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L’ultima ruota del carro

Chissà se lo hai visto Nostalghia di Tarkovskij e il monologo gridato dal folle: bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno, qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi non importa se poi non le costruiremo, bisogna alimentare il desiderio, dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito. 

E poi me ne andavo al cinema, così tra le lenzuola stese ti ho chiesto: vuoi fidanzarti con me? Nessuna cena elegante, nessun foglietto con due possibilità da barrare con una x. Conoscersi nell’abitudine al lavoro, nella frequentazione dello stesso spazio, e poi il matrimonio, il letto, la vita insieme.

Le parole sussurrate sulla schiena delle coperte, la televisione che ci prende la mano per condurci al sonno e poi le preoccupazioni del quotidiano smorzate in abbracci. Mi ascolti tu, ti ascolto io, dimmelo adesso di che altro ancora abbiamo bisogno? La naturalezza dei gesti e gli amici di sempre, chi non passa mai il pallone e chi trascorre tutta la vita ad aspettare il passaggio smarcante per prendersi la responsabilità del tiro in porta e accettare la gioia del goal. Siamo brave persone, dicono i più, chissà poi che vuol dire, quest’onestà che portiamo nei tratti del viso e pare non serva a nulla; la fatica di molti, i soldi dei furbi e il loro stuolo di amanti.

Poi i disegni su tele enormi per dar colore alla noia dei letti disfatti, dei vetri oscurati a proteggere l’illegalità dei viaggi dei potenti. Parole sporche al telefono e unghie sempre pulite.

I tuoi capelli neri non si riconoscono più nello specchio di questa storia che ci fa guardare le cose grandi dai balconi e ci stringe l’anima a forza di confronti. Quante candeline hai spento e quante ancora ne spegnerai?

E chi sono poi gli altri per giudicare quello che fai, ti appenderanno sulle spalle responsabilità che non hai mai immaginato e sotto all’albero di Natale verranno ad abbracciarti, a controllare la lucentezza delle tue scarpe, la morbidezza del tuo maglione. Ti vogliono bene, lo sai, soltanto la vita li ha ridotti così. Che farsi forti vuol dire modulare gesto: una mano può esser pugno, può esser carezza, lo sai anche tu questo?

E come è semplice parlare delle ballerine inguardabili che indossi anche al mare? Non mi ero mai accorto della tua vita così stretta. Certo poi in pista ti lasci andare, tu Marilyn e io il supereroe di qualche fumetto che in edicola non trovi più.

E finiva che ci ingannavano anche i dottori, vivevamo la vita senza rendercene poi tanto conto, tu che sorridevi al cravattino, il baffo accennato di Carmelo Bene; ci sono cose che si avvertono anche senza capirle e poi sudore e l’ora più bella del giorno, dopo il lavoro, quando le serrande si abbassano e si accendono le luci e fuori è buio, la tavola è apparecchiata, la cena e le preoccupazioni da affidare alla sedia e al neo che porti sulle labbra, la grazia nel lavare i piatti e la consolazione dell’ultimo sorso di vino.

Nel bacio prima del sonno pensare che sei tutto e qui: tu donna, tu madre, nonna, santa e poi troia, diavolo e angelo e fratello e sorella e già figlia. Ho tutte le donne del mondo perché ho te, tu che sei tutte, trovare l’infinito quando sai contare soltanto fino a due.

E lo sai che c’è? C’è che non siamo mai state comparse e non ci hanno fatto mai ridere le battute sessiste alle cene eleganti. Che in mezzo alla folla basta uno sguardo e ci facciamo camino e poi fuoco. Non importa se perderemo ai gratta e vinci, non importa nemmeno che diranno i tuoi, che diranno i miei, magari saremo nonni, magari no.

Ce lo vedremo prima o poi Nostalghia di Tarkovskij e arriverà quella scena, quando il poeta domanda alla bambina: sei felice tu? Di cosa? Domanda lei. Della vita. Continua lui. Beh, della vita, sì. Risponde la bimba, e poi nasconde il viso e poi sorride e poi m’immagino che guarda in alto, che cerca il cielo.

Foto: dalla rete.

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Nelle tue scarpe aperte

Nelle tue scarpe aperte l’assenza dei chilometri percorsi aggrappato ai tuoi capelli cortissimi. Le fotografie mai banali e la grazia dei colori pastello di fine anni ottanta.

Nella rivoluzione delle temperature, di questi inverni infiniti e delle estati dei centri commerciali, gli orizzonti infiniti di certa gioventù mi regalano speranze. Lo sguardo intenso degli occhi nocciola e questo nuovo cielo a ricordarci la potenza del blu.

Ti scrivo con l’istinto di certe adolescenze; quando prendevo la bicicletta per l’ultimo saluto all’amica del cuore prima di partire per il mare, che mulinavo forte sui pedali e finivo per baciare l’asfalto.

Nel malessere delle domeniche di maggio le necessità: pulire casa, lavare i piatti, fare il bucato e poi cambiare aria e prendere la strada. Una birra fredda e il sapore intenso dei vini del centro Italia. Un Chianti Classico o magari uno Zibibbo, è così accogliente il tuo ombelico che non avrebbe senso non trasformarlo in fontana.

E mentre si muovono i treni delle relazioni a distanza, io faccio le prove allo specchio e dando la schiena intreccio le braccia sopra le spalle e stringo così forte che faccio spremute di solitudini per saziare la sete di conoscenza delle 16 e 26.

Sono venuti a raccontarci del festival di Cannes e degli abiti meravigliosi, le cosce abbronzate e le dichiarazioni senza senso dei critici. La necessità taglia le dita e fa girare la testa. Esistono film per piangere e filosofi ben vestiti che fanno della parola un ronzio fastidioso. E regalare sorrisi a chi ti è vicino e infischiartene della banalità. Ricercare il linguaggio nuovo nel due degli occhi e nell’accoglienza. Così ogni persona diventa storia e ogni incontro da raccontare.

Vorrei tornare a chiederti come si chiama tua madre e quanti anni ha il tuo cane. E scrivere ai miei amici quelle frasi brevi zuppe di parolacce, e dare un voto ai nostri trent’anni come in da 0 a 10 che è un film di Ligabue, quello che canta.

Quando ho incontrato per caso Servillo a Parigi ho avuto paura e non son stato bene. Non per colpa sua, certo. Queste nostre sensibilità hanno bisogno di campi da arare, tavole da apparecchiare e sassi da chiamare per nome. Che ho per amici dei monaci e dove vivono loro ci sono ancora le lucciole.

Foto: Cristina Altieri

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RENCONTRER MICHEL GONDRY, LA SCHIUMA DEI GIORNI

TU, IO E UN’INTERVISTA A MICHEL GONDRY

Allora le ho detto: “Anch’io…” Poi tutte le volte che le dicevo qualcosa lei rispondeva: “Anch’io…”, e viceversa… Così alla fine, tanto per fare un’esperienza esistenzialista, ho provato a dirle: “Signorina, la amo tanto” e lei ha detto: “Oh!” –

“La schiuma dei giorni” di Boris Vian me l’hai fatto conoscere tu, la quarta riga della nostra terza e-mail. Ti avevo fermato in corso Como e tra i vestiti firmati e i cocktail annacquati avevo letto, io svergognato, una mia poesia sulle chiese che chiudono troppo presto la sera. E nel risponderti ti avevo scritto: ma certo, lo conosco, incredibile. Ma mentivo. Così sono corso in libreria e arrivato a casa, sdraiato sul materasso, l’ho letto dalla prima all’ultima pagina, senza fermarmi mai e prendendo fiato soltanto alla fine.

Ricordo che qualche tempo dopo, in un bar spagnolo di corso Lodi, dopo il teatro, un Baliani scadente dentro una marchetta all’Unità d’Italia, parlammo del Piano-cocktail, dicesti che avremmo dovuto cominciare a pensare di costruirlo un giorno o l’altro, prima di tutti gli altri.

E invece qualcuno ci ha preceduto, si chiama Michel Gondry e fa il regista. Quello di Ethernal sunshine of the spotless mind, per intenderci, quello dell’Arte del sogno, quello dei videoclip di Bjork e altre chicche musicali non da poco su MTV. Uno che il film lo immagina e poi lo costruisce con le mani, tanto che con i suoi oggetti scenici ci fanno le mostre.

Si presenta alla Fnac sugli Champs-Elysèes con un’abito nero classico, camicia bianca e cravatta fine, nera anche quella. La Fnac non mi è mai apparso un luogo istituzionale e ho sempre pensato che il vestire parli molto di noi, bene, forse il mondo fantastico Michel deve avercelo dentro perché fuori sembra un impiegato di qualche albergo stellato.

E in un francese quasi perfetto comincia col dire che il film gli è stato commissionato, che non ha scelto lui il romanzo di Vian, ma che gli appartiene per sentire, che l’ha letto a quattordici anni, quando abitava a Versailles e la sua nonna lo portava spesso in visita a Parigi, che ha segnato tutta la sua adolescenza.

Aggiunge che ha letto qualsiasi cosa Boris Vian abbia scritto, che suo padre ascoltava Duke Ellington e così anche lui ama Duke Ellington, ed è normale perché anche mio padre tifa Juventus e pure io tifo Juventus: ci sono passioni che si trasmettono in famiglia.

Michel racconta della sua infanzia, della sua passione per i treni e per le piazze immense di Parigi, del suo amore per gli oggetti animati e del perché non lasci nulla al virtuale e al computer, ma si affidi alla materia per creare nuovi universi ibridi. Lui, inventore e pittore che fa della macchina da presa un caleidoscopio capace di dare infinite forme ai suoi lavori di bricolage, un collage delle arti che dona vita a nuovi mondi.

E così la scrittura surreale e creativa di Boris Vian, capace di associare due parole come Piano e Cocktail e soffiare vita in oggetti prima inesistenti, si fa immagine e prende una forma nella cinepresa di Gondry. Uno che legge, immagina e poi prende la materia per dare alle visioni sostanza. Un teatro degli oggetti al culmine delle sue potenzialità trasportato sulla pellicola.

E così gli attori si muovono a loro agio in uno spazio che prima non esisteva, ma che è stato creato appositamente e si rivela nuovo e reale. All’attore serve naturalezza, senza sforzi d’immaginazione, quella ce l’ha messa già messa il regista, che chiede agli animatori che muovono cielo e terra e oggetti tutti di essere fantasmi discreti per far sì che i personaggi vivano il nuovo mondo con la curiosità degli infanti nel mezzo di un balletto meccanico d’animazione d’oggetti.

Immaginiamo le tute bianco e nere dei tecnici, di coloro che non saranno mai inquadrati, ma che con muscoli e mani tirano teli, fanno viaggiare nuvole di polistirolo o assemblano auto reali, ma mai esistite, frutto di un collage tra carrozzerie di auto diverse degli anni settanta e ottanta francesi.

Gli attori, si diceva: attori famosi, certo, ma attori amanti della storia e del regista, così amanti che sposano i personaggi e sanno che da oggi nemmeno morte potrà separarli; così Colin avrà il volto di Romain Duris, Nicolas quello di Omar Sy, Joules Gouffè sarà Alain Chabat e Chik Gad Elmaleh mentre per Chloè è stata scelta Audrey Tatou, che avrà dunque un bel da fare nel triplo ruolo di Amelie, Chloè e signorina Chanel.

Signor Gondry, non crede che facendo un film su un libro così grande, straordinario, esaltante, roboante, meravigliosamente sorprendente lei finisca per sostituire il suo immaginario a quello di milioni di persone che non hanno ancora letto “La schiuma dei giorni”? Non crede che la sua sia un’operazione criminale ed egoista?

Michel si sistema la cravatta, avvicina il microfono alla bocca, dice che se l’è tanto domandato e che si è risposto che come per tutti i grandi libri qualcuno prima o poi l’avrebbe fatto, che è sicuro che se Vian fosse stato in vita avrebbe partecipato alla realizzazione del film e ora sarebbe contento perché compito del regista è essere onesto e vivere della necessità della creazione.

Signor Gondry, ma il film non le è stato commissionato?

Sì, ma ripeto che il romanzo mi piace molto, è la mia infanzia, è la mia adolescenza, è Duke Ellington, è un pozzo grandissimo da cui attingere immagini.

Si è preso molte libertà?

Alcune, ho alleggerito alcune parti meno “visive” e poi mi sono immaginato la grande officina dove è stato stampato “La schiuma dei giorni”, il libro fisico intendo, l’ho pensato come una stazione dei treni, con persone che scrivono a mano ogni riga, insomma, guardandolo vi sarà più chiaro.

E Parigi?

E’ la Parigi della mia infanzia, sono gli anni ’70, ma non lo sono più, perché tutto è ricostruito, faccio un collage tra più epoche perché i miei ricordi d’infanzia sono collage.

E ogni volta che mi fate una domanda io parlo di Vian, diciamo che un po’ rivive, anche ora, anche qui.

Bah.

Poi c’è una malinconia di fondo che Gondry nomina più volte, ma a cui non dà il tempo di imperversare.  Nella breve conferenza si mostra regista professionista, ma non apre mai all’emozione. Appare una lavagna ben pulita con qualche scarabocchio negli angoli, i segni del gesso più difficili da cancellare.

Diciamo che potremo assistere a un capolavoro oppure rimanere delusi, che potrebbe farci vivere due ore immersi in un mondo altro a riflettere sull’amore impossibile e sul nero senza senso della vita oppure caricarci di noia e già visto e sentito.

E ancora torna la domanda se il creativo che rende reale e universale un mondo prima evocato soltanto sulla carta, intimo e personale,  sia uomo generoso o un ladro infimo e bugiardo d’immaginazione?

Non c’è risposta a questo, ma le nuvole di cotone idrofilo dell’Arte del sogno che al suono del piano prendono quota fino a toccare il soffitto e certe intuizioni poetiche e visive straordinarie ci riconciliano all’infanzia donandoci consapevolezza del nostro essere nel mondo, una volta bimbi, ora adulti. E poi incontri qualcuno ballare da solo per strada e ti sorprendi scoperto a metterti le dita nel naso sul treno, in ufficio e anche al bar o fare il rumore della formula uno con la bocca mentre guidi e sorpassi.

Si sistema ancora la cravatta Gondry, che prosegue dicendo che si avvale dell’aiuto di uno sceneggiatore che firma l’adattamento cinematografico dell’opera letteraria: Luc Bossi; e questo sembra essere un bene, perché, quando in passato è stato il regista a prendersi cura delle sceneggiature originali, spesso l’invenzione del momento ed i toni esagerati di certi dialoghi toglievano spazio al senso ultimo e allo sviluppo coerente della storia.

Si alza, ringrazia, non firma autografi, se ne va.

Io sfoglio la schiuma dei giorni, ci trovo stralci sottolineati, uno è quello che apre l’articolo, la naturalezza di un Ti amo.

A te che il libro me l’hai fatto leggere e a te che generi mondi, a noi che abbiamo voglia di scrivere e non ci lasciamo stare la notte e come in adolescenza ci concediamo l’immaginario e per conoscere il corpo e farlo sussultare, per diventare grandi o soltanto per affrontare al meglio le notti e la paura del buio, quella del sole.

La lode ai creatori, ai sognatori, a chi i sogni li ruba, a chi li dipinge e li rende vivi, e a chi non si abbandona mai alla quiete e finisce per apparire in pubblico in giacca e cravatta quando dentro ha fiori colorati.

A te che ti senti un vaso vuoto, sappi che il Piano Cocktail ora esiste e che i fiori uccidono, ma salvano anche.

E ora ascolta African Flower di Duke Ellington, che è bellissima.

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La chiome lunghe dei film

La tua chioma a cavallo dei pixel. La luce bianca dimenticata dai più.

In queste case buie gli usci che danno sul disinteresse di quello che chiami il tuo prossimo.

Eri venuta così, per non disturbare. Quando hai tolto le scarpe per non sporcare e con le calze abbassate ti sei fatta presenza. Respiravamo piano per evitare ogni forma d’invadenza. Degli sguardi tra i tagli nelle tende e delle nostre adolescenze.

I gradini della stazione centrale di Milano a chiederti che ne pensi del sesso, tu che lo fai, tu che sei grande. Che mi appoggiavi gli occhi sulla fronte e poi li facevi cadere tra le mie guance come le biglie sulla sabbia dell’Adriatico. E poi allungavi la lingua per farmi sentire che sapore ha la conoscenza, ma a me a quei tempi faceva schifo e il burattinaio tirava il filo, allontanavo gli occhi a scatto fisso, le spalle magre. Non ci saremmo rivisti mai più, la fiducia persa nella paura di una conoscenza. Tu avresti continuato a guardarti attraverso col rasoio a incidere sulla pelle la mancanza di somiglianze. Gli altri ti scorrono di fianco come nei lungometraggi di fantascienza e va a finire che il tuo volto si perde sullo sfondo.

Non mi convincerai mai che siamo in un film. E mi tiravi dietro i tuoi vaffanculo perché non sapevo godermi il presente, il cazzo ritto di certi attori porno non assomiglia a realtà e poi perché vuoi rendere fiaba quel che fiaba non è?

Mi cresceva la barba e lo sguardo rimaneva giovane, non sapevo che fare per crescere in consapevolezza e durezze. Eh sì che soffrivo, che avrei voluto portarti sulle stelle e cantarti di Piero Ciampi, ma sono troppo stonato e riesco soltanto a bere vino per addentrarmi nelle figuracce storiche con la Milano dabbene.

Quando mi hai invitato a casa tua e poi hai detto no, meglio di no. E da quel giorno non ci siamo più scritti.

Ci sono notti d’insonnia e passi, notti col girovagare che viene a prendermi in fondo al letto e mi porta fuori. A sedermi sui gradini del Duomo quando non c’è nessuno e a fantasticare sui soffitti nelle finestre illuminate. La piazza vuota e le rivoluzioni di novembre. La chiesa sempre chiusa quando vorrei soltanto il riparo della navate e poi nessuna crociata contro di me, nessun giudizio per te. Che sono debole come le lumache e se lascio una scia è soltanto per l’eccitazione.

Assomigli così tanto a un personaggio di un mio romanzo che ti sei fatta attrice per quel film che ho desiderato da tempo.

E poi contorni, e strade, e parole che tornano lente. Dopo lo UOAA e le esplosioni dei nuovi cantautori. I miei muscoli stanchi per la partita del giorno prima. Ed ora so che non posso giocare come attaccante, che ho bisogno di campo e orizzonti, per dettare passaggi nel tempo e finalizzare in futuro.

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Mid (beatnik) night in Paris

E poi mi scrivi di notte tra righe ubriache, gli spazi inseparabili delle tue parole per tutti questi vuoti che mi sono creato intorno. L’invadenza del vino non fa rima con nulla e i fortunadraghi non ci vengono a prendere ai piedi del letto con le mie coperte che sono troppo corte per tutti e due. Che poi chissà le donne non sono mai sincere mi dici hai voglia a sciorinare frasi ad effetto e scegliere di essere presente o decidere di non esserlo sono solo variabili della teoria delle catastrofi. Insieme avremmo ribaltato i letti di tutta l’Europa, scaldato fumo ai semafori e infilzato i giorni con le nostre scarpe a punta. Abbiamo in tasca una cartina rovinata e prendiamo la metro perché abbiamo perso tempo a guardarci allo specchio quando a Parigi l’unica regola era non chiedere passaggi al traffico di linea che in Place Republique c’eravamo trovati alle cinque di notte a consegnare le guance alla gendarmerie per un rosso in bicicletta. L’ultimo Woody Allen non ci ha convinto e mentre proiettavo sul protagonista i miei “è così” tu mi cantavi dell’antipatia della Cotillard e io dicevo Marion, c’est moi altro che Pablo. E sotto la casa di Hemingway ci hanno aperto un pub di quella volta che mi facevo offrire Armagnac che basta una blusa per sembrare elegante ho dimenticato i soldi, sono straniero, sono sincero. E ci lanciavano bicchieri dal secondo piano che si inchinavano ai nostri piedi con le urla in francese che non mi fanno paura avrei dovuto stringerti ma l’hai fatto tu e siamo poi finiti al Canal Saint Martin quando si apre che sembra Tangeri per la quantità dei picnic. E mi chiamavi beatnik quando agitavo le mani e ti parlavo dell’inutile accademia della lingua, delle costruzioni noiose dei testi scolastici e di quella voglia che ci prende nell’ora scura del dopotramonto. E non hai risposto che abbiamo intrecciato le costole e ti ho leccato fino a consumarti, e al mattino non c’eri più, m’eri rimasta appesa alle labbra e così ti ricordo anche se non non sei mai esistita che era solo una mezzanotte di un film senza spari.

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