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Intima come Homesick dei Kings of Convenience

Intima come Homesick dei Kings of Convenience stendevi le tue mutandine appena lavate. Coi piedi nudi e l’odore di ammorbidente, i tuoi capelli appena svegli e il caffè sul fuoco che non saliva mai. Ti stringevo da dietro con la leggerezza delle foglie che cadono, appoggiavi la testa al mio petto e sorridevi, dicevi mi esploderà il cuore prima o poi. E con l’accento che mischia il milanese al toscano improvvisavo l’aria di Papageno riletta in chiave pop, mi dicevi che oggi tutti ascoltano i Velvet Underground e dovremmo farlo anche noi.

Guardando dalla finestra il passeggio dei cani ti domandavo dei bar sul naviglio e dei fiocchi incastrati sulle testa della new generation con la risposta pronta e così tanta consapevolezza che se l’avessi io avrei già aperto una ditta di trasporti interstellari e vivrei viziato, forse vizioso, lontano da questa pioggia bianca e dai baccanali del venerdì sera.

Non sapevamo che fare e mischiavamo gli amari, uno lo offrivo io, quell’altro tu, non lo sopporto più l’alcool così zuccherato, ma qui annacquano i cocktail e di vini decenti manco a parlarne. Se ordini un porto ti danno quello del supermercato, ammesso che si siano ricordati di comprarlo. Siamo superficiali anche quando beviamo, mi dicevi, chisseneimporta, ti rispondevo io. E provavo a baciarti, dicevi: ricordati che siamo amici. Tutti gli amici si baciano, dicevo io. Sulle guance, continuavi tu. Io mi mettevo a ridere, tu mi chiedevi scusa, sei così ansiosa che hai paura di ogni confidenza. Così mi raccontavi che sdraiata sul letto in posa da Olympia avevi stretto forte gli occhi e desiderato un uomo che ti amasse con gentilezza e modi pacati, che ti attraversasse l’anima a furia di sguardi; forse si avvera, lo leggi Paolo Fox? Così ti smarcavi dal Brezsny internazionale, per essere interessanti bisogna concedersi qualche leggerezza.

Ci salutavamo con gli abbracci lunghi, te ne tornavi a casa in auto, io cercavo la novanta che non arriva mai e mi concedevo il lusso di un sigaro per affrontare le attese. Che arrivo sempre in anticipo è un particolare senza doppi sensi, nessuna solitudine immeritata, ma capacità di guardarmi intorno e pensieri fragili interrotti dagli arrivi degli altri. Prima degli smartphone e di whatsapp, prima di immaginare i suoi baci lunghi, la delizia delle sue spalle nude, poi ritrovarsi a casa a leggere Jonathan Safran Foer.

Foto: Dent May, dalla rete.

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Mai come i fossili

Dormire in piedi lasciamolo ai cavalli. I tuoi pozzi di petrolio al posto degli occhi e i complimenti inespressi dei passanti. Adesso che l’ora è cambiata siamo tutti illegali, mi dici, e mentre camminiamo ti chiedo il perché la gente si raduna fuori dai locali soltanto per bere una birra, rispondi che la curiosità ci guida e lontano dai tavoli e appoggiati alle auto riusciamo a osservarci meglio.

Le file al bagno per conoscenze superficiali e attraversare la città di notte perché non hai voglia di pagare un tassista. Finisce che quando balliamo non ci prendiamo mai sul serio e finiamo per annoiarci, così scavalchiamo i ponti del Naviglio tra file di neri e odori lisergici, gradini a due a due e volti stanchi: le urla degli ubriachi, le risa sguaiate delle compagnie e le camminate imperfette delle liceali in tacco dodici. Non serve domandare un senso alla notte, troviamo risposte nel sogno o al mattino.

Mi piace appoggiare la tazza del caffè sulla tavola e guardare i colori, sentire il profumo, scaldare le dita al vapore e sorseggiare con lentezza. Chi si lamenta di Instagram e chi invece crede che sia un’occasione per rieducarci all’estetica. Tutto questo fiorire di designer e architetti: disegnare la moda o lo spazio è ritrovare il gusto dell’osservazione. A nulla servono i confronti, ma troviamo il coraggio di dire che esiste una cura che va al di là dell’a tu per tu, che abitare nel bello ci rende più belli, vestirsi con gusto e distinguere i sapori, fare dello spazio un motore esigente, non un riparo. Mi guardi, mi baci, mi dici che noia, mangiamo un gelato, un frappè, aspettiamo un tornado. E metto ordine tra le righe del tuo pigiama e ti mordo le orecchie, mi domandi perché non ho tatuaggi, io alzo le spalle, ti dico non so è difficile scegliere.

Che hai voglia di fare? Restiamo a letto, ti dico. Finiremo come i fossili, mi dici tu, ci troveranno qui, immobili e perfetti. Mettiti in posa, ti dico io, non serve a nulla, rispondi tu. Sei così magra che potrei contarti le costole; fallo, mi dici, e finisco per perdere il conto, teniamo le bocche aperte senza dirci nulla. Le tue dita dei piedi così separate non le ho viste mai, pochi secondi e poi ti trasformi in koala. Penso che siamo imperfetti, non te lo dico, non serve a niente. Ti accarezzo la schiena e finiamo per scioglierci, le bocche chiuse, tu che guardi da un lato, io che guardo dall’altro. Esistono minuti dove non sei futuro e nemmeno passato, così presenti che non serve pensare. Quegli attimi dopo il sublime che non puoi descrivere, impossibile è il dire. Rimane l’odore, il lenzuolo, il calore. Rimane un’assenza di contatto che è vicinanza, non la sai spiegare, nemmeno io, finché troviamo il coraggio di uno sguardo e mi lancio in boccacce solo per farti ridere.

Foto: Nan Goldin.

Greer and Robert on the bed, NYC 1982 by Nan Goldin born 1953

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L’addio di Alessandro Del Piero

Per lavarmi via lo snobismo e la necessità del prefabbricato mi sono messo in strada, afa d’asfalto e rondini in parata, la primavera calda del mese di maggio sulle piattaforme mobili del Naviglio. I discorsi retorici sugli amici degli altri e i nostri che fai che sprofondavano in acqua in suicidio col peso dei sassi.

E non chiedermi mai del futuro che la domanda genera perplessità ti ho detto io e possiamo darci tutte le risposte del mondo. Che la conoscenza è nello stare e interrogarsi a lungo genera immobilità. Non puoi fidarti di me se non mi vedi all’opera. Tre soldi in tasca e piccole mani per le case basse e quella volta che confidavo nell’inutilità dei grattacieli e poi sono stato costretto a ricredermi.

Ti ho chiamato e non hai risposto, mi rimbalzano addosso i tu tu del telefono e domande sulle mie responsabilità, non c’è un generico nell’uno a uno. Col campionato di calcio che perde gli ultimi petali per lasciare spazio al verde, le lacrime di malinconia per l’addio di Alessandro Del Piero ed i ricordi di bimbo. Il goal alla Fiorentina con la volee di esterno sul secondo palo nel tempo in cui nascondevo sotto allo zerbino le chiavi di casa e i sogni dell’astronauta e del calciatore. I giochi tra le mamme degli altri e poi la sera a scioglierci il fango dalle ginocchia a dirci che siamo sporchi e sudati perché vissuti. Ed ora è diverso, il mio cane che si avvicina, zampa sul tavolo per dirmi giochiamo e il mio no, che sono troppo stanco per lanciare una palla lontano.

E ritrovarsi al ristorante con le discussioni interrotte per l’arrivo di un piatto e quei cartelli vintage che recitano le proibizioni al giuoco del football. Levarsi la forfora dalle spalle e strappare i peli superflui dei ragionamenti contorti, sarà un pallone a salvarci e ci prenderemo gioco dei no che ci hanno cucito sulle magliette, festeggeremo il goal cercato da tempo e non avremo paura delle ammonizioni, via la maglietta e poi sulla strada correre correre e festeggiare, che siamo tornati al gioco e non abbiamo vergogna degli sguardi degli altri, ci prenderanno per folli e quando ci chiederanno il perché del nostro fare risponderemo in risata che non abbiamo tempo per la ferma di una risposta.

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Ti ho sognata ti ho detto e tu non ci hai creduto

Eravamo al Sacre Coeur e imbarcavamo acqua dappertutto. Non avevamo remi e la respirazione bocca a bocca poi non serve che le coste libiche non ci hanno insegnato niente che detestavi la vita dicevi che quando affoghi poi vuoi risalire. Dovevamo aspettare la piena per accorgerci degli argini stretti dei nostri corpi e cambieremo batterie agli orologi per allungare il tempo. Ti ho sognata ti ho detto e tu non ci hai creduto. Mi portavo addosso i monsoni della festa al paese l’odore di fritto i vestiti e la farina tra i capelli tra gli occhi i segni delle tue mancanze la congiuntivite è soltanto un’infiammazione. Per le tue analogiche e gli obiettivi militari tutti i nostri reportage sulla vita le performance teatrali sulle piazze e i teli trasparenti per non lasciare tracce. Dovremmo sporcare le strade che se tutto è pulito niente è successo. E ti cantavo il dialetto del nord e tu sbuffavi le tue maniere alla parigina immaginavo mentre un regista horror parlava di Rohmer della presunzione elitaria dei cahiers du cinema. E poi mi ricordo di averti scritto dappertutto come sotto ai vulcani con la polvere da sparo tra i capelli prenderemo fuoco a furia d’esporci. E vorrei essere tra i vicoli di Genova le lavandaie sul Naviglio e su quel balcone di Brera per le mie serenate il ritmo tantrico delle sillabe le scie dei tram. E chissà poi tu dove sei se hai preso il largo se ti sei imbarcata sulla Nina per scoprire un’altra America. Che poi una volta non basta è solo una goccia nell’acqua che se ti specchi l’immagine poi comincia a tremare. E allora aspetto, aspetto ancora che le candele ci sono e la notte rimane fuori e la facciamo bussare.

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