Oggi uno specchio tra le vetrine, somiglio un sacco a papà. I modi e gli sguardi, questa nostra debolezza che scorgi tra i tagli delle mani.
Ai tuoi occhi malati e al fascino dei tuoi occhiali neri. Alle lenzuola consumate insieme e alle mutande che ci siamo sempre scambiati. Alle nostre camere separate da un corridoio. Alla tua scrivania ordinata e alla tua scrittura minuta. Alle lettere che ci scriviamo a Natale e agli sguardi d’intesa quando fuori tutto sembra esplodere.
Che ci mandavamo affanculo spesso e tu te la prendevi di molto, che sei un po’ permaloso e così buono che non ti si può nemmeno mangiare. Compiere gli anni in maggio è foglie verdi e canto del gallo per i tuoi ritorni a casa.
Abbiamo sulle spalle tutta la coscienza che ci siamo cuciti addosso, e qualche buco di sigaretta, gli occhi chiusi per cercarci una lampada dentro e far luce sul cuore. L’orologio appeso alla cintura per ricordarci che il tempo serve a vestirci a festa ogni giorno, apparecchiare la tavola e mangiare con gusto.
Dei nostri viaggi in Marocco e dei mille soli che disegni negli occhi. Di quando sei stanco e ti abbandoni al divano e dei discorsi nuovi con mamma e papà. La mia meraviglia per la maturazione in età adulta, di quando pensavo vuoi vedere che non cambi più e la marcia nuova dei nostri vecchi.
La quantità interminabile del Barolo bevuto a Natale e tu che mi tieni sveglio, la prima corsia in autostrada per il concerto di Vinicio Capossela e quei ritorni dove regna in silenzio sulla A1, Claudio va a finire che dorme e le luci della strada accese sui cazzi nostri. La lontananza fa chiari i contorni e tira fuori tutte le frasi che non riuscivamo a dirci. Così un ti voglio bene non è mai banale e torneremo un giorno in quella casa a tirare al canestrino a ventosa appeso al soffitto di camera mia, porca miseria quanto eri alto, così elegante, quasi irraggiungibile.
Foto: Nicoletta Branco