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Vero soltanto

Dei mostri del Mediterraneo, le tonnellate di cemento e gli occhiali per ridurre le dimensioni del nostro sguardo. Quando la barca accarezza lo scoglio, lo schiaffo dell’acqua e schizzi sul volto. Ricordi le estati a prendere il sole sugli scogli, e squarci di blu, spine dell’India. I nostri corpi così acerbi, le tue guance magre. Io m’incantavo seduto, le ginocchia raccolte sul petto, lo sguardo sempre altrove, mai presente.

Ricordi il pallido di queste sere, tutto il grigio dei palazzi, l’ansia per il coito prolungato dei vicini, le piante da annaffiare e il mio cane lontano, gli occhi nascosti tra il pelo.

Il richiamo delle primavere di Roma, le baruffe tra i banchi e la bestia che inneggia alla bestia. Dov’è l’uomo mi chiedi tu e finalmente conosco il silenzio.

Quando prima della notte getto la vergogna tra i cuscini, poi riemerge nel sonno, quante paure e quanti giorni trascorsi nel pigro andirivieni dei divani. La compagnia del cellulare e il gas acceso per non pensarti.

Quando la pancia è piena, la casa calda e pulita, il computer spento, dimmelo ora che fare? A far l’amore coi libri si gonfiano le vene degli occhi.

Una vita soltanto e tutte le altre da immaginare. Mai come adesso vorrei suonare il corno d’Africa per richiamare i giorni del passato, le magliette a maniche corte e le mani sempre impegnate in strette; camminavo sulla strada e i bambini venivano a frotte, s’abbeveravano alle mie dita e di passo in passo sudavano i palmi, che impiccio.

E invece ora, in questa solitudine che trasforma il pensiero in ossessione, vorrei fossero qui, a saltellare sui divani a suonare le pentole e incantarsi davanti al televisore solo per qualche ora, dopo il tramonto, prima del sonno.

Sai, la Vespa non l’ho ancora venduta, è fuori che raccoglie la pioggia e si fa dorso per le chiacchiere degli amici dal culo stanco. Chissà che fai tu e quale calice bagna le tue labbra.

E intanto altre barche solcano il mare e altri zaini calpestano le Ande, altri aerei prendono quota, in Sud America la frutta è matura, qui i pomodori colorano i piatti, non sanno di nulla, son così stanco delle luci al neon che accendo candele e suono, compongo frasi lunghe una riga,  più o meno così:

Vero soltanto

Ero

Cadeva la neve.

Foto: dalla rete.

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Di tetto in tetto, di cielo in cielo

Stormi di neri, di tetto in tetto, di cielo in cielo. A raccogliere fumo bianco dai comignoli, scongelare il becco e tornare al canto. Dietro la schiena i lividi prati che circondano i nostri ovest e muri bianchi fatti per dividerci. Così proponevi una birra, tutti distesi dietro alla luce artificiale del televisore, consumavamo il tempo delegando il pensiero ai racconti fantastici degli effetti speciali. Svegliarsi presto per guardare l’alba delle città industriali, chiedersi che ce ne facciamo del tempo quando il riposo è un’arte per pochi.

Vorrei accarezzarti le dita, appoggiarle alle mie spalle, avvicinarle alle labbra e scriverti con la lingua le iniziali inventate di una storia mai cominciata. Ti siedi a gambe incrociate, io guardo dalla finestra, sbuffi tu, sbuffo anch’io, la neve fuori rende onesti i silenzi e il suo disfarsi tra i polpastrelli concede meraviglia.

Tra le travi in legno e il soffitto stanno incastrate le frasi dei libri che non abbiamo ancora letto, scendono il pomeriggio a illuminarci gli occhi, ad allargare il cuore.

Suonano intanto i carillon e non sai mai riprodurne la melodia, prendono i nostri nervi e li stendono come si fa con la pasta all’uovo, ci lasciamo scivolare sui letti con gli occhi semichiusi, il sorriso accennato.

E così il sole fa il suo, si sciolgono i ghiaccioli aggrappati alle grondaie e ticchettii allegri sulle strade, cappelli colorati e pelo, il primo ghiaccio a ricordarci l’equilibrio.

Ed ora ascolta le canzoni della tua adolescenza, stringi le gambe e allenta i primi bottoni della camicia. Vibrano le tue costole e ti chiedono intrecci, mentre c’è gente che ancora fa la fila per lavare l’auto e si preoccupa del tempo che non lascia impronte, tu aspetti i daini e l’imbrunire, apri il quaderno e scrivi: “Che cos’hai? Mancanza.” e poi Wim Wenders e immagini il Cielo sopra Berlino ti dico non serve, mi chiede se ha senso ragionare così.

Foto: Nicoletta Branco.

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Foto:

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La prima neve

La prima neve e i lamenti degli automobilisti, il nero dei camini accesi e gli occhi grandi dei bimbi. Le nostre parole che cadono dalla sedia e i rimbrotti degli intestini per riportarci al reale. Che allontanavamo la fine del mondo a furia di isolamenti. Più ti allontani più ti presto attenzione, come i pastori del sud del sud del mondo, come le mandrie a nord del nord del cuore.

E tra i carrelli della spesa le nostre prime necessità in ordine sparso, le catalogazioni dei nostri vizi appese al soffitto. Poi la mia voce che non lascia ombre e la tua piccola storia. Mentre qualcuno ti fa dei ritratti non posso scordare il tuo viso, la presenza gentile delle tue guance e le tue labbra strette, piccoli morsi tra i denti bianchissimi. Sai, non so più cos’è il silenzio e mi allontano dalle scritture per capirne il senso. L’ordine è un ritmo che faccio fatica a comprendere.

Le maratone dei miei respiri di quando arrivo esausto al traguardo, col forno delle tue cosce per il mio pane quotidiano e tutte le nostre pene che svaniscono in pochi sguardi. Di quando giocavamo a fare i bambini, dei nostri ciao ciao nel bel mezzo della cucina e le vocine stridule dietro le tende per richiamare le streghe e gli incubi che abbiamo imparato a conoscere. E non c’è nero sotto ai nostri letti. Poi alle finestre chiedevamo tregua ai nostri futuri prossimi e per allontanare il pensiero dei traslochi ci incantavamo nel bianco dei tetti: il quaderno nuovo e le nostre dita inchiostro simpatico per le nostre firme. Lasceremo tracce come piedi nelle pozzanghere. E porteremo acqua ai nostri pavimenti assetati e trasformeremo i pensieri in torrenti per irrigare gli incontri e far fiorire amicizie. L’amore no, è una cosa diversa. Chiederò al cielo il perché del desiderio, ai prati verdi rugiada contro l’invadenza, poi luci al neon, risvegli in ritardo e gli inseguimenti nei corridoi bianchi dei supermercati, l’odore della terra soltanto un souvenir appoggiato sul televisore.

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Neige

E poi c’è la notte che ti porta dove non vorresti, lo spillo della debolezza per i nostri talloni invincibili di Achille e delle battaglie per la gloria e delle cariche dei mulini a vento. Del Chischotte ai concerti di Guccini con le labbra rosse di vino e tutte quelle volte che avrei voluto prenderti da dietro le tue natiche acerbe e poi dirti quei ti voglio bene lunghi tutta la notte. Avremmo potuto sederci sui gradini del palasport e asciugarci il sudore a parole i grappoli d’uva delle nostre considerazioni generiche che ti avrebbe fatto bene un anno a Londra che senza inglese non si va da nessuna parte ormai degli anni zero e dei nostri guai. E un motorino non serve a niente che i vetri delle birre vuote non finiscono più sotto ai sedili. Perché non hai la macchine mi hai chiesto e io con la solita litania del non me ne faccio niente che l’auto a Milano è un investimento quando avremmo potuto rifare le fodere ai sedili di dietro e controllare le sospensioni il movimento atavico delle onde i nostri aliti imperfetti. E poi io divago lo sai tra le tue soste, le storie di vita dei barman stanchi e i tuoi slanci affettuosi per la diversità. Hanno giocato al vodoo con la mia bambola di pezza stanotte ho bevuto abbastanza per raggiungerti e tu non c’eri e il numero civico era sempre quello col bar tabacchi di fianco e il vociare annoiato degli indie metropolitani. Tu sei un designer tu sei un container che se scaricassi quello che mi porto addosso dovresti affittare le gru dell’expo che sono pronte per gli investimenti i bastimenti carichi carichi di niente. Piazza Moscova il venerdì sera sembra il solarium delle lucertole le camicie aperte per accogliere la notte i vestiti firmati i pennarelli scarichi che non potevo scriverti nulla i miei scontrini in crisi non superano il pollice e poi ti ho detto che strano nome che strana vita le fotografie di Chaplin restano mute, lo sai? E leggerti le mie parole all’aria aperta sotto i balconi la pioggia bianca del satellite i quarantenni agli sgoccioli. Mi hai detto Neve e sono rimasto immobile per i ghiaccioli blu che non ti ho mai comprato per le parole che non ci siamo soffiati addosso. Che quando è freddo scolpiamo il cielo coi nostri aliti e dirigiamo gli aerei qualcuno mi ama qualcuno mi pensa le scie lunghe dei nostri intestini e i minuti spesi a cercare il tuo nome. Che alle volte basta un francesismo è solo autunno ma nevica forte.

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