sporco sotto le unghie. Le ginocchia piegate ad arco per l’attraversamento pedonale dei cigni.

Vorrei avere ventidue anni. Un’estate. Il barcone sulla Senna, i nostri corpi nudi, l’odore rancido dell’acqua del bordo. A scaldarci come rami intrecciamo le ossa: i rituali dell’ardere e poi sospirare guardando il cielo che non c’è, lo sciabordio delle onde degli sguardi degli altri. Dentro gli oblò che danno sulla riva i binocoli ciechi dei curiosi. Il mio pene disegna rotte sul pavimento, lo segui con gli occhi e mi dici che somiglio a un compasso e prendi in mano il mappamondo e cominci a farlo girare forte così che i continenti si confondono, lo alzi e diventiamo campioni, la coppa blu e verde per quei nostri mari che hanno la consistenza dei prati.

Dove vorresti andare tu?

I pesci che sbattono le ali mentre lasciano andare alla bocca le parole che abbiamo mandato in letargo.

Hai urlato forte il mio nome, io il tuo, il mondo appoggiato al pavimento e noi a girarci intorno, a giocare a prenderci, a far rimbalzare i denti contro i muri, l’odore fresco dei sorrisi dell’adolescenza.

Ci siamo detti, andiamo, partiamo, coi nostri corpi che si sono alzati in volo, sull’altalena dei tuoi fianchi le mie spinte più belle. Nelle discese sulla tua schiena gli uau che m’erano rimasti in bocca nelle estati in montagna. I roller coaster dei week end estivi e le mani dei genitori. Quei silenzi da ritorno in automobile, dormire sul sedile di dietro e poi in braccio tra le coperte pulite. Il peso dell’affetto di mamma a sfondare il materasso e il c’era una volta per la buonanotte.

S’è fatto buio e siamo scesi a riva. Mi hai detto bello sarebbe i nostri piedi nudi e lanciarci dal Pont Neuf e dimenticarsi dei colori degli oceani. Mi hai guardato negli occhi: lo sai quanti ne ha uccisi la musica? E la scrittura ti ho detto io, lo sai quanti ne ha uccisi? Così abbiamo acceso lo stereo, il ritmo elettronico dei nostri cuori, la mia lingua lunga, ti ho scritto sulla schiena qualcosa che non mi ricordo. Quando mi hai detto, non è importante che cosa, lasciami dimenticare, non vorrei essere io la causa delle tue morti e io ti ho detto che sapevi di sale.

Foto: André Kertész, Distorsioni Cognitive

Photo  editing: Neige

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Gli sguardi in metropolitana

Gli sguardi in metropolitana per gli orizzonti che ci siamo persi. Partono ancora gli aerei e nelle sale d’aspetto la gente abbronzata. I fanghi di Guam e queste creme per la nostra pelle scaduta. Che siamo come i serpenti inghiottiamo i giorni senza masticare e digeriamo le notti.

Questo cielo che scivola sull’asfalto. Le mie corse per non pensarti. I marosi rancorosi e le parole che si fermano in gola.

Nei cinema il film dei puffi e l’aumento dei biglietti. Le nostre corse per non perderci. Che se non vedi l’inizio non capisci la fine. 2001 odissea nello spazio e i viaggi verso il sole con gli occhiali neri. Le campagne antifumo e le cartine di sigarette per respirare in pace. Le mie parole a doccia e le tue bracciate per non affogare.

Suonerà prima o poi la campana, si illuminerà il display, e non sarà un’altra stupida promozione.

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