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Io mi chiamo Marco e faccio il viaggiatore

A Roma, al Pigneto, al bar Necci, si gioca alle carte dalle otto del mattino. Ci giocano signori in pensione, sono seduti su sedie bianche e lanciano le carte sulle piastrelle lucide del tavolo. Qualcuno vince, qualcuno perde, nessuno esulta. La Roma è stata sconfitta all’Olimpico, la Lazio ha battuto il Torino e ora ha un solo punto di svantaggio in classifica. Qualcuno tossisce, qualcun altro invece bestemmia e ride, chiede un caffè e il barista annuisce, torna col caffè dopo un quarto d’ora, il caffè è freddo. “Di chi è il caffè?” Chiede con l’accento africano. Nessuno risponde, sono le dieci e i pensionati se ne sono andati chi a fare la spesa, chi a comprare le sigarette, chi a tener compagnia alla moglie davanti alla televisione. Io leggo l’ultimo romanzo di Carrère, solo due pagine, mi annoia. Mi guardo intorno, ci sono molti specchi alle pareti, posso guardare senza essere guardato. Una ragazza coi capelli neri parla di un ex mattatoio, dice che bisogna avere il coraggio di investire nel futuro senza essere investiti dal futuro, poi domanda il nome al barista, due volte, lui risponde due volte, io non riesco a sentirlo, si presenta anche lei dice: “Chiamiamoci per nome da adesso e per sempre.” Lui annuisce, lei lo chiama per nome e gli chiede un orzetto. Lui annuisce ancora, poi dice “Te lo preparo, non facciamo servizio ai tavoli però devi venire a prendertelo.” Lei risponde “Grazie.” e il nome di lui. Lui se n’è già andato dietro al bancone.

Anche io fino a pochi anni fa chiedevo il nome ai camerieri, poi ho cominciato a pensare che è una domanda che rivela un’idea buona di mondo, un luogo dove il nome viene prima del ruolo, ma c’è in tutto questo qualcosa di presuntuoso, di insolente. Quando facevo il cameriere infatti non mi piaceva che mi chiamassero per nome, forse perché mi sentivo essere più del mio lavoro, forse perché mi sentivo più del mio nome. Così ne avevo inventato uno, per non essere scortese: Benjamin il cameriere; rivelavo quello vero soltanto a chi mi ispirava fiducia o affetto o simpatia.

Mi chiamo Marco e sono un viaggiatore.

A Firenze, vicino alla stazione, c’è l’Osteria Nuvoli. All’Osteria Nuvoli puoi chiedere il gotto di vino, il calicetto e il bicchiere. Il gotto sono due sorsi, il calicetto cinque, il bicchiere non so, ho perso il conto. Da Nuvoli puoi bere del Brunello di Montalcino per pochi euro, puoi mangiarti i fegatini e pure la trippa o il panino con la porchetta. Da Nuvoli puoi aspettare il treno e far chiacchiere con l’oste o con gli avventori. È frequentato dai turisti ma quelli si siedono a tavola, invece intorno al bancone, sugli sgabelli, siedono i fiorentini. Così c’è Giulia dai capelli biondi che non ha passato l’esame di teoria della patente per un errore di troppo, la sua amica ricciola che la consola, la fotografa di arredamenti che beve un bianco prima di tornare a casa e cenare da sola, l’avvocato che ce l’ha con il traffico e l’oste che quando s’annoia parla della Viola, la Fiorentina che ha battuto il Milan due a uno e ora se la gioca con la Roma per il passaggio ai quarti di Europa League. Da Nuvoli non ci sono specchi e le persone le guardo negli occhi, complice è il vino che fa cadere ogni riservatezza. Così faccio sempre amicizia con qualcuno, parlo di come si vive a Firenze, del fatto che io non sia toscano ma sogni una casa in collina. Dice: “Tu vo’ fa’ l’americano! Non se la compra più nessuno la casa là fuori, ‘i son care, noi le si vende, si va via!” “E dove andate?” Chiedo io. “Via!” Risponde lui, “Si va via.” La ragazza della patente mi guarda e ripete “Via!” L’oste mi guarda sorridente, dice: “Eh, si va via!” E io mi chiedo dove sia questo via, dove stiamo andando tutti. Saluto e mi incammino verso la stazione, il treno è in ritardo, ho sonno, sempre colpa del vino.

Le poltrone dei Frecciarossa sono spaziose e comode. Le prese di corrente funzionano e riesco a ricaricare il cellulare. Mi arriva un messaggio “Ci siamo allontanati molto, cosa posso fare per te?” Rispondo: “Non lo so, io vo’ via!”, risponde “E dove vai?” Poi mi addormento.

Il treno frena, arrivo a Milano. A Milano c’è il sole, a Roma pioveva, a Firenze pure. A Milano Necci non c’è, nemmeno Nuvoli. Dove vado? Via. Via, sempre via.

“Tu sei pazzo.” Risplende il display del cellulare.

I pazzi stanno nei manicomi, io no, io vo’ via. Io che sono Marco e faccio il viaggiatore.

Foto: © Giulia Bersani

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Se ci fosse qualcosa di più originale dell’amore?

Pensò che non era il giorno per consumare l’attesa di un treno lanciando gli occhi sui binari e facendoli rimbalzare come i sassi piatti nel mare. Troppo tardi per visitare Firenze. Troppo presto per aspettare seduto su una panchina.

Tra gli abbracci e i saluti degli altri, le corse dell’ultimo minuto e i controlli della polizia fece forza sul braccio destro e si caricò la borsa a tracolla sulla spalla destra. Raggiunse il McDonald’s di fronte alla stazione e seduto sul gradino in marmo di una vetrina tirò fuori dalla tasca filtri e tabacco, il sacchetto trasparente dell’erba dalla tasca della camicia e l’arte del rollare imparata ai tempi della scuola superiore. Più d’un mendicante gli si avvicinò per chiedergli qualche spicciolo o una sigaretta. Lui nemmeno gli rivolse la parola e continuò lo strofinio tra pollice, indice e medio. Quando lo spliff fu pronto lo appoggiò tra le labbra senza accenderlo. Riprese la borsa e si incamminò lungo via Panzani. Il passo svelto ad evitare le chiome bionde dei turisti, dispensava sguardi ai vestiti lunghi e leggeri che facevano intravedere le forme di giovani femmine che si dannavano in discorsi fatti di c aspirate e superficialità tipiche del dopo lavoro. Il sole faceva risplendere le insegne delle gelaterie mentre i gelati rilucevano già di loro, tutta colpa dei coloranti, pensò il nostro, e allontanò l’idea di succhiarsene uno.

Si fermò davanti a una vetrina attratto dalle chiome pettinate delle commesse del pret-a-porter, pensò di entrare e chiedere un numero di telefono per un appuntamento futuro, poi si disse che chissà mai quando sarebbe tornato nella città del giglio, che era l’ora di chiusura e che nessun commesso ti dà mai retta quando ha fretta di chiudere il negozio e tornarsene a casa. Continuò su via dei Cerretani, poche centinaia di metri, voltò a destra in piazza dell’Olio, ancora dieci passi e lesse il nome sull’insegna: Nuvoli, fiaschetteria. Appoggiò la borsa contro al muro, prese lo spliff e dalla bocca lo mise con cura dentro a un porta sigari. Poi entrò, si avvicinò al bancone, guardò negli occhi l’oste e chiese: “Un bicchiere di rosso.” 

“Scelgo io” Gli si rivolse l’uomo.

“Scegli bene.”

Poi prese posto fuori, seduto su uno sgabello, le spalle al muro e i primi bottoni della camicia aperti. Il calice colmo. Si bagnò le labbra, schioccò la lingua contro al palato in segno d’apprezzamento. Di fianco a lui due turiste americane bevevano sguaiatamente una Vernaccia, le fissò, poi si accarezzò la barba e spostò lo sguardo sulla strada. Fissò gli occhi di una giovane ragazza bionda vestita in bianco. Si sentì guardata, sorrise. Lui non cambiò espressione, così lei spostò le guance per la vergogna e aumentò il passo. Lui a quel punto rise, lei non se ne accorse, girò l’angolo e scomparve.

Oh, c’hai rotto il cazzo con ‘ste descrizioni, ma chi sei Kafka?

Voi volete sapere che fine ha fatto lo spliff e speravate che si facesse la blondie, eh. E io che devo fare, vi devo accontentare?

Segni d’assenso.

Ma se v’accontento non c’è alcun mistero dai, alla fine si ritrovano a casa di lei a scopare contro al muro, posso inserirvi qualche dialogo stimolante, ma la storia è sempre quella, lo sconosciuto interessante che seduce la ragazzina indifesa. Volete questa?

Segni d’assenso.

E poi non vi basteranno mai i particolari, nel senso che mi chiederete di descrivere il coito e dovrò trovare qualcosa di più originale di una mano che stringe le lenzuola o delle dita del piede che si aprono a ventaglio per descrivere un orgasmo. Volete gli schizzi voi.

Segni d’assenso.

Non sarebbe più originale se si fossero conosciuti su Facebook?

Segni d’assenso.

E magari se dopo l’amore uno confessa all’altro un segreto, magari una malattia. E se poi lui stesse aspettando proprio lei, là all’osteria?

E se finisse col sangue?

Segni d’assenso.

Se ci fosse qualcosa di più originale dell’amore?

No, eh.

Potrebbe essere un alieno, lui. Uno che non si affeziona mai, uno che seduce per puro narcisismo, uno…

Un cantante, dite? Un attore? Anche sì.

Me lo fumo io il suo spliff. E’ per accontentare voi che nessun romanzo avrà inizio e questa è un’altra fine. Mentre mi accarezzo la barba, sorseggio un rosso. Fisso una ragazza, una bicicletta, una scia bianca nel cielo.

Foto: autore sconosciuto, dalla rete.

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