Invece di stare qui a chiederci in quale giorno della settimana appariamo più belli, saltare la cena del venerdì per essere pronti alle luci al neon e ai caratteri mutevoli del Plastic, tu mi hai costretto ad appoggiare le borse della spesa sul tavolo, a prendere l’ascensore e schiacciare il numero più alto: prossimi al tetto, prossimi al cielo.
Tra le antenne storte e i nidi delle cornacchie allungavi le dita sulla mia schiena per disegnarmi chissà quali costellazioni. Siamo costretti a immaginarci le galassie, dicevi, c’è troppa luce e le stelle sono come le talpe, scavano tane e si negano allo sguardo.
Le mie parole al miele e le tue espressioni di disgusto. Qualcuno suona una chitarra e ci sono treni che viaggiano di notte senza passeggeri. Chissà dove vanno mi dici tu. Chissà poi se è importante, ti dico io.
Mentre fotografavi i primi pianti del giorno ti chiedevo dai insegnami, mi dicevi: certe cose si imparano solo se le vuoi imparare, credo che tu non voglia davvero, ti piacerebbe, come a me piacerebbe essere al mare. E avevi ragione e sapevi come convincermi, sai, quando mi parli usi quella voce che hai solo tu, mai giudicante, ma rigorosa, quasi infantile. E se ti dico vorrei avere vent’anni, mi rispondi è tardi, avresti potuto imparare a suonare uno strumento e io avrei potuto amarti sentendoti suonare e parlare di meno, è la parola quella che ti frega, lo sai? E a furia di condizionali siamo arrivati alla pena più grande, quella del voltarci indietro e rimpiangere il passato.
Ci guardavamo negli occhi e i tuoi brillavano, i miei invece no. Che palle la malinconia, dicevi tu. Così ti mordevo le labbra e prendevi a pugni le mie spalle, dicevi: smettila, non è gentile. Le gentilezza è un’invenzione degli uomini. Non è vero, m’incalzavi tu, l’hai mai vista la rugiada posarsi sull’erba? No, dicevo io e cominciavo a parlarti delle mie infanzie, mi interrompevi, dicevi: guarda la mia schiena, come la trovi? Liscia, rispondevo io. Soltanto? Dicevi tu e ti piegavi un poco, mostravi le costole. Bella, continuavo io. Soltanto? Dicevi tu, lasciavi cadere il vestito, riparavi il seno col palmo delle mani, poi lo stingevi e rimanevi in silenzio. Neanch’io parlavo, il vento invece accarezzava le antenne che vibravano un poco emettendo dei sibili. Perché tutto questo, dicevo io? Mi toglievi la maglietta, dicevi presto sarà giorno, fammi ballare. E mi davi le spalle, passavano i treni e i camion per le pulizia delle strade, tu mi mordevi le dita, io ti annusavo le spalle. Se chiudi gli occhi lo senti il mare? Non ci riesco, dicevo io, e mi veniva da ridere. E ti facevi orizzonte e poi scivolo, eravamo onde, poi navi, e porti, e montagne da scalare e legna da ardere, camino acceso, stelle cadenti, fuochi artificiali, e dimenticavamo la morte facendoci eterni.
Foto: Aldo Mondino, Nomade a Milano.