Indossavamo pantaloni così larghi per sentirci inadatti e sui campetti la pallacanestro della provincia, il primo amore e i tiri da tre punti.
Quando ancora non arrivavi al ferro e ti facevi prendere sulle spalle per toccare la retina, che immaginavi di schiacciare come quel Michael Jordan che portavi sulle scarpe.
Le canotte di Gary Payton, la barba di Patrick Ewing e le spalle enormi di Charles Barkley. E magra come Reggie Miller abbandonavi gli amori adolescenziali lanciando sassi a distanza nei laghi dei tuoi immaginari. E così trascuravi i piaceri mettendo a tavola i doveri.
La tua femminilità lontana dalle scarpe e i tuoi capelli lunghissimi per nasconderti. Poi la prima pastasciutta al ritorno dalla scuola media, l’acqua che bolle e la rilassatezza del taglio delle cipolle e guardare il sugo addensarsi.
Tra i cibi pronti le tue dimenticanze e i mille vorrei che ti tatuavi sulle spalle. Così hai smesso di crescere quando sullo specchio ci hai trovato il rossetto di un futuro già deciso, infilzato nelle scrivanie di palazzi in cemento.
La ribellione dei tuoi capelli e i tagli sulle braccia: l’adolescenza delle ragazze bellissime.
Troveremo salvezza nelle nostre disperazioni e motori accesi nelle sofferenze.
Qui tutto si tramuta in partenza e non c’è approdo se non in coscienza.
Quando mi chiedi perché mi avvicino per parlarti dò la colpa alla sensibilità delle albe di giugno che ci svegliano con la discrezione della pastorale di Scarlatti.
E mentre muovi il dito indice e dipingi di luce la carta io che rifletto sulla tecnica e tu che mi sorpassi in autostrada, alzi il dito medio e poi ti metti a ridere. E così ti rincorro, tra le boccacce e i suoni di clacson accenno mosse da rapper mentre tu suoni chitarre immaginarie e tiri fuori la lingua. E alla fine della corsa nessun segno sulla strada, né labbra consumate dal freddo. Mi avvicini al tuo collo, dici ho cambiato profumo e forse anche noi dovremmo cambiare aria.
Foto: Bruce Gilden