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Nella psicotropa Taipei di Tao Lin

 

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Non so se chiamarla audacia, coraggio, scelta raffinata, attenzione alla contemporaneità o chissà che altro, ma è un fatto che Isbn Edizioni ci sa fare e così nell’ultimo giovedì di agosto porta nelle librerie italiane Taipei di Tao Lin nella traduzione di Andrea Scarabelli. Son 22 euro di libro, mica poco per 265 pagine, ma son denari che si spendono volentieri perché la copertina è azzeccata, la qualità della carta è niente male e son passati tre anni da quando un libro dell’autore americano è uscito in edizione italiana. Era il 2011 e Il Saggiatore pubblicava Richard Yates, la storia di un amore virtuale nato sulla chat di Gmail, problemi alimentari e tanta solitudine. Bastava leggere poche pagine per rendersi conto che tra le righe ci fosse qualcosa di vivo e di nuovo a livello di stile, di ritmo, di punto di vista. Ricordo che era il 2011 e a un colloquio per lavorare in casa editrice mi chiesero: “Qual è uno scrittore che ti piacerebbe incontrare?” Risposi “Tao Lin.” Il direttore editoriale fece finta di non capire, si segnò quel nome su un foglietto, mi disse: “Ci risentiamo presto.” Sono passati più di due anni e non si è ancora fatto sentire.

Ora, il personaggio Tao Lin è un concentrato di narcisismo e boria, è vero, ma uno scrittore bulimico che si è fatto conoscere attraverso il self publishing porta con sé tutta quella invadenza e la faccia tosta che l’operazione chiede. Quanto al narcisismo, non fa a pugni col mondo letterario, anzi. Dunque prendiamo lo scrittore e freghiamocene del resto, perché di certo non ci capiterà presto di andarci a cena.

Taipei è considerato da molti il romanzo col quale Tao Lin è riuscito a fare il salto di qualità e a ricevere finalmente le attenzioni di tutto il mondo della letteratura, prova è anche il fatto che uno scrittore come Bret Easton Ellis – citato a più riprese da Tao Lin nei suoi romanzi – si sbilancia nel dire: “Con Taipei, Tao Lin è diventato lo scrittore più interessante e raffinato della sua generazione”.

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Il ragazzo ha 31 anni e questo è il suo terzo romanzo anche se assomiglia molto più a un’opera prima: è semi-autobiografico, è un romanzo di formazione e racconta la vita di un giovane che attraverso l’amore scopre che la sua vita è molto di più di quello che si aspettava che fosse e arriva a essere “riconoscente per il fatto di essere vivo”. Le case editrici italiane hanno i cassetti pieni di storie così. Cosa fa la differenza qui? Che la storia sia inzuppata di droga all’inverosimile, così intrisa di psilocibina, eroina, cocaina, Lsd, Mdma e chipiùnehapiùnemetta che quasi ti viene a noia? No. Che il protagonista sia uno scrittore? Che i personaggi passino il loro tempo tra reading, cuscini, e metropolitane? Che si parli volentieri di sesso orale? No, questi sono elementi comuni a molta fiction, quello che distingue Tao Lin è lo stile. La storia non è infatti granché originale: sono le scorribande di uno scrittore e della sua ragazza tra social network, passatempi fatti di droghe, festini e filmati amatoriali registrati col MacBook o l’Iphone; un matrimonio a Las Vegas, genitori figli della morale sociale, una crisi di coppia e poi ancora droghe fino alla risoluzione finale.

La lingua invece è contemporanea, non sperimentale, ma prodotto dell’uso quotidiano del web. Tra le pagine di Taipei si dice addio alle lunghe descrizioni dei luoghi o dei personaggi, ci si concentra sui gesti piccoli, sulle emozioni momentanee, sui vorrei e sulla follia di certi ragionamenti. Quello che conta è quello che succede dentro i personaggi o poco fuori da loro, fin dove la percezione e la proiezione – consapevoli o indotte – arrivano, lo sfondo è poco importante e monotono: palazzi, grattacieli con insegne che si accendono e spengono al ritmo di immagini gif.

L’adolescenza qui trattata, una questione che riguarda ormai tanto i quindicenni quanto i quaranta- cinquantenni, ripropone i temi classici della solitudine, della confusione, della non accettazione del sé, del bisogno di amore o più che altro di qualcuno che non giudichi e sia disposto ad ascoltare, ma è trattata con la consapevolezza del ferito, dello scrittore solo e col sentire grande, che tutto comprende e tutto riesce a restituire al suo lettore, provando le emozioni che descrive, facendo diventare il suo male il male di tutti, un martire della sua sensibilità e del bisogno di dire. Ecco il capolavoro di Tao Lin, scrivere come qualsiasi adolescente vorrebbe scrivere, esprimersi come qualsiasi adolescente vorrebbe esprimersi. Il lettore si sente rappresentato e capito e, camminando a notte per le strade di qualsiasi città, sorprendendosi a guardare le finestre illuminate o i marciapiedi fuori dai McDonald avrà la sensazione che sì, qualcuno a lui vicino stia parlando dell’esistenza, senza farci molto caso e senza le parole pesanti della filosofia, ma alla maniera di Tao Lin, colui che con grazia, ma senza pudore sa farci partecipi della confusione di un’età infinita, dell’immobilità a cui porta il contemporaneo, un tempo dove il parlare e l’immaginare, in una sorta di bovarismo dell’era di Apple, si sostituiscono all’esperienza concreta, così che il pensiero si rivela già azione senza doverlo per forza diventare e poco importa se il tutto avviene nella multimedialità, perché non c’è differenza tra virtuale e reale, l’importante è quel che sente il corpo, o il cuore, per Tao Lin non c’è nessuna differenza, conta l’emozione o la sua mancanza. La noia, o la sua assenza. Il vuoto e tutto quel che ci vuole per colmarlo.

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Citazioni:

Paul si era accorto che Laura, che non lo guardava, non apprezzava la sua presenza e si stava seccando, ma lui si sentì immune a questa informazione per via dell’alcol e continuò a fare domande, chiedendole quanti anni aveva e se aveva frequentato o stesse frequentando il college e se sì quale. A man mano che il fastidio di Laura si intensificava, trasformandosi in incredulità e incupimento, lei entrò in uno stato di iperallerta, focalizzandosi solo su Paul con espressione guardinga ma anche di sfida e gli chiese come mai le facesse tutte quelle domande. “Non faccio domande” Disse Paul, “sto solo cercando di parlare. “Perché questo interrogatorio?” Sto solo cercando di fare conversazione.

 

“Scusa, non voglio rompere” disse qualche minuto più tardi “ma non riesco a dormire senza neanche un rumore, per esempio un ventilatore.” Paul accese la ventola del bagno. Caroline la spense poco dopo. Paul la riaccese e mandò un messaggio a Caroline per spiegarle la situazione, aggiungendo che le avrebbe dato cinque dollari per poterla fare andare tutta la notte.

 

“Abbracciamoci il più stretto possibile” Disse Paul, poi si alzò e lo fecero, “Penso che stringersi davvero forte sia quello che le persone che si tagliano arrivino a… provare.”

“Ti sei mai tagliato?”

“No” rispose Paul “e tu?”

“No” disse Erin, portando il MacBook verso l’ingresso.

“Perché stringersi dà una bella sensazione?” si interrogò Paul in modo distratto.

 

Nell’ufficio, che era luminoso, tranquillo e ricordava un ufficio postale, mentre riempivano dei moduli Paul disse che sposarsi era come fare un tatuaggio, una situazione in cui voleva solo pagare dei soldi e ricevere un servizio, non prendere degli appuntamenti e andare in diversi posti, parlare con degli sconosciuti e confermare di essere sicuro della propria scelta.

 

“Noi come facciamo sesso?”

“Mi sembra vada bene”

“Hai qualche critica? Di qualsiasi tipo.”

“Critiche” considerò Paul. “Uhm, no.”

“Davvero? Puoi dirmelo.”

“Critiche” ripeté Paul.

“O qualsiasi cosa. Dei pensieri.”

“Uhm, no” disse Paul, “Non penso che per me il sesso sia poi così importante.”

“Sì” disse Erin in modo vago.

“E tu che cos’hai da dire… riguardo a me?”

“Non ho niente da dirti” rispose Erin.

“Sei sicura? Puoi farlo.”

“No, sei davvero bravo in tutto…”

“Sul serio?”

“… e tieni sempre vivo l’interesse” proseguì Erin.

“Sicura?”

“E ho degli orgasmi, tipo, regolarmente” disse Erin.

Paul fece un suono tranquillo a indicare di aver capito.

Tao Lin

Taipei, Tao Lin, Isbn Edizioni, 2014, 265 pagine, 22 euro.

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Cascate tra le vostre gambe

Provocavamo con l’estetica e suggerivamo ai passanti luoghi appartati per guardare l’orizzonte. E ci sorprendevamo a scoprire che l’immagine interroga più della parola. Così finivamo a riflettere sulla mediocrità dei nostri quotidiani che distraggono lo sguardo e costringono all’occhiale.

Dalla finestra di fronte la telecronaca di Genoa-Napoli e il vantaggio partenopeo. Dietro le porte piastre per i capelli e profumi dolci: i preparativi per questa notte, ci presentiamo alle cene già apparecchiati e non abbiamo pazienza nell’attesa delle pietanze.

Così ci riempiamo la bocca con le ultime del giorno e sonnecchiamo sui ricordi.

Un amico intanto scrive dove voi odiate, noi amiamo e tornano a sorridere le due metà della luna.

Dovresti scrivermi che mi vesto sempre di nero e scurisco il blu per distinguermi dal cielo, che sono tempesta e grandine e danneggio con facilità tutte le mie semine. Chiamiamole sconfitte queste mie incapacità ad adeguarmi alla norma. Chiamiamolo egoismo questo temporale che si gonfia di tuoni e coi fulmini costringe ad alzare lo sguardo. Così invadente che finirò sui libri di storia, un po’ come i romani, solo che loro conquistavano tutto mentre io brucio e faccio scintille nel cielo. Se scriverò ancora di stelle prendetemi il bavero e caricate il destro. Mentre coi cioccolatini alimento la mia bulimia. Non c’è dolcezza in queste parole. Siamo cascate e ci dirigiamo tra le vostre gambe senza pensare. Vi sorprendiamo nel mezzo del buio o alle prime luci dell’alba, voi vi chiedete perché, vi lasciate affascinare dalla piena, poi costruite degli argini. Che a lasciarsi sommergere non si sa che fine poi si fa, e sarete una novella Atlantide o una triste Venezia. Coi turisti e la malinconia delle isole coi contorni che puoi tracciare col dito.

Per diventare necessari abbiamo bisogno di correre il rischio delle mani vuote, di quando serri le palpebre, accompagni le mani sul cuore e pensi: che ne sarà di noi. E a furia di ripeterlo ti viene fuori la zeppola del Muccino giovane, così sorridi e pensi a Santorini. Ti chiedi: verrai con me, prima o poi?

Foto: dalla rete.

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Isole bellissime nei cuori delle città

Le vesti bianche benedicono il mare e le balene annunciano messaggi in codice; i fischi lunghissimi delle navi in partenza e tutti in coperta in camere d’aria condizionata.

Faremo il giro della Francia in tour con tappa a Nizza per guardare gli scogli.

Quando mi accorgo di tutte le pulsioni che ci circondano, le luci del Naviglio si chetano soltanto al mattino nella prima borsa in pelle dei professionisti delle vendite.

Mi coglie lo stupore soltanto sulla Serravalle, e non parliamo di saldi, ma delle luci al neon delle centrali idroelettriche.

Vorrei chiudere le porte al sole in questo giorni di luglio e guardarmi dentro con quelle torce da speleologo che vendono al Decathlon.

I resti della vita attiva e i rituali di iniziazione davanti al crocifisso. La nostalgia di quei pomeriggi con il ghiacciolo in mano e la maglietta sporca di terra, rincorrere il pallone a mille all’ora e gonfiare la rete guardando per terra per paura d’esaltarmi troppo, cercare refrigerio nell’ultima panca, le navate laterali delle chiese di provincia. E confessare il peccato del diventare grandi soffiando sulle candele, spegnere i rimasugli dei sensi di colpa ed entrare nella vita vera.

E poi mi dici che sono una bussola montata male, che la lancetta rossa è sempre verso il centro e quel centro sono io. L’io come misura del tutto e il tutto come amaca per le notti d’estate, bottiglie di birra lanciate nel prato e zanzare in questua del mio sangue caldo.

Mentre misuriamo i nostri giorni in successi, tu mi ricordi che i silenzi son così pieni che forse a strizzarli potremmo conservarli in vetro e usarli nel traffico del centro.

Di tutte le lettere che ti ho scritto e dell’infinito spazio disponibile nelle caselle di posta elettronica.

E ora indosso una maglietta a righe su bianco, quelle su nero son sulla copertina di un libro.

La disumanità del marketing per me che ho nostalgia della libreria di via Alfredo Albertini, quando dietro al vetro c’erano gli struzzi e leggevamo il Manifesto e poi al sabato offrivamo il caffè con la torta appena sfornata. E ci venivano gli anarchici e magari gli ex brigatisti, e si mangiava e si brindava e si parlava di storie, che le contingenze politiche erano discorsi da camere bianche e vuote, e se ci chiedevano di Bruno Vespa noi si rispondeva che certe cose qui non esistono.

Che esistono ancora isole bellissime nei cuori di pietra delle città.

Foto: Berenice Abbott

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Che chiameremo noi letteratura?

Che chiameremo noi letteratura?

Questa parola logora e avara, relegata a scaffali e merlati di castelli disabitati e boria d’adulti mai vissuti.

Che sarà di queste giovinezze irrequiete, del nostro pescare le stelle dai tram, degli schizzi bianchi delle nostre notti insonni? Dimmelo adesso che fare e perché rinunciare alla necessità del mio sentire informe eppure sano e santo e beato e folle?

Dimmelo ora perché non discendi le scale con grazia e ti scagli con pietra contro le sensibilità pronunciate di noi adolescenti degli anni novanta?

Dovremmo riaprire le edicole per vendervi i seni gonfi delle showgirl e chiuderci in casa ad ascoltare le canzoni melodiche dei vostri passati prossimi? Che pensi del beat, lo sai che Ramazzotti Eros usa l’elettronica?

E magari mi vuoi tirare in mezzo con l’ironia di Elio e le storie tese, coi termini desueti di certi dialetti. Parliamo di fica e facciamoci belli. Oppure scontriamoci e diciamo che sì, noi sì, ma gli altri, gli altri invece no. O utilizziamo ancora quel “Quelli che” tanto caro a Rai3.

Quando spegneranno le televisioni e ci chiameranno le piazze diremo che sì, che la vita più semplice è quella dell’amicizia corretta e del vicino elegante. Delle cene formali e dei contatti. Ti chiamerò su Skype per ascoltare la tua timidezza.

Di quando ti chiudi nel bagno e la pancia ti cala sul pene. Le tue mille seghe tra i costumi delle soubrette.

Che chiamerai tu letteratura? Il culo di Belen è di una bellezza immensa, lo vuoi dire questo? Ci rifaremo gli occhi sui Van Gogh soltanto per sentirci meglio.

Avvelenarci del buono e imparare la sensibilità dei palazzi.

La strada è un’altra cosa, chiede vino e bocca ripiene di desideri. Squarci insanguinati su braccia nude e sudore a cavallo del collo. Tutta questa bellezza sta nella debolezza dei nostri oggi, nei nostri desideri mai detti. Io guardo ancora il cielo e penso che bello. Che belle queste foto del mare, che bello il colore pastello. Ti chiamerei, non ti farai trovare. Ma sii contento. Tu sii contenta. Che io ti abbraccio, ti bacio. Che parlo sempre di me, ma non ho altri modi per arrivare a te.

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Del tuo collo un Mirò

Non sarà certo youtube a tenere compagnia ai nostri incontri.

I ricordi di via Vigevano, la moka rosa, il portone grande e le ore spese a ridere dietro allo schermo. Col vino dimentico il perché delle mie visite, mi lascio andare al presente per negare al futuro l’accesso alle mie debolezza. Sono cambiato, lo sai, e diluisco lo sguardo nel tempo, lascio le ciglia sul palmo delle tue mani così puoi prendermi a pugni per esprimere desideri.

E sarà sempre un tavolo a dividerci. Le mani si incontrano cercando il cibo nei piatti.

E poi lo sai che quando sento parlare di verità mi si abbassa l’uccello, e volano via i pensieri cercando i piccioni e tanta merda sul capo dei retori. E non parlarmi dei romantici quando non c’è ironia nella tua prosa stanca. Il punto e l’a capo. La Kristof scriveva in una lingua non sua, quando dicevi che tutto bisogna lasciare per ritrovarlo nella bocca degli altri.

Quando ho messo le mani sugli occhi e ti ho detto cucù hai pensato sei folle.

E mentre si fa giorno non è la luce che trascina via le coperte e lascia al corpo il tempo del sabato per il risveglio. Nel cielo il bianco dei condom usati e decori di ringhiere e tende colorate. L’inverno delle porte chiuse e la lametta nuova per modellare il viso. Cade la barba sul nudo dei piedi, il ricordo delle tue docce lunghissime e i crampi delle ore notturne quando occorre distendersi per far passare il dolore.

E al mattino il desiderio delle tue spalle nude, la stella nera fa del tuo collo un Mirò.

E mentre preparo il caffè sporco le dita di nero e poi mi asciugo sui pantaloni, nel lavandino ci stanno i ricordi, che se abbandoni le mani nell’acqua finisci per indebolirti, lo sai. Quando la rilassatezza è una questione di misura.

Vorrei parlarti della vita dei ricci di mare e tengo trattati sull’apertura delle conchiglie.

Quanto ci esalta nyan.cat.

Poi dentro al telefono parole sul corpo, dice Laura: l’infanzia non piange al contatto e cerca un ventre per sonni tranquilli.

Quando sei tu va a finire che ti lasci abbracciare, non siamo salmoni e non è la natura a suggerirci l’andare.

E sui quotidiani i tweet dei famosi, il libro del momento ha il nome di un bar.

Ho indossato la tua felpa, Andrea, quella coi disegni sulla schiena e la scritta Dead to Fall, ti porto in spalla un po’, che ogni partenza ha bisogno di un saluto lungo. E gli addii li lasciamo ai calciatori, ci pensi mai che Zanetti è immortale? Che poi a 20 mi sembrava già vecchio, a me che porto trenta nei cerchi concentrici sottopelle e nascondo i segni dell’esperienza nella cicatrice sull’occhio sinistro. Quanti conoscono la sua esistenza, secondo te? Quanti mi hanno guardato davvero? Pochi. Rispondo io.

Prendevamo a pugni Milano per sentirci meno soli, quando lavoravo in libreria leggevo di più, pensavo di meno e andavo in palestra ogni giorno. L’allenamento è l’accesso alla conoscenza. Sei poi riuscito a muovere il muscolo del polpaccio?

Nel sangue ancora le tracce dell’alcool di ieri, e quanto è buono il Remy Martin alle fine dei pasti?

Vorrei utilizzare la parola stranito senza pensare alle anatre. Vorrei dirti sei bella, ma mica che poi pensi male.

E che vorrei imparare a suonare la chitarra quante volte l’ho detto, poi avere il coraggio di attraversare Parigi di notte. Ora lo faccio per prendere un aereo o ubriaco, vorrei farlo da sobrio, magari con te, dopo un caffè. A non parlare, a non raccontare, soltanto a guardare, a camminare. A bere, a fumare, e poi a casa dirci che se sei sulla strada non puoi scrivere come Paolo Coelho. Dormiamo insieme, dormiamo.

Foto: Philip-Lorca di Corcia

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