Il tuo cane in bianco e nero e la meraviglia della luce fioca. Ti sorprendevo a leggere Proust, la fuggitiva scienza di questi incontri irrisolti. Ci promettevamo treni e biglietti d’aereo. Gli indovinelli sulle nostre preferenze e quella meraviglia per la sindrome di Stendhal che riflettevamo in immagini. E mi dicevi che siamo scemi o sciocchi quanto basta e sono sempre parole che finiscono in i, così magre e strette che non hanno bisogno di considerazioni. Per illustrarti la mappa dei miei tatuaggi ho preso un foglio bianco, ci hai disegnato una macchina fotografica, hai detto è questo il peso che porto sull’avambraccio. E mentre immagino di guardare alla tua finestra qui tutto si fa nebbia e cominci a chiederti il perché di queste emozioni così leggere. Ci sono notti che vorrei infinite e giorni in cui vietare il lavoro su tutta la terra; chini sulla coppa del vino, le mani incrociate, a sussurrare quelle parole che scorrono semplici e si interrompono a tratti. Dici ti comprerai una chiavetta per usare internet e io che non leggo un libro da un mese. Diventeremo più ignoranti, ma certo meno cinici. Di quando su un camion c’era scritto Paperino e ti è venuto da ridere. Delle code al casello e del respiro che trattieni per lavarti il viso. Pensare al mondo come al luogo migliore per restare da soli e poi ricredersi in un pomeriggio di maggio. Tra le tende non scorgo fili della corrente e non cinghiali popolano le mie notti. Vorrei scriverti con leggerezza, ma ho le palpebre pesanti e i polpastrelli consumati. Spero ti sia addormentata con la testa appoggiata sul tavolo e se porti gli occhiali vorrei venire a toglierteli, leggero nell’aria il profumo dei tuoi capelli e le tue scarpe spaiate sul pavimento. Sono i chilometri che ci separano a dare il senso alle attese, ed ora togliamoci questi vestiti, gettiamoci al lago senza paura dei gorghi. E quando fisseremo il sole lo faremo insieme, un po’ ciechi e un poco liberi di fare la scelta peggiore, sporcarci d’incontro.
Foto: William Harper