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Quando divento alta ti sposo

Si sono rotti gli altoparlanti e la stazione è un gemito lungo che costringe le mani a riparare le orecchie. Come tanti conigli sulla banchina aspettiamo la partenza.

Fanno finta di nulla gli adolescenti con le loro caviglie scoperte e le gambe fasciate dai pantaloni della tuta, mulinano le lingue giovani e le fanno incontrare, la mano che stringe il trolley si rilassa. Poi il rumore sempre uguale delle rotaie, la geometria delle coltivazioni dei pioppi e per tracciare i fili dei nostri giorni i tralicci della corrente ci raggiungono ovunque. E fiori bianchi e fiori rosa e arbusti ai lati della ferrovia.

C’è una ragazza, una maglia bianca morbida senza maniche, sfoglia un quaderno, si stufa, si appoggia sul fianco e poi chiude gli occhi. Il ragazzo di fronte a me non teme il sole, indossa occhiali neri, lascia tranquille le tende blu. Io mi guardo intorno, poi mi perdo in pensieri tra le righe di un libro, uno sguardo al cellulare, uno al finestrino, cercare solidarietà nella lingua incomprensibile dei neri dalle labbra grandi mentre una donna sui trenta, capelli nuovi e shatush, tra un figa e un bella stila l’elenco delle sue nuove amicizie.

Chissà tu come siedi quando viaggi sola, se ti addormenti facile oppure lavori, magari alleni lo sguardo e ringrazi il riparo delle province d’Italia. Dove vado io e tu dove vai? Cosa c’è dopo queste rotaie, dopo la strada fuori dalla stazione, oltre il verde, oltre il mare, oltre l’orizzonte, cosa c’è?

Ieri pensavo a Rahel, alla sua pelle d’oro, agli occhi grandi, al suo fratellino col pugno sempre alzato. Eravamo bellissimi, dicevi, quando divento alta ti sposo. Ma eri già grande e io non lo sapevo, avevi le mani forti e i piedi più duri dell’asfalto e ora che il tempo è passato sei nei racconti e morsi di serpente sulle tue braccia, poi quattro figli e un collo resistente per trasportare sulla testa gli otri dell’acqua. Cara Rahel, era così bello, non ti ho mai amata come volevi tu, hai ragione, ti ho voluto bene e non era abbastanza, ma non è stata colpa mia, non si poteva e basta, ero così giovane, ero così sciocco.

Sul muro della stazione una scritta: “Oggi ho battuto la vita, sono morto.” Così mi son fatto silenzio e per un’ora, forse di più, non lo so, non ho pensato a nulla, nulla che ricordi, non ho pensato… ho pensato che, che non mi va di raccontarlo. Poi le borse, le scarpe, la moda, il colore, le riviste, ho preso aria, aria ancora, ho aperto i finestrini, ho guardato fuori, i ragazzi ridevano, i bambini giocavano a rincorrersi, facevano finta di picchiarsi, le madri parlavano tra loro, la vita era fuori, qui dentro che c’è? Dove li stendo i pensieri?

Poi nel vagone risuona una domanda: “Dite davvero che mi vesto da troia?” E’ ancora silenzio, diverso da prima, gli amici che ridono, e il selfie di rito. La ragazza con gli occhiali neri fa la foto alla terra rivoltata, i riflessi del finestrino e i filtri di Instagram, saremo bellissimi quando guarderanno i nostri album di fotografie. Cosa diranno i tuoi occhi senza il riparo del trucco? Il tuo culo senza i pantaloni sarà ancora lo stesso?

Vai tra, ti dico io, non sei credibile quando porti al polso i braccialetti dei villaggi turistici. Mi controlli più tu degli impiegati, solo a Bologna e a Milano ti fermano, nel mezzo non fare il biglietto, dai non pagare, non serve a niente. E poi quei discorsi: le osterie non son più come un tempo, suoni la chitarra tu? Diventiamo ridicoli, come quell’altro che si domanda se esistono ancora i quartini di vino sfuso o la mezza nelle caraffe di vetro, sarebbe un’indecenza, dice, un insulto al gusto, dice, poi pubblica pagine sulla provincia, ma che ne sai dei miei giorni, delle mie indecisioni? Che c’è di male nell’indecenza? Cosa dovrei dirti ora che frequentiamo lo stesso giardino, gli stessi salotti? Sorriderò come tutti gli altri, complice anch’io di questa falsità che tutto vela, che ci rende ciechi e sordi e muti, coi denti bianchi e le labbra sempre più rosse. Il sangue blu.

Scendo dal treno in fretta, poi ti dimentico. Non ti dimentico.

Foto: dalla rete.

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Ma è già abbastanza

Tra i nostri esercizi di vanità un cerotto sull’indice e un taglio superficiale. Ripeti perché proprio a me così ci mettiamo a discutere su quel che ci è capitato in sorte e con le espressioni del viso dimentichiamo di accettare di esistere e poter far qualcosa per alleviare la sofferenza del non saper che dire, che fare, nemmeno dove andare. Dovremmo soltanto accettare la gioia, mi dici. Ma quale? Queste parole così gonfie che pronunciamo quando non sappiamo spiegarci e vogliamo sembrare più grandi. Oltre alla miseria delle nostre chiacchiere nei bar, quando degli incontri ci ricordiamo soltanto gli incipit o i saluti e il resto sono occhi altrove tra i cercatori di attenzioni e questa noia che portiamo sul dorso della mano destra come i timbrini all’entrata delle discoteche. La prima doccia non lava via nulla, bisogna grattare, quasi farci del male.

C’erano tre amici sul balcone e guardavano i carri sfilare, il carnevale che fa scendere in strada e colorare l’asfalto, dimentichi di ogni futuro e ignoranti di ieri ci ritroviamo cresciuti e sempre meno volgari, al di là dell’esibizione delle intimità e della nostra lingua che non teme imbarazzi.

Un’altra domenica di campionato e ceneri in testa, progetti per i lunedì pronti ad essere rimandati e diciotto gradi fuori dalla finestra. Per far prendere il sole ai cani nei parchi, per far prendere freddo alle nostre camicie primaverili, il tuo cappotto giallo in fondo alla strada e la curiosità vana nello scoprire che dentro non ci sei tu.

Tra le panchine verdi delle Tuileries e le statue in bronzo con le dita puntate verso di noi che riempivamo la borsa leggera per sostare nel verde e leggerci le carte, guardarci le mani e non scegliere mai. Che è più facile starsene soli, farsi il proprio ordine e chiudere le persiane quando è quasi buio per evitare lo sguardo invadente degli avventori.

L’irritazione di stare al tavolino a sorseggiare il caffè e tu che mi dici che soltanto i saggi dimenticano la propria testa.

Vorrei fare a botte con la poesia fino a lasciarmi ferire, abbandonare tutto questo lirismo in cerca della verità del dire, siamo diventati così evocativi che finiamo per essere finti e dopo tre righe mi cadono gli occhi, le palpebre chiudono il vuoto mentre le biglie rotolano e le spiagge si popolano delle orme dei cittadini riflessivi che cercano nel mare qualche risposta, ma trovano soltanto quiete e poi altre domande, ma è già abbastanza.

Foto: Andrea Pazienza, disegno.

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Dei sottofondi

Seduto al tavolo nell’alto cielo delle terrazze, tra l’erica e il piccoli ulivi in vaso, seduto a gambe incrociate per non far prendere freddo ai miei piedi sempre nudi, appoggiavo il sigaro sul piatto del caffè, chiudevo gli occhi e lasciavo asciugare i pensieri al sole.

Pensavo sarebbe bello stare qui ore a cercare di non immaginarsi le vite degli altri, a dar noia ai vicini ballando quelle musiche col ritmo sempre uguale. Ad ascoltare i discorsi dei tuoi amici mi annoio presto così riempio il bicchiere e mi faccio di sorsi e tutto è più accettabile, una lunga ninna nanna che mi conduce a non sentire più nulla e a non offendermi per la mancanza di attenzioni, per la piccolezza delle parole che per quanto perfette non varranno mai il tempo.

Condividere il luogo e il tempo e dilazionare il possesso. Vorrei facessimo colazione insieme, con le tazzine bianche e i piatti bianchi, con la tovaglia bianca, con l’odore del pane, con il tuo sguardo che vuole essere lasciato in pace e i tuoi capelli che vengono dalle lenzuola. Potremmo anche non parlare. Magari potrei sfiorarti o versarti il caffè, riprendere il sigaro e continuare a fumare.

Non leggerei libri per settimane, troppo impegnato a buttar giù le mie insicurezze, a proteggere il basilico in pianta che abbiamo messo sul balcone della cucina.

Intanto c’è Clara che combatte per la sua giustizia e s’arrabbia col cielo, lo colpisce coi fuochi artificiali, Giulia che è scrive l’ennesimo curriculum e cancella i suoi studi, sommersa di volantini di pizzerie e kebab; Shanti continua a fotografare la realtà come l’immagina, mentre Davide scrive articoli lunghissimi per quindici euro. Rosario è caduto dalla Vespa, si lecca i danni d’immagine e pensa al significato dell’esistenza, sua figlia gli firma il gesso e gli dice che invidia, vorrei portarti in classe per farti fare gli autografi dai miei compagni. Laura indossa un grembiule a trent’anni e cammina su zattere altissime, porta sulle spalle cartelle enormi in pelle e si trucca sempre col nero, spende lo stipendio in concerti, Marianna continua a fare foto nuda e a pubblicarle sui social network, si vergogna però se la guardi negli occhi.

E tu resti sempre distante, con la valigia chiusa come se questa vita fosse sempre una partenza e quando si arreda casa è per fare un’opera d’arte, poi trasferirla. E io non sto mai bene dove sto, immagino sempre un altrove. Immagino sempre un qualcuno. Dice che ci si guarda intorno soltanto quando si è soli, ci si orienta nel bosco in solitudine, la soglia dell’attenzione cresce, ma è nel desiderio che si trova il coraggio d’andare e si dà senso alla parola nel passo.

Di quando il cammino di Santiago non mi ha detto proprio nulla, concentrato com’ero su di me. Mi sono svegliato così tante volte all’alba che ora ragiono soltanto a mattino inoltrato. Solo una prova di forza. E’ come andare a una festa e obbligarsi a non bere, a non mangiare schifezze. Il sacrificio è qualcosa che capita, non è un destino.

Mi chiedi perché scrivo tutti i giorni e ti rispondo che non rifaccio sempre il letto. Poi ti muovi davanti a me come fanno le canne dei laghi, mi inviti al tuffo e io ti rispondo di no, il cuore altrove.

Poi mi dilungo, ti dico che mi interessano le persone e pochissimo i sottofondi. Tu trovi la luce giusta e mi scatti foto in salotto, faccio fatica a tenere le mani aperte, così ti ci infili nel mezzo, nel tuo petto rumore di rotaie, fischiano i treni dentro alle stazioni, e del lavoro chissenefrega, sarà per un’altra volta.

Foto: Gabriele Basilico

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Non è tornato il silenzio

Non è tornato silenzio a consolarci le notti. Le sveglie in ritardo, le luci dell’autostrada e i viaggi così lunghi di quando evapora la voglia di parlare e suona sempre lo stesso disco. Per perdere il treno siamo sempre in ritardo. Scorrevo la lista delle città più belle, dicevi che ora no, siam tutti luci e sguardi alle vetrine, disorientati dall’euforia o cinici, fuori da noi in questa pianura padana che permette alle trottole di continuare a voltarsi e non fermarsi mai.

Abbiamo visto troppi film e letto troppi libri, dicevi tu, immaginiamo le vite e finiamo per vivere a metà. Moltiplicavo i piatti di pasta per vederti seduta al mio fianco e accendevo candele la sera per confondere le stelle, costringerle a chinarsi e guardare giù. Non saranno le luci artificiali a salvarci, e sulla musica dub ti muovevi sempre nello stesso modo. Ti traducevo canzoni francesi, sono così antipatici, dicevi tu e io alzavo le spalle.

Quanti camini accesi e quanti fogli di giornale consumati sotto la legna. Riposano i semi negli orti e i cani abbaiano per scaldarsi. Le automobili in sosta, i loro clacson nervosi e semafori stanchi dell’attraversamento pedonale confondono i colori e creano disordini.

Vorrei vestirti con delle vecchie foto, farti scoprire i ricordi del corpo che vedi: le risa fuori dalla città, gli spogliatoi e i campi di fango della provincia, le cene con gli amici ai tempi dell’università. Di quella volta sull’automobile in quindici, le mani sul tetto e il culo in bilico sul finestrino, le cadute sull’asfalto, i polpastrelli consumati, la giacca militare di quell’amico che non c’è più e che m’aveva iniziato al rock.

Qui invece finiamo per proteggerci: giubbotti e autoscontri, militari nei centri storici, il buonismo della politica che chiude le curve e poi le riapre, i rettilinei impossibili a realizzarsi e i missili pronti a partire, i nostri occhi chiusi troppo a lungo e io che ancora ricordo il profumo delle tue guance.

Foto: Nicoletta Branco.

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Di vestaglie e balconi

Sulle tastiere retroilluminate dei nostri device, smarriti nel tempo a pensare a chi siamo: i confronti con l’altro e sogni di un avvenire che mai s’avvera. Le tue borse con le firme nascoste e quel nero che porti sfumato tra gli occhi: le bandiere che accompagnano i tuoi arrivederci e tutti questi balconi mai abitati. Non domandarmi più delle mie solitudini e raccontami come fai ad affrontare le attese. Poi a bassa voce ti dico: invecchieremo così in fretta e torneremo ad uscire in vestaglia per annaffiare le piante, coi figli dei vicini ad animare le nostre serate e porte aperte e polpette ancora calde a farci compagnia. Così un bicchiere di vino non sarà un aperitivo, soltanto un pretesto per stare a tavola ad ascoltarci.

E mentre allunghi il destro e ti lanci in danza, il ritmo beat del chitarrino e i volti decadenti, penso sono passate soltanto due ore dai ritorni dei pendolari e dagli odori grevi degli scompartimenti che ci confondono come le mandrie, mi dici almeno le greggi s’ammassano nei prati e mentre cominci un discorso senza fondamento sulla coltivazione delle pannocchie e sugli sprechi dell’acqua io mi accarezzo le dita: l’anulare così imperfetto è l’unico ostacolo alla mia fede.

Perché non torni in provincia? Mi chiedi. Ci presentiamo stanchi alle nostre famiglie e distendiamo il volto davanti alla tivù che tutto deforma. Le telefonate pigre per annunciare ritardi ormai rituali e poi le scuse col capo, la moglie, le madri.

Cerchiamo le strade di campagna per addestrare il passo in questo mondo borghese che si è lasciato dietro le spalle anche lo sporco. Che tutto è bianco, tutto è stirato, tutto è perfetto, le macchie di sugo le lasciamo agli infanti e per le ginocchia sbucciate facciamo appello ai ricordi, alle domeniche degli oratori e alle scarpe microscopiche firmate Nike. Dei miti greci sono rimaste soltanto insegne americane.

Per ritrovarci sempre a sera col dubbio del che fare. Poi le manifestazioni dei miei malumori le bombe carta delle tue ansie. Non mi scrivi perché hai paura del fuoco che abbaglia l’occhio e brucia le carni. Ci consumiamo in lontananze e come le braci basta un soffio e per farci fiamma e poi danza. Allunga la mano, mi dici tu, e io penso alle foto sciocche, un dito per sollevare il sole e due mani per accarezzare le tue gambe a x. Di quando volevamo prendere al volo gli aerei e non bastava allungare le braccia. Di queste notti insonni e di coperte leggere, delle tue labbra morbide e degli sguardi tra i panni stesi.

Tornasse Pasolini vorrei provarmi i suoi occhiali e domande sciocche sul sottoproletariato incastrato sotto alle marmitte: una pasta alla carbonara dopo il lavoro nei campi e il sogno della ricotta. Non ci sto bene in questi panni eleganti, non ci sto neanche male, ma è tutto un problema di specchi, ci fossero almeno i tuoi occhi, non cercherei la perfezione nel vetro. Mi vien da sorridere: penso ai tuoi capelli caduti tra i bottoni della camicia e sui maglioni invernali, dovresti toglierli tu perché io, lo sai, non mi permetterei mai.

Foto: dalla rete.

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Due tiri allo spliff, tre sputi per terra

Cambiare la posizione del divano per cercare la luce e illuminare gli incubi della notte.

Ci guardiamo allo specchio giocando col ventre, stringendo i glutei per aderire alle mode del momento. Un giorno troppo magri e quell’altro troppo grassi. Non lo so come ci si sente sulle tue scarpe alte o che effetto fa allungarsi gli occhi col nero e far delle labbra una foglia rossa. In metropolitana si mischiano i profumi e non so distinguere i generi. Nella provincia ragazzi con giubbotti di pelle stanno seduti sullo schienale delle panchine, due tiri allo spliff e tre sputi per terra, due tiri e tre sputi per immaginarsi adulti. Così le vecchiette credono alle malattie dei piccioni e si prendono cura delle strade nere chine a raccogliere le cartacce. Le sigarette spente a metà per i richiami all’ordine e le iniziative promozionali delle compagnie telefoniche. Tutti i gruppi di Whatsapp ci hanno insegnato a non salutarci, alle domande dirette e alle risposte lunghe una riga. Così ancora ti spaventi quando ti parlo coi capoversi.

Nelle tue guance morbide il ristoro delle mie dita. Ci sveglieremo insieme in un supermercato e mi chiederai che resta della notte. Le luci al neon nell’ovunque.

Se avessimo a disposizione tutto il cibo del mondo cosa mangeresti? Se avessimo tutto il denaro cosa compreresti? Mi hai risposto che alla fine ricerchi il viaggio soltanto per incontrare il diverso, sia uomo, vulcano o mare e negli oceani affogano tutte le paure di chi tiene le chiavi in tasca e nel bling bling non trova quiete.

Ora suonano le campane dei monasteri, delle chiese di paese, mentre fischiano i capotreni e le porte si chiudono, le coppie si salutano. Rimpiangi i baci della tua adolescenza e incontri un’attrice che indossa le Hogan, così ti spieghi la decadenza dei palchi tradizionali e le avanguardie che si spogliano dei pantaloni con la nostalgia degli anni settanta e l’ultima intervista di Jodorowsky che non serve a niente. Puoi parlarmi ancora di Bob Marley se vuoi, dirmi che è la persona più nota del mondo, e io comincerò a scrivere con le canzoni di Rihanna in sottofondo, che altrimenti resto indietro, e non c’è più maestro che si faccia seguire.

Foto: dalla rete.

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Te o il cane

Sono due settimane che non leggi i giornali. Me lo dici al telefono mentre ti chiedo ma tu come fai a non pensarci. All’Egitto e alle guerre dei nostri intestini. Così mi rispondi che hai già troppi gomitoli da sbrogliare, poi che ti devi truccare e che verranno a prenderti, ma faranno tardi, o farai tardi tu, non ha importanza.

E mi sussurri che tra i tuoi amici sono l’unico che arriva sempre in orario e che il mio atteggiamento ti costringe a confrontarti col tempo e con te. Così ti faccio il verso e ti dico pensa a prenderci meno sul serio dove saremmo adesso. Magari a Miami, mi dici tu. Di quando muovevamo l’ombelico ad Ibiza ed era soltanto un desiderio da diciottenni.

E poi mi chiedi che fine hanno fatto tutti i miei amici maschi. Così ti racconto che viaggiano in bicicletta per raggiungere il compleanno di un signore di anni novanta e poi se ne vanno a prendere il tetano Phnom Penh. E tra le montagne maturano i matrimoni, sul mare si affacciano i nuovi nati. E tutti quanti facciamo foto color seppia alle carrozzine che attraversano le strisce pedonali per strizzare l’occhio alle cartoline degli anni settanta, quelle che ci piacciono così tanto che non sappiamo più scriverci.

Quanto mi mancava la provincia italiana, ma nessun funerale per la chiusura dell’ultima libreria.

E gli intelligenti con la barba e le camicie in tinta unita lasciano i destini dello stivale nel fondo dei bicchieri di bianco. Le blogger appassionate dell’oriente che grondano rabbia e sfogano violenza in parola. Meglio sarebbe sollevare pesi in palestra o farsi sfondare da adolescenti curiosi.

Delle mie contraddizioni e di tutte le attese, d’estate dimentico il nome dei giorni e il mio letto è stufo di sopportarmi.

E per fortuna c’è il calcio mercato, con la vittoria della Supercoppa e il mercato degli esterni. Ci vuole qualcuno che corra e sappia offendere. Il fatto è che non ci insultiamo neanche più e prendiamo sonno troppo facilmente.

Sono due settimane che ho ripreso a guardare la televisione e già mi basta. Chiamami e dimmi prendi il treno e raggiungimi, qui non c’è nulla, avremo tempo per i discorsi, anche il mio cane chiede di te. Così mi torna in mente quel dubbio di sempre: ti bacio o prima accarezzo il cane?

Foto: Mael Baussand

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Provincia

Alla fine la provincia c’ha ‘sto pregio che conosci le persone da quando son nate o giù di lì e non ti interessa che lavoro fanno e come si vestono e cose così. Sono loro per come le hai sempre conosciute e nulla più, che poi è anche un limite okay perché ci sono tutte le malelingue dei posti piccoli e gli orizzonti stretti però c’è ancora la brina e i camini hanno un senso, forse è ora di smetterla con l’avvicinare città e libertà solo perché fanno rima.

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