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L’epica dello Knock-out di Katie Kitamura

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Knock-out è un romanzo di sport che lo sport trascende. Lo scrive una donna, Katie Kitamura, trentacinquenne californiana di origini giapponesi, un fratello tatuatore grazie al quale si è appassionata alle arti marziali miste. Dopo Joyce Carol Oates col suo On the boxing (1987) il ring trova una voce femminile credibile e raffinata oltre che competente, capace di andare oltre alla vicenda sportiva per trattare argomenti universali.

Il libro è pubblicato da Isbn Edizioni, casa editrice milanese da sempre attenta alla sport fiction di qualità – voglio citare a questo proposito L’alieno Mourinho di Sandro Amodeo e Baghdad Football Club di Simon Freeman –, e questa uscita in Italia (la pubblicazione americana è del 2009, Simon & Schuster) rappresenta certo un passo importante nello sviluppo e nella considerazione del genere.

Sport e letteratura sono da sempre legati, mi ha rallegrato vedere che nel film Il giovane favoloso di Mario Martone si faccia riferimento esplicito alla passione di Leopardi per il calcio e alle poesie a esso dedicate. Spesso il mondo delle lettere ha guardato con spocchia alla trattazione dei gesti atletici e per questo in pochi hanno raccontato lo sport in un romanzo, ma le cose stanno cambiando e anche rapidamente. È del 26 ottobre l’omaggio di Gianni Mura ai settantacinque anni dalla nascita di Beppe Viola, gli aedi del campo si ricordano sempre, a maggior ragione oggi che la trattazione sportiva sui quotidiani si è impoverita. In Italia è il web che muove passi consistenti nello sviluppo della letteratura sportiva, negli ultimi anni fioriscono siti che si occupano di sport con approccio personale e autorale, ricordo l’Ultimo uomo (ultimouomo.com) o Rivista studio (rivistastudio.com), e in edicola la rivista Undici traccia ritratti di uomini di sport con piglio nuovo e lessico che progressivamente si allontana da quello giornalistico contaminandosi con quelli poetici e giovanili e tenendosi sempre lontano dalla retorica. Al di là delle biografie sportive pubblicate dai grandi editori, è necessario citare la casa editrice 66thand2nd con la sua collana Attese, tutta dedicata alle storie di sport. Ci sono a mio parere i prodromi per lo sviluppo di un modo di trattare lo sport originale e serio e l’uscita di Knock-out è la valida testimonianza di una narrazione sportiva non cronachistica e fine a sé stessa, ma punta di un iceberg rivelatore di umanità.

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Il romanzo della Kitamura narra i tre giorni che precedono il rematch tra Cal, lottatore della formazione di Riley e Rivera, l’atleta più forte nel mondo delle arti marziali, sempre vincitore per k.o. ad eccezione dell’incontro di quattro anni prima proprio con Cal dove ha trionfato soltanto per verdetto dei giudici. Rivera desidera chiudere la sua carriera realizzando quel che non gli è riuscito nel match precedente, mentre Cal vede la sfida come il coronamento di una carriera da vincente, ma non da primo della classe.

Kitamura concentra la sua attenzione sui personaggi di Cal e Riley, e se in un primo momento la fiducia in una possibile vittoria è alta, col passare delle ore questa viene meno fino a rivelarci l’umana debolezza dei due, il tramonto di una carriera e il sopraggiungere, con l’età che avanza, di una nuova fase della vita. Timori, ripensamenti, sconforto e coraggio si fondono in una relazione che va oltre quella di allenatore-atleta, ma svela un’amicizia fatta di attenzioni e confidenze, pur rimanendo maschile, infatti poco fanno le parole, parlano i gesti. È l’ombra di Rivera, quella che precede la sua apparizione, che scardina le certezze prima di Riley e poi di Cal. Il lottatore vincente non è presentato come un uomo, ha i tratti della bestia, e come Moby Dick impone la sua legge, diventa ossessione. Prima non si fa trovare, poi si rivela in tutta la sua grandezza al momento della pesa che precede il combattimento quando guarda Cal con un occhio solo, il suo viso è piallato dai pugni presi in carriera, non ha espressione, bestia selvaggia senza volto, fascio di muscoli e nervi sempre in tensione, desiderosa di picchiare forte per affermare la sua legge. Quel che sappiamo della sua umanità lo apprendiamo dai lottatori giovani della sua scuderia, preparatissimi e umili, immersi nella venerazione di un maestro dalle qualità irraggiungibili, in attività eppure già storia.

La prosa è secca, agile, avara di aggettivi. Il romanzo procede per frasi brevi e sono le singole azioni a portare avanti la narrazione. È lo sguardo, l’immagine, che suggerisce l’emozione e il ritmo della prosa è sapiente, sa quando farsi incalzante e quando lasciare un respiro, pur raro, al lettore. Le pagine finali dedicate all’incontro sono magistrali per precisione e ritmo, nessuna concessione all’emotività, una cronaca secca, serrata, che costringe il lettore all’a tu per tu con la pagina, a farsi anch’esso parte di un combattimento dove non si può tifare, ma soltanto guardare, trattenere fiato e giudizio fino alla conclusione che da una parte si aspetta e dall’altra si teme.

Nel ring della letteratura il genere sport fiction si mostra più vivo che mai e trova in questo straordinario romanzo d’esordio un lottatore instancabile, capace di colpire nel segno e durare nel tempo.

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Knock-out, Katie Kitamura, Isbn Edizioni, euro 19,00, pagine 158.

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Nella psicotropa Taipei di Tao Lin

 

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Non so se chiamarla audacia, coraggio, scelta raffinata, attenzione alla contemporaneità o chissà che altro, ma è un fatto che Isbn Edizioni ci sa fare e così nell’ultimo giovedì di agosto porta nelle librerie italiane Taipei di Tao Lin nella traduzione di Andrea Scarabelli. Son 22 euro di libro, mica poco per 265 pagine, ma son denari che si spendono volentieri perché la copertina è azzeccata, la qualità della carta è niente male e son passati tre anni da quando un libro dell’autore americano è uscito in edizione italiana. Era il 2011 e Il Saggiatore pubblicava Richard Yates, la storia di un amore virtuale nato sulla chat di Gmail, problemi alimentari e tanta solitudine. Bastava leggere poche pagine per rendersi conto che tra le righe ci fosse qualcosa di vivo e di nuovo a livello di stile, di ritmo, di punto di vista. Ricordo che era il 2011 e a un colloquio per lavorare in casa editrice mi chiesero: “Qual è uno scrittore che ti piacerebbe incontrare?” Risposi “Tao Lin.” Il direttore editoriale fece finta di non capire, si segnò quel nome su un foglietto, mi disse: “Ci risentiamo presto.” Sono passati più di due anni e non si è ancora fatto sentire.

Ora, il personaggio Tao Lin è un concentrato di narcisismo e boria, è vero, ma uno scrittore bulimico che si è fatto conoscere attraverso il self publishing porta con sé tutta quella invadenza e la faccia tosta che l’operazione chiede. Quanto al narcisismo, non fa a pugni col mondo letterario, anzi. Dunque prendiamo lo scrittore e freghiamocene del resto, perché di certo non ci capiterà presto di andarci a cena.

Taipei è considerato da molti il romanzo col quale Tao Lin è riuscito a fare il salto di qualità e a ricevere finalmente le attenzioni di tutto il mondo della letteratura, prova è anche il fatto che uno scrittore come Bret Easton Ellis – citato a più riprese da Tao Lin nei suoi romanzi – si sbilancia nel dire: “Con Taipei, Tao Lin è diventato lo scrittore più interessante e raffinato della sua generazione”.

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Il ragazzo ha 31 anni e questo è il suo terzo romanzo anche se assomiglia molto più a un’opera prima: è semi-autobiografico, è un romanzo di formazione e racconta la vita di un giovane che attraverso l’amore scopre che la sua vita è molto di più di quello che si aspettava che fosse e arriva a essere “riconoscente per il fatto di essere vivo”. Le case editrici italiane hanno i cassetti pieni di storie così. Cosa fa la differenza qui? Che la storia sia inzuppata di droga all’inverosimile, così intrisa di psilocibina, eroina, cocaina, Lsd, Mdma e chipiùnehapiùnemetta che quasi ti viene a noia? No. Che il protagonista sia uno scrittore? Che i personaggi passino il loro tempo tra reading, cuscini, e metropolitane? Che si parli volentieri di sesso orale? No, questi sono elementi comuni a molta fiction, quello che distingue Tao Lin è lo stile. La storia non è infatti granché originale: sono le scorribande di uno scrittore e della sua ragazza tra social network, passatempi fatti di droghe, festini e filmati amatoriali registrati col MacBook o l’Iphone; un matrimonio a Las Vegas, genitori figli della morale sociale, una crisi di coppia e poi ancora droghe fino alla risoluzione finale.

La lingua invece è contemporanea, non sperimentale, ma prodotto dell’uso quotidiano del web. Tra le pagine di Taipei si dice addio alle lunghe descrizioni dei luoghi o dei personaggi, ci si concentra sui gesti piccoli, sulle emozioni momentanee, sui vorrei e sulla follia di certi ragionamenti. Quello che conta è quello che succede dentro i personaggi o poco fuori da loro, fin dove la percezione e la proiezione – consapevoli o indotte – arrivano, lo sfondo è poco importante e monotono: palazzi, grattacieli con insegne che si accendono e spengono al ritmo di immagini gif.

L’adolescenza qui trattata, una questione che riguarda ormai tanto i quindicenni quanto i quaranta- cinquantenni, ripropone i temi classici della solitudine, della confusione, della non accettazione del sé, del bisogno di amore o più che altro di qualcuno che non giudichi e sia disposto ad ascoltare, ma è trattata con la consapevolezza del ferito, dello scrittore solo e col sentire grande, che tutto comprende e tutto riesce a restituire al suo lettore, provando le emozioni che descrive, facendo diventare il suo male il male di tutti, un martire della sua sensibilità e del bisogno di dire. Ecco il capolavoro di Tao Lin, scrivere come qualsiasi adolescente vorrebbe scrivere, esprimersi come qualsiasi adolescente vorrebbe esprimersi. Il lettore si sente rappresentato e capito e, camminando a notte per le strade di qualsiasi città, sorprendendosi a guardare le finestre illuminate o i marciapiedi fuori dai McDonald avrà la sensazione che sì, qualcuno a lui vicino stia parlando dell’esistenza, senza farci molto caso e senza le parole pesanti della filosofia, ma alla maniera di Tao Lin, colui che con grazia, ma senza pudore sa farci partecipi della confusione di un’età infinita, dell’immobilità a cui porta il contemporaneo, un tempo dove il parlare e l’immaginare, in una sorta di bovarismo dell’era di Apple, si sostituiscono all’esperienza concreta, così che il pensiero si rivela già azione senza doverlo per forza diventare e poco importa se il tutto avviene nella multimedialità, perché non c’è differenza tra virtuale e reale, l’importante è quel che sente il corpo, o il cuore, per Tao Lin non c’è nessuna differenza, conta l’emozione o la sua mancanza. La noia, o la sua assenza. Il vuoto e tutto quel che ci vuole per colmarlo.

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Citazioni:

Paul si era accorto che Laura, che non lo guardava, non apprezzava la sua presenza e si stava seccando, ma lui si sentì immune a questa informazione per via dell’alcol e continuò a fare domande, chiedendole quanti anni aveva e se aveva frequentato o stesse frequentando il college e se sì quale. A man mano che il fastidio di Laura si intensificava, trasformandosi in incredulità e incupimento, lei entrò in uno stato di iperallerta, focalizzandosi solo su Paul con espressione guardinga ma anche di sfida e gli chiese come mai le facesse tutte quelle domande. “Non faccio domande” Disse Paul, “sto solo cercando di parlare. “Perché questo interrogatorio?” Sto solo cercando di fare conversazione.

 

“Scusa, non voglio rompere” disse qualche minuto più tardi “ma non riesco a dormire senza neanche un rumore, per esempio un ventilatore.” Paul accese la ventola del bagno. Caroline la spense poco dopo. Paul la riaccese e mandò un messaggio a Caroline per spiegarle la situazione, aggiungendo che le avrebbe dato cinque dollari per poterla fare andare tutta la notte.

 

“Abbracciamoci il più stretto possibile” Disse Paul, poi si alzò e lo fecero, “Penso che stringersi davvero forte sia quello che le persone che si tagliano arrivino a… provare.”

“Ti sei mai tagliato?”

“No” rispose Paul “e tu?”

“No” disse Erin, portando il MacBook verso l’ingresso.

“Perché stringersi dà una bella sensazione?” si interrogò Paul in modo distratto.

 

Nell’ufficio, che era luminoso, tranquillo e ricordava un ufficio postale, mentre riempivano dei moduli Paul disse che sposarsi era come fare un tatuaggio, una situazione in cui voleva solo pagare dei soldi e ricevere un servizio, non prendere degli appuntamenti e andare in diversi posti, parlare con degli sconosciuti e confermare di essere sicuro della propria scelta.

 

“Noi come facciamo sesso?”

“Mi sembra vada bene”

“Hai qualche critica? Di qualsiasi tipo.”

“Critiche” considerò Paul. “Uhm, no.”

“Davvero? Puoi dirmelo.”

“Critiche” ripeté Paul.

“O qualsiasi cosa. Dei pensieri.”

“Uhm, no” disse Paul, “Non penso che per me il sesso sia poi così importante.”

“Sì” disse Erin in modo vago.

“E tu che cos’hai da dire… riguardo a me?”

“Non ho niente da dirti” rispose Erin.

“Sei sicura? Puoi farlo.”

“No, sei davvero bravo in tutto…”

“Sul serio?”

“… e tieni sempre vivo l’interesse” proseguì Erin.

“Sicura?”

“E ho degli orgasmi, tipo, regolarmente” disse Erin.

Paul fece un suono tranquillo a indicare di aver capito.

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Taipei, Tao Lin, Isbn Edizioni, 2014, 265 pagine, 22 euro.

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L’amore non amato

Esiste un amore non chiamato. Irrisolto. Un amore non amato.

Ruba il bianco alle nuvole e si distende in cirri nel passeggio dei giorni. Si alimenta in fiammate e malinconie. Di speranze e solitudini durate poco. Travalica il sesso e l’orgasmo della dimenticanza. Un amore che teme la morte e si presenta debole e inesperto.

Ci pensi ancora che c’è chi sporca il bianco delle camicie appuntando le proprie iniziali?

Nell’unicità del sentimento non corrisposto tutte le mie piccolezze. E la grandezza infinita del dono. Che se ti amo gratis è perché nulla pretendo. Le notti insonni a caricare surrogati negli occhi e disperdere la voce in eccitazioni da poco. E chiederti perdono quando non ci sei.

Nei dieci minuti prima del sonno il timore del vacuo. Che non ti accorgi che non puoi occupare i vuoti intorno se non sei presente e pieno. Quest’argilla che ci circonda il cuore e il bisogno di calore che plasma orizzonti.

Non riesco ad essere leggero oggi, non ora, non qui. Misuro la forza di gravità che lascia cadere le palpebre e dischiude le labbra nel taglio bianco dei denti.

E se pensi che hai bisogno ancora delle partenze e di nuovi indizi per quel tesoro che andavi cercando, ora siediti, accendi un sigaro, guarda in alto. Nega le convenzioni, fai attenzione agli imperativi, agli aggettivi qualificativi, parla a te stesso e considera il valore dello sguardo, del silenzio. Mastica a lungo.

Foto: Gaia Bambi, Io480534_10200803987612617_1075457236_n

 

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Che chiameremo noi letteratura?

Che chiameremo noi letteratura?

Questa parola logora e avara, relegata a scaffali e merlati di castelli disabitati e boria d’adulti mai vissuti.

Che sarà di queste giovinezze irrequiete, del nostro pescare le stelle dai tram, degli schizzi bianchi delle nostre notti insonni? Dimmelo adesso che fare e perché rinunciare alla necessità del mio sentire informe eppure sano e santo e beato e folle?

Dimmelo ora perché non discendi le scale con grazia e ti scagli con pietra contro le sensibilità pronunciate di noi adolescenti degli anni novanta?

Dovremmo riaprire le edicole per vendervi i seni gonfi delle showgirl e chiuderci in casa ad ascoltare le canzoni melodiche dei vostri passati prossimi? Che pensi del beat, lo sai che Ramazzotti Eros usa l’elettronica?

E magari mi vuoi tirare in mezzo con l’ironia di Elio e le storie tese, coi termini desueti di certi dialetti. Parliamo di fica e facciamoci belli. Oppure scontriamoci e diciamo che sì, noi sì, ma gli altri, gli altri invece no. O utilizziamo ancora quel “Quelli che” tanto caro a Rai3.

Quando spegneranno le televisioni e ci chiameranno le piazze diremo che sì, che la vita più semplice è quella dell’amicizia corretta e del vicino elegante. Delle cene formali e dei contatti. Ti chiamerò su Skype per ascoltare la tua timidezza.

Di quando ti chiudi nel bagno e la pancia ti cala sul pene. Le tue mille seghe tra i costumi delle soubrette.

Che chiamerai tu letteratura? Il culo di Belen è di una bellezza immensa, lo vuoi dire questo? Ci rifaremo gli occhi sui Van Gogh soltanto per sentirci meglio.

Avvelenarci del buono e imparare la sensibilità dei palazzi.

La strada è un’altra cosa, chiede vino e bocca ripiene di desideri. Squarci insanguinati su braccia nude e sudore a cavallo del collo. Tutta questa bellezza sta nella debolezza dei nostri oggi, nei nostri desideri mai detti. Io guardo ancora il cielo e penso che bello. Che belle queste foto del mare, che bello il colore pastello. Ti chiamerei, non ti farai trovare. Ma sii contento. Tu sii contenta. Che io ti abbraccio, ti bacio. Che parlo sempre di me, ma non ho altri modi per arrivare a te.

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Almeno non oggi

Tutte queste notti insonni e il desiderio da spiaggia. Le aragoste e i granchi di Essaouira, le cavalcate tra le tue cosce nude e il sudore di giugno.

Ci giocavamo a dadi il turno per occupare il bagno e trovare un poco di quiete che qui è tutto un incontro e non c’è mai tempo per stare da soli. E così mi confondevi con la tua estetica e poi le tue parole rarefatte, il K2 dei tuoi passo e chiudo e l’imbecillità di certe mie voglie.

Ci chiudevamo in auto per prendere la strada e andare ai concerti. E in mezzo alle danze non sentirci soli. E piangere cantando, guardare il cielo e lasciare andare i ricordi.

E ci scrivevamo sulle mani che le cose non vanno spiegate, ma vissute, che la letteratura degli anni novanta voleva insegnarci la vita e quella del 2000 è rivolta allo spreco.

Vienimi a prendere quando esco di casa e apri la porta quando salgo le scale.

Immaginare domeniche in collina e odore di bosco, il cibo buono e il saluto dei vecchi. E paesi sempre più piccoli per sentirti straniero e case grandi per non desiderare orizzonti troppo lontani.

Delle tue camicie aperte e degli occhiali neri. La grazia dell’erranza dei padri e le famiglie disperse sui treni notte. Verranno a chiederci i documenti e avremo voglia a rispondere che siamo tutti uguali. Mentre tracciamo linee per tirare le somme e costruiamo tende per non farci sorprendere in nudità. Che ne dici di una Polaroid? E della mia barba lunga?

Dovremmo sederci a cavallo dei bimbi, farci cullare dallo stupore delle nascite dei figli degli amici, sorridere ai matrimoni e non avere paura dei domani, perché arriveranno senza bussare.

Le nostre notti non sono infinite e così i nostri giorni, ho disimparato a contare per questo.

E mentre ci tatuiamo di labbra le guance coi nostri saluti di benvenuto, ci ritroviamo a sera, lo specchio sul naso, ad ammirare le nostre imperfezioni e rifarci al canone del classico per la bellezza del mattino.

Più serie tv americane e meno manuali per vivere meglio. Quando ci chiederanno di sverginare i teatri entreremo in punta di piedi, come si fa in casa dei vecchi, poi urleremo le nostre domande che qui ci si perde in sordità.

Ti accuseranno di presunzione e faranno idoli della parola umiltà. Tu guarda lo specchio e poi chiedi di te dove riposa la tua stima, e fatti qualche domanda, non troppe. E non dormire sempre solo, non sempre, almeno non oggi.

Foto: Rebecca Norris

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Impariamo versi nuovi per richiamare le rondini

Aspettavamo i ritorni.

Lo sguardo appoggiato all’orizzonte della finestra, il fumo del caffè e i nostri vetri sporchi. Occhi ricoperti di spuma e maglietta stropicciata.

Sul tavolo i resti della cena di ieri e io che nel sugo stantio disegno col dito un volto umano per farmi compagnia e lecco i polpastrelli per raccogliere le briciole delle nostre parole dell’altro ieri, chiamiamolo così perché non porto l’orologio da anni e non so usare il calendario dello smartphone.

Fuori il mercato di Rue Montorgueil, e banchetti di frutta lucida e formaggi maturati in cantine, pesci dei sette mari e il concerto dell’apertura dei portafogli. La moda dei capelli raccolti e il rosso pastello dei sorrisi francesi.

Quando discutevamo della demolizione della proprietà privata volevo farti capire che se i nostri capelli si sfiorano le nostre teste si aprono e scappano i pensieri della quarta birra, dicono lasciamo al Piccolo Principe dare il nome alle cose, noi ci prendiamo le forme e apriamo i contorni per riempirli d’incontro. Quando ti dicevo che preferisco lo stare al fare mi riferivo proprio alle ore lunghe tra sigarette e vino, al movimento delle sedie e alle finestre aperte per soffiare via l’odore di chiuso dei nostri giorni donati all’economia.

Mi manca la mia barba incolta, le sopracciglia folte e le magliette larghe con le righe orizzontali e il petto un po’ nudo. Nel gergo dei marinai le nostre nuove scoperte e le scialuppe di salvataggio delle tue mani lunghe, i tuoi fianchi stretti.

Ho passato la notte su youtube.com a guardarmi l’intervista di Biagi a Pasolini e giornalisti francesi per l’ultimo dialogo registrato a casa di Paolo Borsellino. Le domande di un giovane Marco Travaglio e poi non sapevo nulla dell’attentato a Maurizio Costanzo. E ritrovarmi nel’utopia delle rivoluzioni di Carlo Pisacane, e poi Sensation di Rimbaud per ricordarmi dell’esistenza della natura, dei piedi nudi che annullano l’erba e quanto sarà che non dormo con una donna?

Prendere il bene e allontanare il male è impossibile. Si coglie il tutto intero. Non mi è mai piaciuto il cioccolato al latte dell’Uovo Kinder, ma vuoi mettere il fascino della sorpresa?

E la verità la trovo nell’uomo che agisce e fa e nasconde e poi mostra. La debolezza parlata e le richieste d’aiuto avvicinano i ventri.

Sono col contadino che prima della semina costruisce un recinto perché le bestie stiano lontane e il germoglio nasca al riparo.

Verrà il tempo dell’abbattimento del muro quando desidererò un eremo per le mie pisciate all’aria aperta al riparo degli sguardi del giudizio degli altri.

Verrà la stagione del sole, quando basterà una chitarra a far festa.

E poi torneranno quei temporali d’agosto che mischiano l’asfalto al cielo, che è nella confusione che salta fuori l’idea e non c’è confusione che non nasca dall’ordine.

E ora prendimi le labbra e mordimi che non c’è più tempo per filosofare, guardami le dita consumate, le bruciature e i tagli superficiali. Mostrami la sfrontatezza dei tuoi capezzoli e il volto che si deforma quando godi o piangi.

E’ tempo di togliere una coperta dal letto, farci leggeri per prepararci alle primavere, non abbiamo prati grandi ora, accontentiamoci delle terrazze e impariamo versi nuovo per richiamare le rondini. Risponderanno.

Foto: Mikhael Subotzky

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Perché siamo italiani e passiamo col rosso

Gli appartamenti sfitti che ovunque aspettano i nostri traslochi a metà. Non sappiamo ancora dove stare e scegliamo la strada mentre trascorriamo pomeriggi a cavallo del letto frustando i nostri pensieri nascosti per far prendere velocità a futuri improbabili. Naufraghiamo nell’immobilità e nella mancanza di spazio dei portafogli. Ci dicevano vedrai che prima o poi arriverà e noi ci chiedevamo che cosa. Che la pazienza ci taglia le guance e ci riduce le labbra come ai vecchi, la condizione passiva dei nostri giorni e realizzare che poi non dipende tutto da noi. Il cielo rosso di Milano e queste nuvole molto bianche. Sto attento ai semafori e ai segnali di stop, mi fermo soltanto per guardare avanti e non voltarmi. La parabola eterna di me nelle parole degli altri. Euridice che non mi chiede sguardi. E i cinesi che riparano il mio mac bianco, le attenzioni rivolte alle macchine. Quella volta che c’eravamo seduti su sgabelli troppo alti e lasciavamo andare le parole e così perdevamo i fili del discorso troppo impegnati a tenerci in equilibrio. Mentre parlano dell’ubriachezza nei teatri e trattano Bukowski come un tram stretto nei binari nella presunzione delle proiezioni della classe media. Noi Achab ossessionati dalla Moby Dick della realizzazione dei sé. Nei cassonetti zuppi si trovano ancora animali appena nati mentre la notte lasciamo le porte aperte soltanto per dimenticanza. E ora vorrei che piovesse forte, come quella notte a Parigi in bicicletta che ci fermano i vigili in Place Republique e ci fanno la multa perché siamo italiani e passiamo col rosso. Perché siamo italiani e passiamo col rosso. Le malattie di un paese intero in un semaforo e le nostre spalle cariche della forfora del comando dei vecchi. La visita del militare che non ho fatto. I letti sfatti dei campeggi invernali e quei baci che mi inventavo la notte. Per uscire dai freeze tocca puntare la sveglia, un lavoro normale o soltanto la sensibilità folle di un qualcuno che decide di lasciar perdere la normalità dei più e fidarsi. Per la fiducia non servono ragionamenti mi dicevo, ma non sapevo tradurlo in immagini.

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Carofiglio vs. Ostuni. La polemica fragile di via Merulana.

Via Merulana e la difficoltà del linguaggio. Le parole impronunciabili e quei vocabolari che destinavo al greco e al latino nella peggior età della mia esistenza. Il ginnasio e i chili superflui, le difficoltà nell’approccio con le ragazze e il il gusto amaro di certe amicizie superficiali.

Quando il nulla sapevo sulla potenza della parola detta e mi era inaccessibile il suono del vocabolo scritto. La sensibilità accelerata di certe sincerità confessate sulla pagina bianca e le storie inventate per lo sviluppo del pensiero critico.

Nell’anno 2012 di nostra piccola vita salgo sugli alberi bassi dei sampietrini per appuntarmi segni d’umanità, le ore vuote del non far nulla per elaborare un pensiero e tradurlo in parola. Quando siamo così soli che ci vestiamo di scuro per confonderci al cielo, il rosso lasciato ai semafori e il bianco per le soste agli attraversamenti pedonali.

Il ricordo delle avanguardie, il gruppo ’63 e poi le confraternite. Che per essere più e poi darci un nome abbiamo bisogno della politica o della squadra di calcio e affoghiamo in poche lettere le affermazioni lunghe dei manifesti. Soli, ora, che per il confronto rimandiamo al Che tempo che fa e alle politiche editoriali. Un’ospitata e una birra nell’umanità bignardiana e le interviste intime dei rotocalchi. La letterarietà rimandata alla rete, le riviste senza possibilità di stampa e lo sforzo non retribuito di pochi eroi. Quando il giornalismo piega il linguaggio a certa retorica politichese, ai salotti spolverati della tv del pomeriggio.

E per vedere una raccolta di scrittori, le lettere unite per un messaggio importante, tocca scorgere i vestiti sciapi e certe fotocopie di una critica acida. Nè mestieranti, né folli. Eredi voi di una certa tradizione che fa della piazza un megafono e della scrivania una bara. Le polo rosse e certe sciarpe a trequarti per la lotta inerme della parola. Tutti uniti per una libertà di espressione, quando siamo già morti, noi che nascondiamo il sentire tra le copertine rigide e temiamo il riflettore e la performatività del pubblico e per le dichiarazioni aspettiamo una cattedra. Voi dirmi ora a che serve scendere in piazza contro a un risarcimento da cinquantamila euro per mala parola? Vuoi dirmelo ora da che vogliamo liberarci? La libertà si fa parola quando ammettiamo che il critico Ostuni non giudica un uomo ma un suo manufatto. Vuoi dirmelo ora chi denuncerebbe qualcuno per un piatto di pastasciutta, un vaso, un tavolo venuto male e senza stile? Quale giustizia si prenderebbe la briga di un tale pronunciamento? Sciocchezze.

E per la libertà ricerco altre battaglie. Di Carofiglio ve n’è più d’uno e non conosco uomo. Vogliamo mettere certe polemiche d’una volta, quando Fortini rispondeva a Pasolini in poesia? Vuoi mettere il costruire? Dov’è il dialogo quando scendi in piazza e ti fai clown e cerchi ancora l’affermazione di te nella protesta. Dove sono le mani sporche e il sudore? Torniamo alle strade, torniamo alle finestre, facciamoci urlo e richiamo, parola e canto. Ma senza proteste, con proposte. Perché il libro rimane sugli scaffali delle librerie? Abbiamo bisogno ancora di attori che danno voce ai nostri tormenti? Della pubblicità di certe contese fasulle? Basta che se ne parli.

Io dico no. Siamo così soli, lo ripeto, e quel che ci rimane sono soltanto gli ideali di lotta degli anni settanta. Morti stecchiti. Anche le osterie sono chiuse. Ci si ritrova nei pub e se ripenso ai rituali lenti di certe pubbliche letture mi viene sonno. Dov’è la spada, dov’è il sangue, dove la blusa gialla dei tempi di Majakovskij e le tovaglie calpestate da un giovane Rimbaud?

Non c’è ridicolo nella proposta di sé. Ma non invochiamo libertà che già esistono, rincorriamo ali di cavallette, invisibili e schive, ovunque disperse.

Miei scrittori cari, affezionati, amici. Torniamo al confronto e lasciamo i rituali scomodi di certe piazze alle adolescenze.

Con affetto.

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Il volo delle farfalle

Ti sei mai chiesta il perché delle mie insistenze? C’era cresciuto il muschio sulla pelle e le nostre radure s’erano perse tra il lavori della nuova metropolitana con tutti questi clacson che ostacolano le tue parole rare. Che prendi treni e aerei e scambi i biglietti come se fossero jolly per la nuova partita che andremo a giocare, per questo grigio che ci ricama sulla testa piccole piogge per spegnere gli incendi che ci infiammano sempre meno. Quand’ero fuoco mi si è avvicinato soltanto un nano, l’invadenza dei suoi modi così simili ai miei, seduto sul bordo delle mie labbra a cantarmi gli amori della piccola città e tutti i difetti nella fabbricazione del tempo libero. Mi sono ritrovato supino, le catene del pensiero dominante che mi trascinavano al centro della terra, lo sguardo al cielo ad aspettare che qualcosa venga giù, c’eravamo detti che non importa se sole, pioggia, nuvole o grandine, c’eravamo detti che l’importante è un segno, come le pieghe tra le tue labbra, per riprenderci in mano lo spazio dei nostri sguardi e quei pensieri piccoli che ci vergogniamo di confidarci. Sono arrivate le farfalle mi hai detto, ci pensi mai a quanto tempo passiamo senza sentirne la mancanza? E ti ho disegnato un’ala sulla schiena per ricordarti le tue adolescenze di quando sei stanca e socchiudi gli occhi, di quando ricordi e non ti fai quelle menate da adulta che prendi tutti i tuoi difetti allo specchio e non ti concedi il volo dell’imprevisto. Che tanto lo sai, non ci conosceremo mai fino in fondo che ci hanno dato torce per guardarci dentro, ma sono deboli e illuminano a scatti. E non c’è bisogno che te lo spieghi perché ormai lo sai, siamo Guernica per gli occhi stolti degli adolescenti, ghirigori e contorni e facce da toro e bombe inesplose, e dentro i tagli e le fontane dei desideri. Berremo acqua dalle nostre guance per dirci che sono i contatti che sanno dissetarci.

Foto: © Alessandra Tecla Gerevini

www.alessandragerevini.com

 

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