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Sulle magliette coi pennarelli

Ieri una lunghissima litania, di quelle fuori dalla porta ad aspettare un ritorno. Un hasta siempre d’adolescente. Di quando sei scappato di casa a quattordici anni e sei stato via soltanto per qualche ora, sul prato di un parco a gambe incrociate con gli auricolari infilzati nelle orecchie e le tue scarpe sportive bianchissime. Che tutto il mondo ce l’aveva con te, soltanto i cantanti ti regalavano speranze.

Oggi una spremuta d’arancia, la sensibilità che torna a far visita alle guance e il vociare dei bambini che se ne vanno a scuola, le cartelle colorate e le madri che tornano a casa e respirano l’odore del caffè e il profumo buono del marito al lavoro. E accendono la tivù per farsi compagnia e  pensano dovrei leggere di più mentre spalancano le finestre per cambiare aria alle lenzuola, sulla finestra i peluche a salutare il giorno nei loro abiti sempre uguali. Sfilano i nonni coi carrelli della spesa, sfilano le auto dei rappresentanti e le camicie bianche dei venditori di case.

Il prezzo del mattone è sceso, urlano gli arrotini per strada e affilano i coltelli che usi senza distinzione. Così si muove il mondo nelle giornate più importanti, ti schiarisci la voce e pensi che sì, è necessario mostrarsi, come le aquile che volano sole, ma scendono in picchiata per farsi ammirare.

Non scatto più foto da tempo, ti dico, mi chiedi se mi sono imbruttito, ti dico che non lo so, che continuo a specchiarmi nei negozi di alimentari e sulle porte delle metropolitane.

E quando torno dalla notte sul vagone delle sei del mattino tutti i sonni non ancora terminati, gli occhi semichiusi e immaginare il lavoro sottopagato degli altri e le famiglie da mantenere, il cellulare che non suona mai troppo presto.

Quando eravamo giovani salivamo le scale due a due, ci trovavamo sul molo per dirci sai che c’è io me ne vado, mi imbarco e desideri di felicità scritti sulle magliette coi pennarelli.

Ora invece siamo diventati sedentari e ci scriviamo soltanto per riempire le sere, che a stare soli in questa città che divora i nostri fianchi e ci costringe al pantalone stretto, a stare soli ci si gonfiano le vene e finiamo per legarci al divano ad alimentarci del respiro del tabacco, della finzione del pc e delle lacrime artificiali dei film in cassetta.

Così ti immagini gli animali da compagnia calpestare le mine antiuomo e salvarci, perché sempre agli altri, ti dico, perché non pensi mai a noi?

I viali lunghi di Torino, l’odore dell’aria di Palermo, le vene d’acciaio che attraversano Milano, le terrazze di Roma o le vinerie di Firenze, vuoi dirmelo ora che fare, dove andare?

La durezza di questi tempi non deve far perdere la tenerezza dei nostri cuori scriveva il comandante, così continuo a spararti addosso senza centrarti mai, dici che ti intimorisco e ti nascondi nella selva. Ci incontreremo soltanto a guerra finita.

Rispondi non lo so, alzi le spalle e indossi il tuo cappotto giallo, guardarti da vicino è sempre un sorgere, mai un tramonto. Per la malinconia ci sono i quaderni, la vita, oh, la vita è un’altra cosa, oppure no, ancora non lo so.

Foto: dalla rete.

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Vero soltanto

Dei mostri del Mediterraneo, le tonnellate di cemento e gli occhiali per ridurre le dimensioni del nostro sguardo. Quando la barca accarezza lo scoglio, lo schiaffo dell’acqua e schizzi sul volto. Ricordi le estati a prendere il sole sugli scogli, e squarci di blu, spine dell’India. I nostri corpi così acerbi, le tue guance magre. Io m’incantavo seduto, le ginocchia raccolte sul petto, lo sguardo sempre altrove, mai presente.

Ricordi il pallido di queste sere, tutto il grigio dei palazzi, l’ansia per il coito prolungato dei vicini, le piante da annaffiare e il mio cane lontano, gli occhi nascosti tra il pelo.

Il richiamo delle primavere di Roma, le baruffe tra i banchi e la bestia che inneggia alla bestia. Dov’è l’uomo mi chiedi tu e finalmente conosco il silenzio.

Quando prima della notte getto la vergogna tra i cuscini, poi riemerge nel sonno, quante paure e quanti giorni trascorsi nel pigro andirivieni dei divani. La compagnia del cellulare e il gas acceso per non pensarti.

Quando la pancia è piena, la casa calda e pulita, il computer spento, dimmelo ora che fare? A far l’amore coi libri si gonfiano le vene degli occhi.

Una vita soltanto e tutte le altre da immaginare. Mai come adesso vorrei suonare il corno d’Africa per richiamare i giorni del passato, le magliette a maniche corte e le mani sempre impegnate in strette; camminavo sulla strada e i bambini venivano a frotte, s’abbeveravano alle mie dita e di passo in passo sudavano i palmi, che impiccio.

E invece ora, in questa solitudine che trasforma il pensiero in ossessione, vorrei fossero qui, a saltellare sui divani a suonare le pentole e incantarsi davanti al televisore solo per qualche ora, dopo il tramonto, prima del sonno.

Sai, la Vespa non l’ho ancora venduta, è fuori che raccoglie la pioggia e si fa dorso per le chiacchiere degli amici dal culo stanco. Chissà che fai tu e quale calice bagna le tue labbra.

E intanto altre barche solcano il mare e altri zaini calpestano le Ande, altri aerei prendono quota, in Sud America la frutta è matura, qui i pomodori colorano i piatti, non sanno di nulla, son così stanco delle luci al neon che accendo candele e suono, compongo frasi lunghe una riga,  più o meno così:

Vero soltanto

Ero

Cadeva la neve.

Foto: dalla rete.

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Nessun letargo

Pensavo a quanti se n’è mangiati la vita e alle autobiografie dei cantanti. A quelle parole che ci hanno insegnato a portare a terra, irraggiungibili nella prosa giudicante, così vicine accompagnate dalla chitarra; e allora bellezza e gioia e gratitudine come un petto nudo sotto a un vestito di scena. Le paure sconfitte e ritrovarsi a urlare strofe incomprensibili agitando i capelli nell’aria, col sudore a colorarci le magliette, la birra e quei prati immensi sempre ubriachi.

Non me ne vogliate se sulle prime sono così schivo, se mi servo del vino per raggiungere le profondità e dedico troppa cura agli sguardi. Non preoccupatevi dell’invadenza; pensiamo ad essere lontani da ora, lontani da qui e lasciamo il giudizio ai critici che tutto interpretano tranne se stessi. Il secondo me o il paradigma saranno davvero necessari?

Sai, gli alberi non parlano e la frutta si lascia mangiare. Nessun bambino ti domanda che lavoro fai, magari ti chiede soltanto se sei innamorato.

La paura della depressione consumata in abbracci al cuscino, frigoriferi che si aprono e si chiudono e tutta quell’attenzione alle morti famose. L’immortalità delle canzoni e le parole che volano quando smettono di essere nostre. Se firmassi i miei pezzi con un nome inglese finiresti per tatuarteli sulle braccia o magari, e sarebbe fantastico, sul ventre e giù lungo i tuoi fianchi stretti, me l’hai detto tu. Vorrei fotografarti appena sveglia e senza trucco, chiamarti prima di dormire per parlarti dei pesci palla cresciuti in cattività e delle periferie della Thailandia. Girare il mondo è ridurre le distanze in coscienza.

Quando ti parlavo dei miei sogni di factory erano tutte velleità fuori dal tempo, come guardare le luci del Natale e rimpiangere le lucciole. E tra un caffè e una sigaretta, nei documentari che giro sulla carta alle tre del pomeriggio penso ai tempi in cui accendevo incensi per casa e lasciavo una candela sulla scrivania per riconciliarmi con l’altissimo e sentirne la presenza. Dei pensieri osceni davanti alle vetrine dei centri commerciali e dell’insopportabile accento cinese in fila alla posta. Le imperfezioni della mia pelle e poi le smagliature: tutta colpa di quest’adolescenza mai conclusa, delle spinte primordiali del mio ombelico e delle tue dichiarazioni di guerra alla mia indipendenza. Indosso il cappello per non disperdere i pensieri al vento, per dirti con Asia Argento che non ho freni, lo sai, io piscio verità e va a finire che ti spaventi o mi mordi la lingua. Non siamo volpi noi, mai così furbi da rifugiarci in letargo.

Foto: dalla rete.

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Il Lupo Mangiafrutta

Darling, darling, darling ti ripetevo, l’avevo scritto sulla tua schiena, sui muri della tua stanza senza finestre. Ci siamo messi a fare la conta delle tue cicatrici, che ti tagliavi le braccia per soffrire di meno. Mi hai detto che le mie parole adesso sono sale. Che non puoi far altro che scappare. E io ancora disegno schiene, lo faccio a suon di lettere perché prima o poi una sedia mi chiederà il perché di tutto questo girovagare e faremo a gara a chi ne sa di più. Che non è poi così importante fare gli Ulisse e spingersi agli orizzonti del mai. Facciamo esperienza dalle terrazze, noi, come le sedie, noi, che offriamo ristoro e poi lasciamo la libertà dell’andare e rimaniamo fermi, soli, in attesa di un altro peso, le nostre conoscenze a saltello e i primi scricchiolii, che ci facciamo sentire solo quando proviamo dolore.

Te ne eri andata chissà perché, mi ripetevo, e non trovavo nessuna spiegazione. Avevo aperto gli armadi, cercato tra le bollette scadute un segno della tua presenza, le mie camicie non portano ferite al rossetto e il nero dei tuoi occhi si scioglie sempre troppo in fretta che mi piaceva suonare le tue vertebre quando ansimavi forte e poi piangevi e poi tornavo a guardarti e ti eri trasformata in Pierrot. Come in quella favola fucsia te ne andavi in giro tra le mie guance a cantare dei nostri futuri migliori, quando smetteremo di interrogarci e ci faremo trasportare dalla corrente. Siamo salmoni, dicevo io e così ci è venuta fame, ma in casa non c’era nulla. Solo un sacchetto di cozze. Ci puzzeranno le mani dicevi tu, siamo in decomposizione ti rispondevo. E poi mi sistemavi i capelli e mi dicevi che quei discorsi poteva farli giusto Morgan quello dei Bluvertigo. Allora mi sono messo la giacca col doppiopetto e ti citavo la Commedia a memoria e mi dicevi che si capisce sempre troppo poco delle cose belle che la passione ha bisogno di stile e altre sciocchezze così ho tirato fuori la lingua e tu ti sei messa a corrergli intorno. Eravamo indiani nella nostra riserva, al riparo dagli occhi invadenti del mondo c’eravamo costruiti una capanna e credevamo di bastarci e non avevamo paura del vento. Mi si incollavano i capelli quando mi sono detto che forse non avevo i soldi per pagare l’affitto e mi sono rivoltato i jeans ti ho detto basta, dormiamo di più e tiriamo la corda che per stare nei cieli ci vuole equilibrio. Così sono sceso in strada e Milano col sole e le edicole aperte coi cartelli per dirci che non si regalano informazioni e non c’è più tempo per le domande. Le chiese sono sempre chiuse mi dicevo, non c’è silenzio qui, poi piazza Vetra sdraiato sul prato a leggermi Wallace ed annoiarmi così tanto che mi sono messo la maglietta in testa come certi calciatori e ho corso fino alle colonne ho bussato alla porta, la chiesa chiusa, mi hanno detto che fai, ho risposto bussate e vi sarà aperto e mi sono sorpreso a ridere solo. Ho un cappello e due orecchie in testa, l’asino o il matto, io, Ninetto e il corvo in Uccellacci e Uccellini e i tarocchi di Brera.

Tutta quella storia di te ed i salmoni l’avevo solo immaginata, lo sai? Neanche sognata che quando viene la notte mi si rivoltano i pensieri e trasformo le ore in marmo duro che non c’è spazio per le buone immagini. E tu chissà dove sei. Le macchine fotografiche tra tuoi occhi piccoli e le tue gambe a compasso. Hai le labbra sporche di caffè, ti siederai a un buon ristorante all’ora di pranzo e ordinerai un primo, magari con le melanzane che ti piacciono tanto. Rifiuterai il dolce e poi ti pentirai. E tornerai a parlare dei grandi del mondo e poi degli ultimi, gli opposti e le contraddizioni tra i colori scarichi di questa Europa. E sogni di Indie e Sudamerica tra i tuoi capelli. Tu come Pasolini, gli occhiali inseparabili e il male inguaribile dell’esistenza sensibile. Tutte queste parole a grandine tra i peli del mio petto, mi intestardisco sulle necessità e dimentico il resto. I panni sporchi e la polvere, e quel curriculum così vecchio che non mi serve a nulla. Manca la carta igienica in bagno. La solitudine è una scatolina che si dimentica quel che contiene. E guarda il buio aspettando il momento della libertà, l’aria nuova del gesto lento dell’aprire. Bussate e vi sarà aperto. Poi quel Toc Toc, il tuo chi è e il Lupo Mangiafrutta. Che frutta vuoi? Non c’è.

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Vediamo ogni giorno il mare

Ascoltavo Cremonini perché un giorno migliore verrà e non mi vergogno dei gusti pop dei miei jeans larghi delle chiazze d’olio sulle magliette il sudore della mia fronte è gratis in questi giorni d’afa. Non mangiano più le zanzare troveranno altre caviglie per succhiarci le forze per farci a pois come i cani antipatici che non ci fanno le feste quando torniamo a casa. Dovremmo uscire a cena, berci una birra e farla scaldare a furia di parole, perderci il tempo per le passeggiate nei parchi per fare ironia sulle corse zoppicanti dei giovani d’oggi. Quando eravamo sani quando eravamo belli ci sbucciavamo le ginocchia e leccavamo il sangue che sapore ha poi il dolore? Le nostre croste i nostri passatempi le lenti d’ingrandimento per le lucertole che sapevamo prendere i raggi del sole e fare un fuoco di paglia. Rapiti da questa città i tentacoli delle nostre relazioni appena nate e poi morte di sonno. Quando ti ho scritto che dovevamo fare dei tetti una coperta e lanciare le nostre frecce avvelenate all’ordine dei teatranti alle cronache scariche dei giornalisti e a questi critici a questi critici che condannano l’uso sano dell’intelligenza per la virtualità dei pensieri e la carica elettrostatica del nostro agire. Mio nonno coltiva pomodori sul balcone e sa dirmi con certezza che fare quando la luna è piena. E tu cos’hai da dirmi e tu cos’hai da darmi? Che poi non m’interessa che merito ne avrò che gusto c’è. Ho smesso di bere ti ho detto che non sento più i sapori quando smetterai di fumare di atteggiarti in riva alle finestre sentirai il pulsare forte del muscolo che tengo nascosto, il cuore lo sai che mi piace quando pensi male. Le tue mani scolpite sopra il mio letto quando ti sei sporta più in là e disegnavamo L nella stanza come a dire che per ribaltare il mondo basta rivoltare noi. Che abbiamo ricevuto un dono due volte e non abbiamo potuto restituirlo questa sensibilità che disegna i contorni alle cose semplici alle cose sane alle cose buone e l’impossibilità assoluta di sentirne il sapore che come gli asini sulle schiene portiamo i ricordi e rincorriamo le carote le pietanze impossibili e sulle strade irte di Santorini portiamo a spasso i turisti i culi sodi delle adolescenti ansimiamo forte un passo e un raglio i nostri oh sì ah di soddisfazione per lo sporco che accumuliamo tra gli occhi che vediamo ogni giorno il mare ma non possiamo tuffarci.

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Nostalgie

La nostalgia per le urla di quando era pronto in tavola. Che lasciavi tutto e inghiottivi bocconi così caldi che non sentivi i sapori che la tivù rimaneva sempre accesa ed ignorarla era un bel gioco chissà se poi si è offesa. E mangiavi veloce che sembrava che ti rubassero la vita. Poi tornavi in camera e chiudevi la botola per non far entrare nessuno e non combinavi nulla. Ed era subito sera. Di quella volta che tornavi a casa da scuola ed era caduto il muro di Berlino. Ricordi quando correvo al parco per vederti? Non faceva così caldo allora.
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Lenzuola

E quella volta che l’ho detto a tutti tranne che a te. Che mi piacevi e non potevo proiettare sui muri nessun’altra. Che avrei rimboccato le pieghe delle tue ginocchia tutte le notti e ti avrei portato a sorvolare le fabbriche per proteggerti dalle truppe di terra. E ascoltavo sempre la stessa canzone. E dormivo sul pavimento e conservavo le lenzuola pulite per le tue spalle fredde. E cominciavo le frasi e non le chiudevo mai per paura della fine. E poi ho incontrato lei e tu ti sei nascosta nell’armadio insieme ai poster di Non è la Rai. Quando ti ho sentita starnutire, ma faceva troppo freddo e si stava come gli dei sotto le coperte sporche di vino e ho fatto finta di non sentire. Per tutte le volte che non mi hai aspettato. Che avresti potuto anche scendere in pigiama.

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Achille e Valentina da “Oggi, domani o dopodomani”

(…)

Achille versò del vino rosso nei bicchieri ricavati dal contenitore di vetro della Nutella.

Non riuscì a non notarlo. Valentina si era sporta un poco sul lavandino, la maglietta azzurra elastica si era sollevata e aveva lasciato scoperto un tatuaggio rosso con la scritta: “I can fly.”.

Piuttosto banale.”

Che?”

I can fly.”

Mi guardi il culo?” Valentina mischiava la pasta al sugo etnico. L’odore di curry sfondava le narici.

Non sono solo io quello banale.”

L’ho fatto in America, a 16 anni. Non lo rifarei più ma ormai sta là e se l’hai guardato vuol dire che ti piace.”

Mi piace quello che c’è sotto ma la scritta è inguardabile.”

Arraperebbe chiunque.”

Qualsiasi sedicenne. Qualche ventenne allupato. Un trentenne stupido. Un quarantenne annoiato. Ora che ci penso… sì, arraperebbe chiunque.” Risero. Poi gli sguardi si incrociarono, un istante di silenzio, poi ci pensò Valentina a spezzare l’imbarazzo.

Lo vedi? Banalità. E’ la chiave del potere.”

La banalità arrapa, eccita, comanda e…”

Filosofo, mangiamo?” Lo interruppe lei porgendogli il piatto.

Achille affondò la forchetta tra i maccheroni. Li portava alla bocca, schioccavano sul palato e rilasciavano il gusto ai lati della lingua. Non passarono tre minuti che il piatto di Achille fu pulito mentre quello di Valentina era ancora pieno.

(…)

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Plexiglass

Che siamo cani che s’annusano e poi si rincorrono. Con le costole cariche di tecnologia i nostri squilli per fraintenderci. Con la paura di restare soli nel paese delle meraviglie. Che ti circondi di plexiglass per i tuoi riflessi non convenzionali. I miei sguardi ti scorrono addosso come titoli di coda quando mi hai chiesto la lingua e io ti ho parlato della verità. Di quella volta con Melissa Satta sull’autobus, lei e le sue calze fucsia. Di quando c’avevo l’alba dentro ma mi ubriacava la notte. Quell’isola del Titicaca coi soffitti di terra, il risveglio di soprassalto per l’odore di fumo delle mie vite precedenti e davanti il lago e le balene in cui ho abitato e il pesce crudo che mi hai fatto mangiare. E nei tuoi moon boot chissà cos’ hai nascosto e prima o poi nevicherà, chissà. Quando saprai che costruisco degli argini per le bottigliette d’acqua che porti in borsa. Che mi sfili i nervi uno a uno per muovermi a marionetta e nei teatrini di Emergency di piazza Gramsci ci sentiremo più buoni mentre Barbara D’Urso ci insegna a piangere e noi impariamo così in fretta.

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Prima dell’ultimo metrò

Vuole che le legga la mano? Dentro di lei ci sono due donne. (…) Pensavo non mi avrebbe mai letto la mano, la leggeva a tutte, tranne che a me. Le donne hanno uno strano modo di desiderare. Gli uomini uno strano modo di conquistare. E come sa, lei, che io la desidero? Le sto leggendo la mano.

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