Pensavo a quanti se n’è mangiati la vita e alle autobiografie dei cantanti. A quelle parole che ci hanno insegnato a portare a terra, irraggiungibili nella prosa giudicante, così vicine accompagnate dalla chitarra; e allora bellezza e gioia e gratitudine come un petto nudo sotto a un vestito di scena. Le paure sconfitte e ritrovarsi a urlare strofe incomprensibili agitando i capelli nell’aria, col sudore a colorarci le magliette, la birra e quei prati immensi sempre ubriachi.
Non me ne vogliate se sulle prime sono così schivo, se mi servo del vino per raggiungere le profondità e dedico troppa cura agli sguardi. Non preoccupatevi dell’invadenza; pensiamo ad essere lontani da ora, lontani da qui e lasciamo il giudizio ai critici che tutto interpretano tranne se stessi. Il secondo me o il paradigma saranno davvero necessari?
Sai, gli alberi non parlano e la frutta si lascia mangiare. Nessun bambino ti domanda che lavoro fai, magari ti chiede soltanto se sei innamorato.
La paura della depressione consumata in abbracci al cuscino, frigoriferi che si aprono e si chiudono e tutta quell’attenzione alle morti famose. L’immortalità delle canzoni e le parole che volano quando smettono di essere nostre. Se firmassi i miei pezzi con un nome inglese finiresti per tatuarteli sulle braccia o magari, e sarebbe fantastico, sul ventre e giù lungo i tuoi fianchi stretti, me l’hai detto tu. Vorrei fotografarti appena sveglia e senza trucco, chiamarti prima di dormire per parlarti dei pesci palla cresciuti in cattività e delle periferie della Thailandia. Girare il mondo è ridurre le distanze in coscienza.
Quando ti parlavo dei miei sogni di factory erano tutte velleità fuori dal tempo, come guardare le luci del Natale e rimpiangere le lucciole. E tra un caffè e una sigaretta, nei documentari che giro sulla carta alle tre del pomeriggio penso ai tempi in cui accendevo incensi per casa e lasciavo una candela sulla scrivania per riconciliarmi con l’altissimo e sentirne la presenza. Dei pensieri osceni davanti alle vetrine dei centri commerciali e dell’insopportabile accento cinese in fila alla posta. Le imperfezioni della mia pelle e poi le smagliature: tutta colpa di quest’adolescenza mai conclusa, delle spinte primordiali del mio ombelico e delle tue dichiarazioni di guerra alla mia indipendenza. Indosso il cappello per non disperdere i pensieri al vento, per dirti con Asia Argento che non ho freni, lo sai, io piscio verità e va a finire che ti spaventi o mi mordi la lingua. Non siamo volpi noi, mai così furbi da rifugiarci in letargo.
Foto: dalla rete.