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Isole bellissime nei cuori delle città

Le vesti bianche benedicono il mare e le balene annunciano messaggi in codice; i fischi lunghissimi delle navi in partenza e tutti in coperta in camere d’aria condizionata.

Faremo il giro della Francia in tour con tappa a Nizza per guardare gli scogli.

Quando mi accorgo di tutte le pulsioni che ci circondano, le luci del Naviglio si chetano soltanto al mattino nella prima borsa in pelle dei professionisti delle vendite.

Mi coglie lo stupore soltanto sulla Serravalle, e non parliamo di saldi, ma delle luci al neon delle centrali idroelettriche.

Vorrei chiudere le porte al sole in questo giorni di luglio e guardarmi dentro con quelle torce da speleologo che vendono al Decathlon.

I resti della vita attiva e i rituali di iniziazione davanti al crocifisso. La nostalgia di quei pomeriggi con il ghiacciolo in mano e la maglietta sporca di terra, rincorrere il pallone a mille all’ora e gonfiare la rete guardando per terra per paura d’esaltarmi troppo, cercare refrigerio nell’ultima panca, le navate laterali delle chiese di provincia. E confessare il peccato del diventare grandi soffiando sulle candele, spegnere i rimasugli dei sensi di colpa ed entrare nella vita vera.

E poi mi dici che sono una bussola montata male, che la lancetta rossa è sempre verso il centro e quel centro sono io. L’io come misura del tutto e il tutto come amaca per le notti d’estate, bottiglie di birra lanciate nel prato e zanzare in questua del mio sangue caldo.

Mentre misuriamo i nostri giorni in successi, tu mi ricordi che i silenzi son così pieni che forse a strizzarli potremmo conservarli in vetro e usarli nel traffico del centro.

Di tutte le lettere che ti ho scritto e dell’infinito spazio disponibile nelle caselle di posta elettronica.

E ora indosso una maglietta a righe su bianco, quelle su nero son sulla copertina di un libro.

La disumanità del marketing per me che ho nostalgia della libreria di via Alfredo Albertini, quando dietro al vetro c’erano gli struzzi e leggevamo il Manifesto e poi al sabato offrivamo il caffè con la torta appena sfornata. E ci venivano gli anarchici e magari gli ex brigatisti, e si mangiava e si brindava e si parlava di storie, che le contingenze politiche erano discorsi da camere bianche e vuote, e se ci chiedevano di Bruno Vespa noi si rispondeva che certe cose qui non esistono.

Che esistono ancora isole bellissime nei cuori di pietra delle città.

Foto: Berenice Abbott

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Le occupazioni studentesche delle librerie

Li vedi dispersi e decisi. Canottiere larghe e sciarpe, e cartelle datate, scritte coi pennarelli neri e spray rossi. Occhi lucidi, appassionati e puri. Lunghi capelli neri. E bionde rasate sui lati. Jeans strappati e pantaloni eleganti a risvolto. Negli zaini libri dalle copertine ingiallite e la critica ai compromessi storici.

Tiravamo sera con l’accendino a consumare i polpastrelli, le dita gialle e smorfie eleganti per soffiare via fumo denso e fare chiarezza nelle nostre notti. Ci dicevamo del senso di essere al mondo, vedevamo tramontare i nostri vecchi e per le nostre idee facevamo ricorso alle date incise sui cartelli intravisti nelle foto in bianco e nero. La barba incolta di mio padre e il pugno alzato a rivendicare il diritto di aprire la bocca e svelare il rosso della lingua.

C’è l’io in formazione, la testuggine organizzata delle battaglie perse, quei megafoni e lo stile vecchio dell’arringare la folla. I motivi va a finire che son sempre gli stessi.

Non ci vedo del bello nelle occupazioni studentesche se non il lucidare le proprie domande e cercare risposte nel collettivo, invocare una giustizia che non si conosce. Il bene comune è un campo da calcio per trascorrere i pomeriggi, la fontanella per bere e i contrasti duri. Le cadute a sangue sulle ginocchia e l’esercizio dei calci piazzati. E sentimenti contraddittori; vorrei dirci di non stancarci, vorrei dirci che è bello credere in qualcosa, un qualcuno, almeno in noi stessi, negli ideali di altri che la nostra breve esperienza ancora non coglie.

Mi piacerebbe ci fossero più case aperte e meno assemblee. L’abuso dei beni comuni. Una libreria è una libreria, e ne sono rimaste poche. Non facciamone slogan, non mettiamoci i libri di un’epoca fa e odore stanco di pantaloni a zampa. Per sconfiggere i pachidermi bisogna farsi furbi e sfidarli su un campo che non è il loro. Portiamoli al mare, facciamoci orche e impariamo l’agilità tra le correnti. Meravigliamoci del giallo fosforescente del plancton e non diamo tutto per due casse semidistrutte, la parata dell’orgoglio dei diversi e quattro stracci senza in tasca neanche più un quotidiano.

Poi quelle divise, il casco a bloccare il pensiero, a cercare il potere nell’ordine, il comando del comandato, la servitù accumula rabbia. Noi figlie e fratelli delle stesse madri. La spesa al mercato e mettiti la canottiera che prendi freddo. Noi seduti agli stessi banchi di scuola ora ci facciamo cariche opposte e poi ci lamentiamo quando siamo i primi a offendere e così fieri di mostrare il taglio sul viso.

Maledetta la comunicazione e maledetta questa spettacolarizzazione dei nostri vorrei.

Che stiamo male è scritto nei nostri rapporti d’amore, nel non lasciarsi stare delle nostre vene e negli stupefacenti che inseguiamo la notte. Diplomati in canti e in letture, chiamiamo compagni coloro che scegliamo fratelli. Quando poi arrivi a casa ti togli le scarpe e cammini piano per non far rumore, poi tiri le coperte fin sotto al naso, respiri forte, guardi il soffitti e dici: sono un combattente, un guerriero. E provi a disegnare un’ideale sulla parete, e va a finire che non ci riesci, che un po’ copi e un po’ ti chiedi se vale la pena stare ancora sull’altalena, ma poi ti spingono e senti l’ebrezza del volo e chiudi gli occhi perché hai paura e non puoi sostenere la vista dall’alto. Così cambi discorso e ti ritrovi bagnato, sudato, e aneli mappamondi di carne per distendere le tue mani stanche e bocche accoglienti per il calore che cerchi e che non trovi più.

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Sutura de labios

Quello che chiamate silenzio silenzio non è. Nei buchi dei piercing il punto a croce tra le labbra gonfie, il filo teso che ci accorcia il respiro: i nostri riti vodoo per le lontananze, che siamo sangue e respiro. Le bambole di pezza non hanno le labbra, lo sai? Non pensano troppo e non cambiano idea: lo spazio ideale delle carezze. Noi non sporchiamo parole e ruminiamo di notte, vacche incastrate tra le pieghe dei materassi sfatti coi cuscini indispensabili per gli abbracci, per sentirci due, la nostra solitudine intrecciata ai pixel. Se spegnessimo gli interruttori dormiremmo da un po’, chissà poi da dove viene tutta questa elettricità che ci fa rivoltare come i cani contenti, tutta questa polvere che ci si accumula addosso che dovremmo sbagliare, farci prendere a schiaffi per ripulirci e starnutiremo, certo, lanceremo al mondo le nostre tossine per il repulisti delle coscienze e tutti i viaggi a vuoto, le nostre californie e il rock and roll, la birra a fiumi per i nostri scivoloni. Per le notti sull’attenti del nostro passero solitario e poi la mattina a cercarsi tra le mutande e i calzini e dire addio a non si sa chi, la conoscenza di una notte molesta, il martello penumatico dei nostri pensieri a spaccare la notte venendo di fuori per non contagiarti. E dietro al letto, sul muro, gli schizzi dei miei fallimenti. Le camminate verso casa guardando per terra e le cicche di sigaretta per quella volta che ne ho raccolta una, mi sono guardato intorno per essere visto e poi nel cestino ed il mio inchino per questo mondo che è più pulito. Alle piccole attenzioni è la dedica dell’ultimo libro di Fabio Volo. Alle Indie delle grandi librerie che sono parchi giochi per i vecchi in salute ed ai racconti ardimentosi sull’adolescenza che non tirano più. Metto fine ai silenzi quando ho qualcosa da dire, la scrittura è un buon riparo, una vela salda, ma c’è da fare esperienza, conoscere il vento, soffocare in tempesta, e finalmente scrivere del Central Park, la prima pagina del Baricco. Ho gli orizzonti stretti e non ho tatuaggi, verrà un momento che mi scriveranno sulla pelle, mi marchieranno a fuoco e là nel pascolo, come vacca al macello, come erba per i palati stanchi. E intanto corro, e scappo e non c’è recinto, non c’è galera. No al recinto e questo è tutto, con la Ryan Air e i sogni di libertà a basso costo. Ai voli mancati, alla prima pagina che non ho ancora scritto.

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