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Io mi chiamo Marco e faccio il viaggiatore

A Roma, al Pigneto, al bar Necci, si gioca alle carte dalle otto del mattino. Ci giocano signori in pensione, sono seduti su sedie bianche e lanciano le carte sulle piastrelle lucide del tavolo. Qualcuno vince, qualcuno perde, nessuno esulta. La Roma è stata sconfitta all’Olimpico, la Lazio ha battuto il Torino e ora ha un solo punto di svantaggio in classifica. Qualcuno tossisce, qualcun altro invece bestemmia e ride, chiede un caffè e il barista annuisce, torna col caffè dopo un quarto d’ora, il caffè è freddo. “Di chi è il caffè?” Chiede con l’accento africano. Nessuno risponde, sono le dieci e i pensionati se ne sono andati chi a fare la spesa, chi a comprare le sigarette, chi a tener compagnia alla moglie davanti alla televisione. Io leggo l’ultimo romanzo di Carrère, solo due pagine, mi annoia. Mi guardo intorno, ci sono molti specchi alle pareti, posso guardare senza essere guardato. Una ragazza coi capelli neri parla di un ex mattatoio, dice che bisogna avere il coraggio di investire nel futuro senza essere investiti dal futuro, poi domanda il nome al barista, due volte, lui risponde due volte, io non riesco a sentirlo, si presenta anche lei dice: “Chiamiamoci per nome da adesso e per sempre.” Lui annuisce, lei lo chiama per nome e gli chiede un orzetto. Lui annuisce ancora, poi dice “Te lo preparo, non facciamo servizio ai tavoli però devi venire a prendertelo.” Lei risponde “Grazie.” e il nome di lui. Lui se n’è già andato dietro al bancone.

Anche io fino a pochi anni fa chiedevo il nome ai camerieri, poi ho cominciato a pensare che è una domanda che rivela un’idea buona di mondo, un luogo dove il nome viene prima del ruolo, ma c’è in tutto questo qualcosa di presuntuoso, di insolente. Quando facevo il cameriere infatti non mi piaceva che mi chiamassero per nome, forse perché mi sentivo essere più del mio lavoro, forse perché mi sentivo più del mio nome. Così ne avevo inventato uno, per non essere scortese: Benjamin il cameriere; rivelavo quello vero soltanto a chi mi ispirava fiducia o affetto o simpatia.

Mi chiamo Marco e sono un viaggiatore.

A Firenze, vicino alla stazione, c’è l’Osteria Nuvoli. All’Osteria Nuvoli puoi chiedere il gotto di vino, il calicetto e il bicchiere. Il gotto sono due sorsi, il calicetto cinque, il bicchiere non so, ho perso il conto. Da Nuvoli puoi bere del Brunello di Montalcino per pochi euro, puoi mangiarti i fegatini e pure la trippa o il panino con la porchetta. Da Nuvoli puoi aspettare il treno e far chiacchiere con l’oste o con gli avventori. È frequentato dai turisti ma quelli si siedono a tavola, invece intorno al bancone, sugli sgabelli, siedono i fiorentini. Così c’è Giulia dai capelli biondi che non ha passato l’esame di teoria della patente per un errore di troppo, la sua amica ricciola che la consola, la fotografa di arredamenti che beve un bianco prima di tornare a casa e cenare da sola, l’avvocato che ce l’ha con il traffico e l’oste che quando s’annoia parla della Viola, la Fiorentina che ha battuto il Milan due a uno e ora se la gioca con la Roma per il passaggio ai quarti di Europa League. Da Nuvoli non ci sono specchi e le persone le guardo negli occhi, complice è il vino che fa cadere ogni riservatezza. Così faccio sempre amicizia con qualcuno, parlo di come si vive a Firenze, del fatto che io non sia toscano ma sogni una casa in collina. Dice: “Tu vo’ fa’ l’americano! Non se la compra più nessuno la casa là fuori, ‘i son care, noi le si vende, si va via!” “E dove andate?” Chiedo io. “Via!” Risponde lui, “Si va via.” La ragazza della patente mi guarda e ripete “Via!” L’oste mi guarda sorridente, dice: “Eh, si va via!” E io mi chiedo dove sia questo via, dove stiamo andando tutti. Saluto e mi incammino verso la stazione, il treno è in ritardo, ho sonno, sempre colpa del vino.

Le poltrone dei Frecciarossa sono spaziose e comode. Le prese di corrente funzionano e riesco a ricaricare il cellulare. Mi arriva un messaggio “Ci siamo allontanati molto, cosa posso fare per te?” Rispondo: “Non lo so, io vo’ via!”, risponde “E dove vai?” Poi mi addormento.

Il treno frena, arrivo a Milano. A Milano c’è il sole, a Roma pioveva, a Firenze pure. A Milano Necci non c’è, nemmeno Nuvoli. Dove vado? Via. Via, sempre via.

“Tu sei pazzo.” Risplende il display del cellulare.

I pazzi stanno nei manicomi, io no, io vo’ via. Io che sono Marco e faccio il viaggiatore.

Foto: © Giulia Bersani

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L’indice destro per disegnare orizzonti

Potremmo stare più tranquilli, farci meno domande, evitare di bere per non pensare, di riempire i nostri pomeriggi di desideri quando vince la pigrizia e va a finire che guardiamo il soffitto sperando che qualcosa succeda o meglio, che non succeda nulla. La serenità artificiale delle quattro mura, il viaggio come anelito e la necessità di far sempre un passo indietro per prendere la rincorsa e ripartire altrove. Ti dicevo quando troverò una casa non sarò più quello che ero, così ora che ho cambiato quattro stanze in quattro mesi ho le valigie gonfie di libri sottolineati, sfogliati, pagine con le orecchie e copertine sporche di caffè. Il mio corpo si consuma, la corrente si consuma, anche l’acqua si consuma, perché aver rispetto della carta? Non c’è tempo da perdere, dici, un treno ci aspetta, non so dove andare, ti dico io, rispondi fidati e mi porgi la mano. I capelli ti si appoggiano alle guance, è un istante, poi volano sulla tua nuca, il treno parte. Io rimango sulla banchina. Quando pensi la bocca ti rimane sempre socchiusa. Vorrei avere il tuo sguardo. Penso che il mondo è per tutti diverso, che a volte è proprio impossibile capirci, che tu sai creare orizzonti spingendo l’indice destro sulla macchina fotografica. Sei così severa con te, fino al chissenefrega. Ho una cartella sul desktop, è un tuo diario di un viaggio lontano, pensavo fossimo vicini a quel tempo, invece eri già partita e io non mi ero accorto. Qui è zuppo di turisti tedeschi, hanno tutti un cappellino di paglia, sono al Colosseo, a piazza del Popolo, sono a piazza di Spagna e a piazza Navona – quante piazze Roma –, hanno gli sguardi un po’ persi, prima ridono poi scrivono sul telefonino, poi prendono la mira e pigiano il dito sullo schermo e condividono il ricordo e poi si guardano intorno e poi mangiano il gelato, la pastasciutta, mangiano la pizza e poi si fanno la doccia e si mettono il profumo, si phonano i capelli e raggiungono altri turisti. E vanno nei bar per turisti e parlano con altri turisti e ballano con altri turisti e i turisti approcciano le turiste, e i romani avvicinano le turiste e qualcuno guarda e dice son sempre troppi i turisti, forse siamo di troppo anche noi, andiamocene via, via per sempre, ma dove? Così parliamo coi turisti e io racconto della tua camicia bianca e mi viene in mente che anche a Milano ci sono le piazze, ma non hanno dei nomi che ti ricordi e il Duomo la sera è deserto. Poi bevo la birra e ti penso, ma non ti scrivo, non ti scrivo più. Che sciocco.

Foto: © Graham Miller

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Nelle ore brevi dopo la mezzanotte

Seduti a sera sui gradini del Pantheon. Conservare l’idea d’immortalità in una fotografia mentre ci isoliamo per diventare attrazione, quando le solitudini sono soltanto una continua attesa. Le fontane se ne fregano, le statue si sporgono in boccacce. Tra le auto della polizia con le sirene azzurre, le sconfitte mondiali e le turiste con le guance pitturate a dita, tre colori per un’appartenenza. Così gli americani sfidano i baristi alzando la voce, bottiglie rotte contro i muri come sul canal Saint Martin, quei ritorni sbandando sulle due rive, le chiuse e i passaggi a livello, il tempo per riflettere sulle nostre notti e i segni sulle mani al risveglio. Ci stringiamo in branco per poi disperderci, quanti vorrei nascosti tra le relazioni. Così se ti avvicino non è per avvicinarmi, così se ti allontano non è per allontanarmi. C’è un alfabeto fatto di bugia e trasparenza, quei sei bella che ti fanno rosso il viso e la parola che inciampa tra le labbra. C’è una cosa dell’amore che mi ha sempre fatto alzare le spalle: darsi la mano e stringerla, modulare la camminata al ritmo del quattro. Voglio sostare su una sedia in legno, fuori da un’osteria, la pancia gonfia, profumare di sigaro, ed essere credibile quando ti dico che quel che ci avvicina non è occhi negli occhi, ma strade lunghe e la stessa direzione dello sguardo. Farsi meta, non più soltanto ristoro. Le pale accese tra i miei capelli, il pensiero a una donna bianca con la maglietta dei Doors, la finestra aperta, il busto sporto in avanti, sigaretta accesa. Le cinque della notte, dove guardi tu? Oltre, risponde lei. Oltre cosa? Oltre a quelle case, al Tevere, oltre ai monumenti. E cosa vedi? La fine. E poi? Poi arrivi tu con le tue domande sciocche. La sigaretta è finita, lei rientra, la finestra rimane aperta. Poi una voce: torna, domani torna. Fatti trovare. Oltre le case, oltre all’esistenza, nelle ore brevi dopo la mezzanotte.

Foto: © Benedetta Falugi, http://www.benedettafalugi.com

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Il bramire dell’orso

Cosa ci lascia qui, seduti tra le teste scolpite dei grandi, appoggiati a questi scalini bianchi, a questo cielo bianco, a queste mani bianche? Cosa ci dona la notte se portiamo il suo nero soltanto tra i capelli, tra le pieghe del viso e dietro alle ginocchia. Quale insegnamento, quale luce nuova, qui i giorni si ripetono e non impariamo niente, il quaderno è bianco, bianco l’occhio, dov’è il senso dell’amaro della noce che il pugno rivela? Che ne è dei bucati di luglio, dei balconi stesi in fila indiana e del vociare delle griglie accese?

Non basta l’aria, non serve farsi vuoto intorno, appoggia la schiena al tronco, il piede alla terra. Nell’oscillare dei fili d’erba le tracce del nostro fiato dove vanno, chi inseguono? Questo vento che tutto disperde, all’aria il tuoi panni stesi e fiori gialli e il ciclamino, la margherita! Pecore di polvere a rincorrersi sulla strada, a dirsi addio tra le grate dei tombini, lasciare il mondo alle ruote, ai fanali spenti, alle autoradio accese. 

Davanti a casa non saluti mai dicendo è per sempre; io non so dove mettere le mani, dove tenere il senno, dove far forza col piede e cambiare la marcia. Così goffo è il ricordo dei tuoi portoni, dei miei, che importa. Oltre la soglia è un chissà.

Nei mentre la debolezza dei nervi dopo le notti dei sorsi. Milano che aspetti ad attaccarti al gas di scarico delle tue mille auto, Milano che aspetti a spararti, rinasci e muori tra i chiostri, lascia speranza alle albe.

Così un’immagine di adolescenza: una finestra grande e il bosco, il camino acceso, il tuo maglione bianco a girocollo e il mio abbraccio da dietro. E stare, istantanea di un tempo che non domanda, l’orecchio teso allo squittio della donnola, al bramire dell’orso, così il silenzio rivela e non nasconde più; nelle tue tasche a ricercare gli organi interni e in cascata rivelarmi a te, nel verso che svela l’uomo, nella piccola morte che porta il capo indietro, le dita dei piedi aperte e eccessi d’anidride carbonica nel sangue.

E al risveglio dirti buongiorno, lasciarti dormire. Bevi il caffè, non è mai tardi, lo sai, proprio mai.

Foto: da tumblr.

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Vero soltanto

Dei mostri del Mediterraneo, le tonnellate di cemento e gli occhiali per ridurre le dimensioni del nostro sguardo. Quando la barca accarezza lo scoglio, lo schiaffo dell’acqua e schizzi sul volto. Ricordi le estati a prendere il sole sugli scogli, e squarci di blu, spine dell’India. I nostri corpi così acerbi, le tue guance magre. Io m’incantavo seduto, le ginocchia raccolte sul petto, lo sguardo sempre altrove, mai presente.

Ricordi il pallido di queste sere, tutto il grigio dei palazzi, l’ansia per il coito prolungato dei vicini, le piante da annaffiare e il mio cane lontano, gli occhi nascosti tra il pelo.

Il richiamo delle primavere di Roma, le baruffe tra i banchi e la bestia che inneggia alla bestia. Dov’è l’uomo mi chiedi tu e finalmente conosco il silenzio.

Quando prima della notte getto la vergogna tra i cuscini, poi riemerge nel sonno, quante paure e quanti giorni trascorsi nel pigro andirivieni dei divani. La compagnia del cellulare e il gas acceso per non pensarti.

Quando la pancia è piena, la casa calda e pulita, il computer spento, dimmelo ora che fare? A far l’amore coi libri si gonfiano le vene degli occhi.

Una vita soltanto e tutte le altre da immaginare. Mai come adesso vorrei suonare il corno d’Africa per richiamare i giorni del passato, le magliette a maniche corte e le mani sempre impegnate in strette; camminavo sulla strada e i bambini venivano a frotte, s’abbeveravano alle mie dita e di passo in passo sudavano i palmi, che impiccio.

E invece ora, in questa solitudine che trasforma il pensiero in ossessione, vorrei fossero qui, a saltellare sui divani a suonare le pentole e incantarsi davanti al televisore solo per qualche ora, dopo il tramonto, prima del sonno.

Sai, la Vespa non l’ho ancora venduta, è fuori che raccoglie la pioggia e si fa dorso per le chiacchiere degli amici dal culo stanco. Chissà che fai tu e quale calice bagna le tue labbra.

E intanto altre barche solcano il mare e altri zaini calpestano le Ande, altri aerei prendono quota, in Sud America la frutta è matura, qui i pomodori colorano i piatti, non sanno di nulla, son così stanco delle luci al neon che accendo candele e suono, compongo frasi lunghe una riga,  più o meno così:

Vero soltanto

Ero

Cadeva la neve.

Foto: dalla rete.

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L’ultima ruota del carro

Chissà se lo hai visto Nostalghia di Tarkovskij e il monologo gridato dal folle: bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno, qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi non importa se poi non le costruiremo, bisogna alimentare il desiderio, dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito. 

E poi me ne andavo al cinema, così tra le lenzuola stese ti ho chiesto: vuoi fidanzarti con me? Nessuna cena elegante, nessun foglietto con due possibilità da barrare con una x. Conoscersi nell’abitudine al lavoro, nella frequentazione dello stesso spazio, e poi il matrimonio, il letto, la vita insieme.

Le parole sussurrate sulla schiena delle coperte, la televisione che ci prende la mano per condurci al sonno e poi le preoccupazioni del quotidiano smorzate in abbracci. Mi ascolti tu, ti ascolto io, dimmelo adesso di che altro ancora abbiamo bisogno? La naturalezza dei gesti e gli amici di sempre, chi non passa mai il pallone e chi trascorre tutta la vita ad aspettare il passaggio smarcante per prendersi la responsabilità del tiro in porta e accettare la gioia del goal. Siamo brave persone, dicono i più, chissà poi che vuol dire, quest’onestà che portiamo nei tratti del viso e pare non serva a nulla; la fatica di molti, i soldi dei furbi e il loro stuolo di amanti.

Poi i disegni su tele enormi per dar colore alla noia dei letti disfatti, dei vetri oscurati a proteggere l’illegalità dei viaggi dei potenti. Parole sporche al telefono e unghie sempre pulite.

I tuoi capelli neri non si riconoscono più nello specchio di questa storia che ci fa guardare le cose grandi dai balconi e ci stringe l’anima a forza di confronti. Quante candeline hai spento e quante ancora ne spegnerai?

E chi sono poi gli altri per giudicare quello che fai, ti appenderanno sulle spalle responsabilità che non hai mai immaginato e sotto all’albero di Natale verranno ad abbracciarti, a controllare la lucentezza delle tue scarpe, la morbidezza del tuo maglione. Ti vogliono bene, lo sai, soltanto la vita li ha ridotti così. Che farsi forti vuol dire modulare gesto: una mano può esser pugno, può esser carezza, lo sai anche tu questo?

E come è semplice parlare delle ballerine inguardabili che indossi anche al mare? Non mi ero mai accorto della tua vita così stretta. Certo poi in pista ti lasci andare, tu Marilyn e io il supereroe di qualche fumetto che in edicola non trovi più.

E finiva che ci ingannavano anche i dottori, vivevamo la vita senza rendercene poi tanto conto, tu che sorridevi al cravattino, il baffo accennato di Carmelo Bene; ci sono cose che si avvertono anche senza capirle e poi sudore e l’ora più bella del giorno, dopo il lavoro, quando le serrande si abbassano e si accendono le luci e fuori è buio, la tavola è apparecchiata, la cena e le preoccupazioni da affidare alla sedia e al neo che porti sulle labbra, la grazia nel lavare i piatti e la consolazione dell’ultimo sorso di vino.

Nel bacio prima del sonno pensare che sei tutto e qui: tu donna, tu madre, nonna, santa e poi troia, diavolo e angelo e fratello e sorella e già figlia. Ho tutte le donne del mondo perché ho te, tu che sei tutte, trovare l’infinito quando sai contare soltanto fino a due.

E lo sai che c’è? C’è che non siamo mai state comparse e non ci hanno fatto mai ridere le battute sessiste alle cene eleganti. Che in mezzo alla folla basta uno sguardo e ci facciamo camino e poi fuoco. Non importa se perderemo ai gratta e vinci, non importa nemmeno che diranno i tuoi, che diranno i miei, magari saremo nonni, magari no.

Ce lo vedremo prima o poi Nostalghia di Tarkovskij e arriverà quella scena, quando il poeta domanda alla bambina: sei felice tu? Di cosa? Domanda lei. Della vita. Continua lui. Beh, della vita, sì. Risponde la bimba, e poi nasconde il viso e poi sorride e poi m’immagino che guarda in alto, che cerca il cielo.

Foto: dalla rete.

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Lo sai com’è difficile essere nessuno

Il fatto è che la nostra rivoluzione non è un da farsi perché è di ieri, perché è di oggi e sarà anche domani.

Così alle tre del mattino il tuo fegato chiede il conto della notte trascorsa. E quando non troviamo discorsi a cui aggrapparci per portare alla luce le nostre profondità affondiamo la cannuccia nel Negroni e il Vodka-lemon ci permette di sopportare la musica e quel dj che si muove troppo e quella barba così folta che alla fine ti sta male.

Tra i leggings e i push up corriamo il rischio di slogarci il collo e per le scarpe puntiamo l’immaginazione alla moda parigina che qui a Milano vanno di brutto i negozi cinesi.

L’enoteca di Paolo Sarpi è strafatta di professionisti e son pure simpatici, fa tutto parte del dopo lavoro. Ti rendi conto che a Milano si è smesso di chiedere: “e tu che lavoro fai?” e si punta il tutto sulle passioni: La bici a scatto fisso e poi la musica, di che elettronica stiamo parlando? Mi piacerebbe anche a me un nuovo tatoo. E che ne dici se ci apriamo un tumblr assieme, magari ci tiriamo fuori qualcosa di buono. Ho in mente una start up e lui fa il giornalista potrebbe presentarti qualcuno, lo sai com’è difficile essere nessuno.

Così c’è chi nasconde il cognome e tira di bianco per distruggere l’immaginario democristiano della famiglia dei piani alti. Si dice così che a piano terra costa tutto di meno, lo sai, colpa del traffico, le polveri sottili e la mancanza di tregua allo sguardo.

Ora puoi guardare quel non so che di contemporaneo che hanno costruito là a Garibaldi al posto del Bosco di Gioia dove ci riempivamo di spliff mentre le madri lasciavano i piccoli arrampicarsi su scivoli blu e solleticare il cielo sulle altalene, i cani pisciavano allegramente e le farfalla s’erano estinte.

Ora invecchiamo sui tavoli di lavoro e lasciamo cadere i capelli sul pavimento: il segnale del nostro passaggio e la rigenerazione del cuoio capelluto.

E il parlamento invece è così distante dai nostri oggi che lo trattiamo come il gossip e ci infervoriamo durante le crisi, per tutto il resto alziamo le mani e appoggiamo il gomito sul generalismo.

Signor Presidente della Repubblica lei è invecchiato, si fa mal consigliare.

E ancora su Facebook mi spertico in come stai che spesso suonano come invadenze. Che la proprietà privata non è soltanto spazio, ma rapporto e conoscenza. Noi siamo noi, voi siete voi. Il resto è virus che interroga e avvelena.

Così alle mie domande fai a meno di rispondere, resti nel tuo, che dentro al recinto siamo al sicuro. Invece sulla strada si perdono treni, si inseguono aerei e si diventa così retorici che si finisce per non dire nulla e in questo niente, invece, ci sono io e ci sei anche tu, perché la ricerca spesso è così vuota che ha bisogno di un contatto anche superficiale. Chiamala se vuoi solitudine, questa per me è cultura, questa per me è maturità. E poi mettici tanta debolezza.

Foto: dalla rete.

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Il principio dell’altalena

Perché alla fine mi piace Cremonini, ballo con Jovanotti e piango con certe canzoni di Vasco. E mi esalto per Fabri Fibra, poi quanto spacca la pasta alla carbonara, che Radiofreccia è un gran film e l’emozione per l’elezione del Papa. E pure certi passaggi di Fabio Volo non sono mica male, dico davvero.

E poi la mia mensa sarà sempre una festa.

Mi piace pensare di lasciarti la tavola sporca, le tracce di me che cancellerai sparecchiando.

E penserai che sono così invadente col mio ideale estetico e quei giudizi taglienti, le mie labbra dolci e la barba lunga per sembrare più grande. Ti scriverei ogni due o tre minuti, che mi manca l’odore, il sapore, e per ogni tua immagine un pensiero diverso, il prolungamento delle mie dita e lo spazio chiuso dei nostri uffici naive.

Nei tuoi capelli la cura, sulla tua bocca il colore. Le mie invenzioni pomeridiane e la tua immagine proiettata sul soffitto come nei film di Chaplin. Andavamo a correre a notte tarda, ci svegliavamo sudati e mi dicevi: è già pronto il caffè?

Delle mie mille adolescenze e dei calzini dispersi. Di quando prendevamo aerei per sentirci adulti e ricamavamo sul cuore le nostre iniziali e per ricordarci di dare un taglio a tutto ciò che non serve cominciavamo dai nomi. Le tue poche lettere per i miei richiami lunghi. E soffiavo tra le tue lenzuola perché la brezza ti ricordasse il mare, la stoffa le onde.

Mi chiederai: li vedi nello specchio i miei piedi? E ti risponderò sempre sì.

Indosserò le tue scarpe per conoscerti meglio e coi tuoi trucchi darò il nero agli occhi. Saremo punk eppure hippie, saremo nerd e pure cool. E scriverò sul muro bianco della tua camera quanto era bello attendere la tua conoscenza.

Col sole che cerca il riflesso tra i tuoi capelli e il cestino grande della bicicletta. Mi sorprenderai a masturbarmi e ti dirò che è tutta colpa della tua lontananza. Mi rassicurerai dicendo: lo sai, sono qui. E non ti crederò, poi l’amo della tua lingua nella mia gola, che sarò pesce e risalirò lungo il tuo fiume.

E’ così sciocco disegnare paesaggi a parole e farmi piccolo e infante. L’isola non trovata e la storia infinita delle rincorse. Il principio dell’altalena che a furia di spingere poi tutto ritorna, e prendi il volo, alzi lo sguardo, non tocchi terra e poi mi salti in braccio.

Foto: Philip-Lorca diCorcia

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Carofiglio vs. Ostuni. La polemica fragile di via Merulana.

Via Merulana e la difficoltà del linguaggio. Le parole impronunciabili e quei vocabolari che destinavo al greco e al latino nella peggior età della mia esistenza. Il ginnasio e i chili superflui, le difficoltà nell’approccio con le ragazze e il il gusto amaro di certe amicizie superficiali.

Quando il nulla sapevo sulla potenza della parola detta e mi era inaccessibile il suono del vocabolo scritto. La sensibilità accelerata di certe sincerità confessate sulla pagina bianca e le storie inventate per lo sviluppo del pensiero critico.

Nell’anno 2012 di nostra piccola vita salgo sugli alberi bassi dei sampietrini per appuntarmi segni d’umanità, le ore vuote del non far nulla per elaborare un pensiero e tradurlo in parola. Quando siamo così soli che ci vestiamo di scuro per confonderci al cielo, il rosso lasciato ai semafori e il bianco per le soste agli attraversamenti pedonali.

Il ricordo delle avanguardie, il gruppo ’63 e poi le confraternite. Che per essere più e poi darci un nome abbiamo bisogno della politica o della squadra di calcio e affoghiamo in poche lettere le affermazioni lunghe dei manifesti. Soli, ora, che per il confronto rimandiamo al Che tempo che fa e alle politiche editoriali. Un’ospitata e una birra nell’umanità bignardiana e le interviste intime dei rotocalchi. La letterarietà rimandata alla rete, le riviste senza possibilità di stampa e lo sforzo non retribuito di pochi eroi. Quando il giornalismo piega il linguaggio a certa retorica politichese, ai salotti spolverati della tv del pomeriggio.

E per vedere una raccolta di scrittori, le lettere unite per un messaggio importante, tocca scorgere i vestiti sciapi e certe fotocopie di una critica acida. Nè mestieranti, né folli. Eredi voi di una certa tradizione che fa della piazza un megafono e della scrivania una bara. Le polo rosse e certe sciarpe a trequarti per la lotta inerme della parola. Tutti uniti per una libertà di espressione, quando siamo già morti, noi che nascondiamo il sentire tra le copertine rigide e temiamo il riflettore e la performatività del pubblico e per le dichiarazioni aspettiamo una cattedra. Voi dirmi ora a che serve scendere in piazza contro a un risarcimento da cinquantamila euro per mala parola? Vuoi dirmelo ora da che vogliamo liberarci? La libertà si fa parola quando ammettiamo che il critico Ostuni non giudica un uomo ma un suo manufatto. Vuoi dirmelo ora chi denuncerebbe qualcuno per un piatto di pastasciutta, un vaso, un tavolo venuto male e senza stile? Quale giustizia si prenderebbe la briga di un tale pronunciamento? Sciocchezze.

E per la libertà ricerco altre battaglie. Di Carofiglio ve n’è più d’uno e non conosco uomo. Vogliamo mettere certe polemiche d’una volta, quando Fortini rispondeva a Pasolini in poesia? Vuoi mettere il costruire? Dov’è il dialogo quando scendi in piazza e ti fai clown e cerchi ancora l’affermazione di te nella protesta. Dove sono le mani sporche e il sudore? Torniamo alle strade, torniamo alle finestre, facciamoci urlo e richiamo, parola e canto. Ma senza proteste, con proposte. Perché il libro rimane sugli scaffali delle librerie? Abbiamo bisogno ancora di attori che danno voce ai nostri tormenti? Della pubblicità di certe contese fasulle? Basta che se ne parli.

Io dico no. Siamo così soli, lo ripeto, e quel che ci rimane sono soltanto gli ideali di lotta degli anni settanta. Morti stecchiti. Anche le osterie sono chiuse. Ci si ritrova nei pub e se ripenso ai rituali lenti di certe pubbliche letture mi viene sonno. Dov’è la spada, dov’è il sangue, dove la blusa gialla dei tempi di Majakovskij e le tovaglie calpestate da un giovane Rimbaud?

Non c’è ridicolo nella proposta di sé. Ma non invochiamo libertà che già esistono, rincorriamo ali di cavallette, invisibili e schive, ovunque disperse.

Miei scrittori cari, affezionati, amici. Torniamo al confronto e lasciamo i rituali scomodi di certe piazze alle adolescenze.

Con affetto.

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Che l’alcool come l’amore è soltanto una malattia

E poi spiegami perché per sentirsi belli è necessario sentirsi amati. Che a Milano salutano soltanto i senegalesi mentre le vedi spuntare dai tacchi e non puoi perderti nel rosso delle loro labbra perché ci scivoli e poi imprechi. Per gli angoli ottusi del quadrilatero della moda. E quale bellezza salverà il mondo è una frase così ripetuta che ha perso significato tra i denti, come le cantilene dei bimbi ricamiamo sensi su quelle tre massime filosofiche, due stracci di superiori e quattro passi a memoria. Tra le canzoni ascoltate e le voci radiofoniche ripeschiamo granelli di discernimento. Hai voglia a scrivere sui muri le nostre rivoluzioni spray, l’odore anarchico dei tuoi capelli e la rivolta delle tue mutandine. In un tempo piccolo saremo di nuovo nell’aria, frammenti del moto universale, vittime del roteare dei nostri coglioni davanti alla sconfitta delle linee orizzontali sui campi di calcio. E mentre a Roma si svuotano i seggi, le istituzioni ecclesiastiche si fanno rombo e pernacchia, l’anello al dito è per lo Sposo, altro dito è il potere. In piazza affari le voci che si rincorrono e la barba incolta dei parvenu con le marce automatiche. Se vengo a chiederti dov’era il tuo sguardo come potresti rispondere? Quando mi hai detto che se sto seduto tutto il giorno davanti a un computer divento un computer. E invece mi sentivo così molle che non riuscivo a penetrarti, con gli occhi s’intende. Quanto sei bella te lo ripeto ogni notte, prima al cuscino, poi al soffitto, quanto sei bella quando non ci sei. Per le tue presenze inaugurerò parole nuove e versi e gioia. Ci faremo vocabolario per l’esperanto che ha animato gli anni novanta. E non mi farò problemi a scriverti come quei patatoni coi frigoriferi ricoperti del giallo dei post it. E non ti farai più la domanda della bellezza, perché ci sarò io, con le mani alzate a dare i numeri e a chiederti quanti sono, come gli ubriachi, e mi dirai che l’alcool come l’amore è soltanto una malattia.

Foto: © Letizia Battaglia.

Photo editing: Neige.

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