Archivi tag: scrittura

Il principio dell’altalena

Perché alla fine mi piace Cremonini, ballo con Jovanotti e piango con certe canzoni di Vasco. E mi esalto per Fabri Fibra, poi quanto spacca la pasta alla carbonara, che Radiofreccia è un gran film e l’emozione per l’elezione del Papa. E pure certi passaggi di Fabio Volo non sono mica male, dico davvero.

E poi la mia mensa sarà sempre una festa.

Mi piace pensare di lasciarti la tavola sporca, le tracce di me che cancellerai sparecchiando.

E penserai che sono così invadente col mio ideale estetico e quei giudizi taglienti, le mie labbra dolci e la barba lunga per sembrare più grande. Ti scriverei ogni due o tre minuti, che mi manca l’odore, il sapore, e per ogni tua immagine un pensiero diverso, il prolungamento delle mie dita e lo spazio chiuso dei nostri uffici naive.

Nei tuoi capelli la cura, sulla tua bocca il colore. Le mie invenzioni pomeridiane e la tua immagine proiettata sul soffitto come nei film di Chaplin. Andavamo a correre a notte tarda, ci svegliavamo sudati e mi dicevi: è già pronto il caffè?

Delle mie mille adolescenze e dei calzini dispersi. Di quando prendevamo aerei per sentirci adulti e ricamavamo sul cuore le nostre iniziali e per ricordarci di dare un taglio a tutto ciò che non serve cominciavamo dai nomi. Le tue poche lettere per i miei richiami lunghi. E soffiavo tra le tue lenzuola perché la brezza ti ricordasse il mare, la stoffa le onde.

Mi chiederai: li vedi nello specchio i miei piedi? E ti risponderò sempre sì.

Indosserò le tue scarpe per conoscerti meglio e coi tuoi trucchi darò il nero agli occhi. Saremo punk eppure hippie, saremo nerd e pure cool. E scriverò sul muro bianco della tua camera quanto era bello attendere la tua conoscenza.

Col sole che cerca il riflesso tra i tuoi capelli e il cestino grande della bicicletta. Mi sorprenderai a masturbarmi e ti dirò che è tutta colpa della tua lontananza. Mi rassicurerai dicendo: lo sai, sono qui. E non ti crederò, poi l’amo della tua lingua nella mia gola, che sarò pesce e risalirò lungo il tuo fiume.

E’ così sciocco disegnare paesaggi a parole e farmi piccolo e infante. L’isola non trovata e la storia infinita delle rincorse. Il principio dell’altalena che a furia di spingere poi tutto ritorna, e prendi il volo, alzi lo sguardo, non tocchi terra e poi mi salti in braccio.

Foto: Philip-Lorca diCorcia

4266139625_afea351909

Contrassegnato da tag , , , , , , , , , , , , , ,

Buon compleanno, fratello Jack Kerouac

A te che sei nato oggi, alle tue scarpe consumate, alle tue colazioni improbabili, alle guance sporche di nero e alle ferrovie americane.

Le palle lanciate sui campi da baseball, le fotografie in bianco e nero e la mascella squadrata.

Ai tuoi amici bellissimi, all’omosessualità esibita sulle spiagge marocchine, ad Essaouira e al grande sud.

A chi ti descrive come un vagabondo, un furfante, un piacione. Ai film americani e alle attrici bellissime. Alle tue prime serate e agli scrittori che sanno leggere a voce alta. Al bebop jazz della nostra scrittura che prende forma nell’aria e negli occhi e fugge dai classici.

Noi orrore delle case editrici: le frustrazioni degli editor per le nostre ansie.

Alle tue camicie a quadri, alle tue mani forti.

Alle sedie troppo basse, a quelle troppo alte, alla nostra schiena storta. Ai fogli stracciati e dispersi. Al ticchettio della macchina da scrivere. Ai vuoti delle bottiglie di birra, ai rutti sonori, i vaffanculo fuori dai locali, le gonne leggere delle adolescenti e labbra rosse per morire da vergini.

Il beat nervoso della tua voce, le lunghe pause e gli haiku per cercare la pace.

Ti presentavi alle interviste ubriaco per rispondere alle domande insensibili del pubblico adulto. Ti capisco, amico, quando cercavi la beatitudine e ti trovavi davanti il rispetto educato dei tailleur e le cravatte a righe dei professionisti della questua.

Ed io lo so che avresti preferito pisciare dai tetti o il petting spinto tra le auto parcheggiate a fila. E poi il senso di colpa della nostra istruzione cattolica, le ore spese in pigrizia e chiedersi il perché delle performance senza tregua degli altri.

Spaventiamo le femmine con le nostre domande sudate, l’impervia scalata del cuore degli altri mette in conto il sangue.

Tagliavamo pane e salsiccia per rimanere in contatto con la natura. E Gesù il Cristo in croce sui nostri letti, la benedizione alle nostre notti insonni, alle mattine trascorse a riprenderci.

E combattevamo la retorica del cielo, e usavi la parola stella perché prima o poi esplodessimo in luce. La necessità della scrittura come una doccia, i nostri abiti sporchi del pensiero nero e della debolezza incredibile che sapevamo riconoscere, ma non lasciavamo mai.

Che nei primi anni della nostra vita ci vergognavamo ad usare parole come seno, e sesso, e successo, ed ora andiamo di cuore e lasciamo la fica alle bocche degli altri. Che preferiamo i particolari, gli occhiali grandi e le vene pronunciate, le dita lunghe e le unghie curate.

Ti ho scoperto in via Festa del Perdono, Milano di luglio e motorini in festa. Ho comprato il tuo diario al Libraccio, On the Road lo avevo impilato tra le velleità della mia gioventù, tra la mia Africa e il Baobab della savana eritrea.

Che beat è beatitudine, cercare la purezza nelle viscere del proprio io, il sangue in grumi alla nascita e il desiderio dell’amore universale che non riesce a prendere forma.

Per questo versiamo cenere sui pavimenti in legno delle nostre case piccole, chiediamo scusa al mondo per le nostre domande di troppo e raggiungiamo il mare per dare sfogo alla nostra ricerca dell’infinito.

E come le onde torniamo sempre, il moto perpetuo del nostro sentire, ti scriverò ancora, e un’altra volta, una ancora, che per me sei oggi e buon compleanno, fratello Jack Kerouac.

Jack-Kerouac-Allen-Ginsberg (1)

Contrassegnato da tag , , , , , , , , , , , , , ,

Quanti amori sulle scale mobili

La fronte calda e la testa pesante. Nel bianco del cesso i cocktail del venerdì sera e tutte le sostanze sconosciute dell’aria di Milano. Dovremmo fare amicizia coi semafori e stringerli forte per far farmare tutto questo andirivieni. Cadono le prime foglie e sono secche, stanche dell’albero, il sole maturo degli ultimi giorni d’agosto e il passatismo indecente di certe espressioni culturali. Poi gli speciali sulle profondità della terra e i buchi neri della nostra economia, a nulla serve la cortesia se poi quando non ti guardo prendi la verga e mi accarezzi il culo. La metro affollata delle ore di punta e tutti i pensieri che lasciamo dentro alle porte scorrevoli. Quanti amori sulle scale mobili e quante malattie. L’impotenza della mia sedia girevole per i cambi d’opinione, la riflessioni delle mie ginocchia per la preparazione atletica del pensiero critico e quei caschetti gialli, i volti neri, le urla e in televisione i commenti intercambiabili degli ex sessantottini. Vuoi dirmi cosa ti spinge, uomo, a incastrarti in disumane proteste, contro di te e la negazione delle tue aspirazioni. La rivendicazione dei nostri diritti, la debolezza dello stato sociale e questi aerostati che ci hanno montato al posto della testa. C’è qualcosa a monte più che nelle viscere della terra, cambiare la concezione della socialità, il volto umano dell’incontro e poi perché ci sfreghiamo le cosce per otto, dieci, dodici lunghe ore quando ci allontaniamo soltanto da noi come le sonde che attraccano Marte e ci aprono ingannevoli scenari fantastici. Perché il lavoro e perché il mantenimento dei valori che ci hanno insegnato? Quando il valore non è una medaglia, ma la dinamica delle trasformazioni e quella A incomprensibile della teoria delle catastrofi. Hanno bruciato le biblioteche, i seminari e i palazzi del potere per dirci che quando tutto è perso, bruciato, passato, è allora che nasce la nuova pelle. Le corazze si costruiscono per difendere i possedimenti. Il gioco del pallone e il pressing alto: correre, alitare, sudare. L’erba verde e le grida, la cena insieme e lo spirito di squadra. Dimmelo ancora che non ti manco. E dimmi perché il mio fegato chiede pietà. Per le ore spese a cercare di cambiare le reazioni chimiche dell’osservazione della realtà. Uomo ricordati il tuo nome, e non perdere la dignità per difendere quello che tu hai chiamato lavoro, famiglia, potere. E’ davanti alla pelle, agli occhi, al battito degli organi interni e al lacrimare delle coscienze che puoi perdere tutto perché poi tutto si fa boomerang e poi torna indietro.

Foto: Luigi Ghirri, Bologna 1985

Contrassegnato da tag , , , , , , , , ,

Come atleti di Parkour camminiamo sui tetti

Come atleti di Parkour camminiamo sui tetti. Ci fermiamo davanti ai comignoli e mettiamo la testa dentro per sentire l’odore delle case degli altri.

I piccioni sostano sulle grondaie e si voltano spesso per guardarci. Non ci sono elicotteri nel cielo di Milano. Soltanto scie bianche e inquinamento atmosferico, lampioni alti e quel che resta delle antenne paraboliche degli anni novanta.

Classifichiamo le case in base all’odore che regalano: pollo e patate, pesce al forno, marijuana, incensi, formaggio fuso, profumo francese, dopobarba, legna bruciata, umidità. Decidiamo che ci sono odori che appartengono alla vecchiaia, altri invece all’uomo in generale e non è possibile fare insiemi e sottoinsiemi. Constatiamo che è un gioco di merda. Pauline dice lascialo fare ai poeti. Rispondo son gente noiosa, guardati il viso, sembri un’indiana. Si specchia nei miei occhiali da sole e nota le guance striate di nero, dice hai ragione, siamo in spedizione per sconfiggere gli yankees. Dico, non hai mai giocato a football tu, ti calpesterebbero in branco. Mi afferra per un gomito e mi schiaffeggia la nuca, la prendo in braccio e la alzo contro al cielo, dico, vuoi fare il volo più bello della tua vita? Urla sì, sì, gettami a terra come si fa con la spazzatura. E anche i passanti proveranno il brivido della caduta.

Pauline pesa troppo, la poso a terra, ci baciamo le lebbra, e quando allungo la lingua lei me la morde, dice, che senso ha? Rispondo che è soltanto il piacere di sconfiggere il cielo grigio col rosso delle nostre labbra. Dice mi annoi e si sdraia sulla pancia.

Guardà là in fondo, li vedi i grattacieli? E’ impossibile non vederli, rispondo io. Preferisco il pallone del tuo culo, non m’ero accorto della perfezione che porti dietro alle spalle.

Non è perfezione, soltanto la mia reazione al mondo.

Reagisci col culo?

Attiro gli sguardi là, per nascondere il nero dei miei occhi. Non ti piace?

Non è questione di piacere.

Hai ragione.

E così ci lanciamo in una disputa sul dizionario e i termini che hanno perso senso e significato, ci scontriamo su Bellezza, Felicità, Tutto, Niente, Mai, Sempre. Vorremmo non usarle più, cancellarle dalle nostre memorie e lasciarle in pasto alle bocche normali degli altri. Normalità e Verità: le aggiungiamo alla lista.

Vuoi dirmi poi perché ci facciamo tutte ‘ste paranoie? Non potremmo scopare e andare al cinema come fanno gli altri?

Dovremmo fare dello shopping insieme, è tempo di saldi.

Sai cosa penso dell’amore? A parte che non esiste.

Mi vuoi dire che è come facciamo noi, sappiamo tutto delle nostre debolezze e ci insegniamo le cose e facciamo piani per il futuro come quello di cancellare parole dal vocabolario?

Proprio così.

Lo vedi che so tutto di te?

Presuntuoso.

Forse dovremmo scopare.

Lo sai che io non scopo.

Facciamo l’amore?

Non lo faccio l’amore. Non esiste.

Cammino sul tetto e lancio risate ai passanti. Quando la donna che hai sempre desiderato è così vicina a te che non riesci a vedere il contorno del suo corpo, ma senti soltanto il suo odore e il calore, la consistenza della sua pelle e il volume dei suoi capelli, la morbidezza delle guance, il sospiro tra le sue labbra e le ossa del suo bacino. Quando siete così vicini che un movimento soltanto basterebbe a separarvi per sempre o unirvi in profondità. Ecco tutto. Mi viene soltanto da ridere perché ci manca il coraggio. Troppi pensieri animano i nostri passi, vorrei fermarmi a pensare al perché le mie sneaker hanno i buchi e non sono pulite, perché indosso ancora la maglia dell’oratorio e poi perché non porto mutande firmate. Vorrei che lei mi dicesse fregatene e spazzasse via la futilità del punto di domanda con lo tsunami della sua lingua e parole sussurrate all’orecchio.

Non è così, rientro dalla finestra e mi sdraio sul letto. Lei rimane là, la pancia a terra, lo sguardo alle nuvole.

Vorrei accendermi una sigaretta e imparare qualche posa sciocca per sentirmi più uomo, va a finire che mi gratto il petto e mi annuso le ascelle. Prendo un libro di poesie e non leggo nemmeno una riga, lo tengo aperto e negli spazi bianchi affondo tutti i perché del mio essere come sono.

Dal cielo cadono parole come: Giraffa, Farfalla, Venere e Paperon de’ Paperoni.

Pauline dà un nome alle nuvole, sussurro che sciocca, quanto è banale la nostra esistenza. E capisco che nulla in quel momento mi piace di più del suo appello ai cirri.

Le dico scendi, dai, vieni giù, lasciali tra le tegole i sofismi e le regole usate del corteggiamento. Vieni qui.

E Pauline fa forza sui polpacci e viene alla finestra, mi guarda e poi si nasconde. Il cucù improvvisato dell’adolescenza passata.

Le dico, ti prendo io, ti afferro al volo, così apre le gambe e si lascia andare sulle mie spalle, la mia testa nell’incavo delle sue cosce. Che siamo grattacielo, farfalla o soltanto nuvola ora, lasciamo i nomi all’appello delle zanzare. Per chiudere le lenzuola in sipario e inventare un suono nuovo per le pernacchie che non so fare.

Il gatto intanto bussa alla porta, non lo sentiamo.

Contrassegnato da tag , , , , , , ,

Mostrerai il seno ai naviganti

Tracimano i cappucci bianchi dei monti, il tuo passaggio aereo e il tuo vestito azzurro per l’incantamento dei corpi celesti.

Le notti vuote,

le stelle cadenti rimangono in chiodi fissi aggrappate al cielo per non perdersi il tuo passaggio e dietro a te lacrimano in fila cercando un modo per sfiorarti. Area e schiva tu. Lasci indietro la scia bianca degli astri che il cielo rifiuta perché ormai in fuoco. Ti sei mai chiesta dei danni del tuo passaggio?

Posso slanciare le gambe in salto per ritrovarmi sotto la cascata della tua lingua; rigenerare il passo gettando le ansie nello sfregamento quotidiano delle nostre pance.

Quando ti sei seduta per la prima volta sulle mie ginocchia ho aperto le braccia per accoglierti, e poi mi sono fatto conchiglia.

Le perle sono soltanto concentrati chimici.

Tu, parassita delle mie notti.

Tu, guance estranee, tessuti molli e cuore sconosciuto.

E per proteggermi strati di bianco sul contorno della tua pelle, il tuo pelo fine, leggero; la madreperla delle mie esplosioni notturne, che diventi preziosa soltanto se ti fai stringere. L’invadenza dell’entrata, basta soltanto un si può e chiudo le cosce d’istinto. Non ho scelto io di trasformarti in gioiello.

Il movimento stanco del mare dei giorni, questo sole che rintocca sui nostri contorni e ci fa suonare i campanelli delle case di ringhiera.

Le scale non sono mai abbastanza, vorrei pensare a lungo prima di entrare dentro di te.

E ora sei qui, non chiudo gli occhi, le dita a percorrere il contorno maturo degli acini gonfi del petto, i fianchi sporgenti e quei tatuaggi che mi invento tra i polpastrelli per disegnare autostrade sulla tua pelle e poi attraversarti dimenticando il paesaggio.

Dovrei sputarti fuori dalla finestra, come i noccioli far germogliare figli tuoi sulla strada e lasciarti libera di andare al vento.

L’egoismo delle mie unghie ti custodisce sotto pelle, non ti farò del mare, vedrai, ti nasconderò nella ferita al centro del mio ventre, quel buco che è dalla nascita che non sa cosa contenere.

Non ti farò del male, vedrai, prenderemo una barca, ti farò sedere a prua, mostrerai il seno ai naviganti e a me la schiena, che non è importante quanti sguardi attiri, quante mani si allungano, quante voci ti cercano.

Mostra ai più le tue forme, ma dona a me lo spazio nero dei tuoi nascondimenti, di quando sei supina e nascondi il cuscino dietro la spina dorsale. Non mi interessa il bianco, è nel nero che trasformo le notti in giorni, e delle tue ombre faccio meraviglie.

Contrassegnato da tag , , , , , , ,

Quaggiù si litiga per piccolezze

Quaggiù si litiga per piccolezze. Il nostro nome sulla porta di casa, il nostro vanto di proprietà per le discussioni sull’affitto e poi le pause silenziose. Che quando vuoi bene soffri per sciocchezze. Ci veniamo a raccontare del desiderio del viaggio mentre facciamo del nostro letto una base di lancio e nulla più. Il solco tra i nostri materassi scadenti e i pendolari del lunedì mattina. Ci rivoltiamo tra le coperte cercando compagnie e poi la notte costruiamo casette di carta e al primo soffio scivoliamo sui tavoli pronti a ricominciare coi pranzi della domenica, soltanto un ricordo lo sai che non riesco a godermi il presente che ho lasciato i capelli impigliati al se fosse. E quando ti avrei voluto dire che le nostre portiere si aprono a scatto hai rivoltato il tuo reggiseno per farmi partecipare alle tue fragilità, la consolazione nelle malinconie di mamma. E con le labbra nuoto ancora tra le tue colline che mi manca il respiro mentre provo a dirti che sono alla ricerca di affetto come i cani che si strofinano contro al muro per dar sollievo alla pelle. Ma si è fatto tutto così veloce che ci siamo ribaltati in capriola e mi sono messo a ridere con tutti i difetti che mi lacrimavano dentro, si sgretolavano le pareti per lo stomaco fragile di noi giovani d’oggi tra le intolleranze e le allergie al quieto vivere. Sai che c’è? Siamo come gli arcobaleni e attendiamo orizzonti per poterci fermare noi che veniamo dopo le piogge. Che vasto è il cielo e nella notte muore, cerchiamo luce noi che viviamo di riflessi. Le bocche aperte dei nostri amici di sempre e i miei racconti sul cammino di Santiago che mi svegliavo all’alba e camminavo per ore, poche parole, tanti pensieri per poi svenire nel letto e dirmi domani bagaglio in spalla e camminare che prima o poi la strada dirà. E non mi guardavo allo specchio per giorni che non erano importanti gli atteggiamenti. Vorrei che ci prendessimo a pugni per ferirci, farebbe meno male e ti puoi immaginare le strade zuppe di bende, che così non potremmo nascondere le nostre sofferenze. Hanno inventato ambulanze e pronto soccorsi, i defribillatori per le nostre pause del cuore. C’eravamo seduti su un gradino e quando avremmo potuto asciugarci le lacrime e col ghiaccio dei cocktail sgonfiare le nostre ferite ci siamo fermati al come stai che fai e ci sei o ci fai. Che alla fine ci scambiamo i nomi per ritrovarci sullo schermo e farci i film e costeggiare le imperfezioni della nostra pelle e il colore dei denti senza il coraggio per l’attracco. Non ci sono approdi, sai? Che dovremmo condividere luoghi, per le parole che ci scendono dall’alto come lampadine e illuminano le nostre notti. Ho incominciato a scrivere per scacciare la rabbia e mi ritrovo a dirmi che ha smesso di piovere e squarci d’azzurro nel cielo. Ho gli occhi dipinti di nero, era un gioco da adolescenti, succhiavamo tequila sale e limone e ci siamo detti facciamolo, diventiamo anche noi tristi di fuori. Che siamo bellissimi quando ci laviamo la faccia, l’acqua fredda e le labbra in protesta. Le sensazioni nuove del mattino e l’aria tra le pieghe della maglietta. Che siamo pronti, e fuori non ci sono strade, soltanto domani.

Contrassegnato da tag , , , , , ,

1-1

Queste domeniche che rimaniamo aggrappati al cielo e ce lo rivoltiamo addosso per prenderne i colori e decidere l’umore a seconda del tempo. L’azzurro dei tuoi occhi di ieri e questi tè caldi che mi costringono a entrare nei bar senza ordinare nulla e intuire il posto della toilette provare col comando in fondo a destra e perdersi nelle cucine sporchissime a raccogliermi le braccia al petto come stelle cadenti e non avere spazio per stringere desideri. Dove finiranno i nostri liquidi, dove finiranno le nostre perdite di tempo a inseguire cinema che sanno di naftalina e immaginarci un posto nei ricordi. Caricare la schiena di progetti inverosimili e chiudere la porta alle realtà dei campi e alla brina d’agosto delle montagne argentine. Che la mia saliva era più buona quando lasciavamo spazio alla lingua e non ci tenevamo stretto sul petto lo zucchero filato dei nostri farò tramutati in denaro. Quando hai attirato la mia attenzione eri soltanto uno sguardo di fianco alla cassa per i cocktail che bevevo da solo per tenere impegnate le mani che è sempre meglio che non sapere dove metterle. Quando credevo di averti lasciato la buonanotte in tasca, il numero di telefono scritto col rossetto della mia amica biondissima che invece mi sono svegliato e mi era finito nella sciarpa e non sapevo perché; il calore dei numeri non può nulla contro le tempeste del tempo che scorre, i tuoi viaggi chilometrici nelle pianure del nord per le foto tra i fiori desaturati, il tramonto delle tue labbra rosse e le lingue lunghe delle nostre amicizie comuni. E poi ti sei svegliata mi hai chiesto hai vinto, ma la partita è finita 1 a 1 e mi sento sconfitto perché non so aspettare il domani per sussurrare i miei buongiorno. E poi ti sei rimessa a dormire e io sono rimasto a guardarti. Ma non eri più tu e così ho cominciato a scriverti e mi sono fatto di viaggi come i folli, come i venditori di barbiturici e i cartomanti di Brera.

Contrassegnato da tag , , , , , , , ,

A me di Bob Dylan non è mai importato niente

A me di Bob Dylan non è mai importato niente. Per tutti quei prati calpestati senza accorgercene che guardavamo lassù le luci e l’artista e non sapevamo ancora dar tregua agli occhi. Le nostre scarpe spaiate e tu che avevi sempre bisogno di riposare chissà scopare e le tue cose non arrivavano mai per darmi tregua. Le donne contro il silicone si sono riunite a Siena per osservare da vicino il Palio con le filastrocche per gli animali, le minestre al farro e i problemi sentimentali. E tu dove sei, dove andrai? Il mio pomeriggio sulle panchine dei parchi per disegnarti e i vecchi che mi guardano come un miraggio. Il gioco delle bocce al mare e i tuoi seni tondi le boe per salvarci dalle maree. Casa mia è sempre sola la notte e la mia camera è tutto letto. Quando si parla di vuoti nel frigorifero non manca nulla. La spesa di ieri, le corse, le attese. Le gemme si sono fatte fiori e addobbi ancora i tuoi abiti lunghi, il profumo d’estate tra i tuoi capelli. E’ il sudore che mi disegna cuori sulla maglietta e non è una firma non è un decoro. Quei ti adoro con due o quelli plebei, i vestiti rosa le calze rosa le ballerine rosa e dimmelo tu a chi dovrei rivolgere la parola? Le lontananze con le canzoni di Mina. E per i balli di gruppo contro la democrazia l’armonica della Martini. Che fine abbiamo fatto noi? C’è un solo teatro vivo in Italia. Le tiritere dei morti. E cosa leggerai stanotte? Soltanto che a me di Bob Dylan non me ne importa nulla che a Trastevere suonano fino a notte fonda e tu rimani in casa che hai girato tutto il giorno e sei stanca e aspetti lui e i voli tra le sue braccia. Per tutte le volte che non mi hai pensato. Per tutte le volte che ti ho allontanato.

Contrassegnato da tag , , , , , ,