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Mostrerai il seno ai naviganti

Tracimano i cappucci bianchi dei monti, il tuo passaggio aereo e il tuo vestito azzurro per l’incantamento dei corpi celesti.

Le notti vuote,

le stelle cadenti rimangono in chiodi fissi aggrappate al cielo per non perdersi il tuo passaggio e dietro a te lacrimano in fila cercando un modo per sfiorarti. Area e schiva tu. Lasci indietro la scia bianca degli astri che il cielo rifiuta perché ormai in fuoco. Ti sei mai chiesta dei danni del tuo passaggio?

Posso slanciare le gambe in salto per ritrovarmi sotto la cascata della tua lingua; rigenerare il passo gettando le ansie nello sfregamento quotidiano delle nostre pance.

Quando ti sei seduta per la prima volta sulle mie ginocchia ho aperto le braccia per accoglierti, e poi mi sono fatto conchiglia.

Le perle sono soltanto concentrati chimici.

Tu, parassita delle mie notti.

Tu, guance estranee, tessuti molli e cuore sconosciuto.

E per proteggermi strati di bianco sul contorno della tua pelle, il tuo pelo fine, leggero; la madreperla delle mie esplosioni notturne, che diventi preziosa soltanto se ti fai stringere. L’invadenza dell’entrata, basta soltanto un si può e chiudo le cosce d’istinto. Non ho scelto io di trasformarti in gioiello.

Il movimento stanco del mare dei giorni, questo sole che rintocca sui nostri contorni e ci fa suonare i campanelli delle case di ringhiera.

Le scale non sono mai abbastanza, vorrei pensare a lungo prima di entrare dentro di te.

E ora sei qui, non chiudo gli occhi, le dita a percorrere il contorno maturo degli acini gonfi del petto, i fianchi sporgenti e quei tatuaggi che mi invento tra i polpastrelli per disegnare autostrade sulla tua pelle e poi attraversarti dimenticando il paesaggio.

Dovrei sputarti fuori dalla finestra, come i noccioli far germogliare figli tuoi sulla strada e lasciarti libera di andare al vento.

L’egoismo delle mie unghie ti custodisce sotto pelle, non ti farò del mare, vedrai, ti nasconderò nella ferita al centro del mio ventre, quel buco che è dalla nascita che non sa cosa contenere.

Non ti farò del male, vedrai, prenderemo una barca, ti farò sedere a prua, mostrerai il seno ai naviganti e a me la schiena, che non è importante quanti sguardi attiri, quante mani si allungano, quante voci ti cercano.

Mostra ai più le tue forme, ma dona a me lo spazio nero dei tuoi nascondimenti, di quando sei supina e nascondi il cuscino dietro la spina dorsale. Non mi interessa il bianco, è nel nero che trasformo le notti in giorni, e delle tue ombre faccio meraviglie.

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Rivoltare il corpo e perdersi nell’urlo

Un Cipì o uno qualsiasi, volatili e smog sui fili della luce e temporali che tardano a venire.

Tutti sul filo, l’equilibrismo dei giorni per questi inviti a cui non rispondi mai. Le chiamerei umiliazioni se solo potessi permettermi di leccare l’asfalto e farmi maledire da lassù. Posso umiliarmi da me, da me soltanto, gli altri non riescono in nulla, muri infrangibili le mie guance sode e codazzo di pelo per ripulirmi dalla calunnia. Salite sui miei fianchi, gli argini sfuggenti della parola aguzza per la barca morbida delle mie labbra a frangere i flutti delle vostre euforie col muscolo gonfio dei giorni migliori insemino il mondo con parole liete.

Gravido ventre di terra riposa al suolo il seme dell’oggi e presto fiorirà, ne son certo. Non c’è timore in questo procedere a balzi, facciamo avanti e indietro come i Taxi della notte col satellite appiccicato al cuore noi; soltanto fiotti e sangue senza bisogno di additivi per far cadere dal sonno la notte e rialzarci in parata con le braccia alzate.

Strana gente noi che rifiutiamo la gozzoviglia della chiacchera intellettuale, noi che sfiliamo soli al ciglio delle piazze per guardare il centro e non perderci in attacchi inutili alle maggioranze, noi che siamo sconfitti perché non reggiamo il confronto, noi che ci ritagliamo gli angoli per essere protetti dai muri bianchi, vergini alle parole che fanno male e puri nel pensiero. Perdenti in debolezze e fragilità, la carne e il desiderio intimo di una compagnia capace di cemento e pala, scavare e costruire, questo vorremmo dalla scoperta che la nostra lingua è un muscolo e si lascia andare al braccio di ferro coi suoi simili, ma chiede tempo per abbattere muri, e freni ed età.

Non siamo fatti noi per il contingente, guardiamo in prospettiva e ci trasciniamo tra la velocità delle nuvole e i treni in ritardo e quando potremmo calcolare i tempi preferiamo variare il percorso e perderci che le città si rivelano sulle strade e i loro incontri e per i musei lasciamo spazio alla seconda età dello sposo e ai marmocchi vocianti che corrono sulle scale e battono le mani e la testa e cadono e quella, quella la chiamiamo vita, rivoltare il corpo e perdersi nell’urlo.

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MACAO

L’aperitivo al bar, lo spazio neutrale per i nostri sguardi. Ci siamo detti è tardi, che gli anni ci pesano sulle spalle come le stellette dei militari e quanti morti avremo sulla coscienza? Che senza accorgercene ci siamo lasciati scappare il ciuf ciuf dei futuri.

Perdersi nei farò è l’immobilità concentrica della parola che decliniamo al condizionale con tutti gli avremmo, i dovremmo, i faremmo che ci penzolano dal soffitto che per evitarli ci trasformiamo in fotocellule. Le macchine fotografiche per dirci lo vedi, ci sono, ragiono e poi che altro vuoi? L’immagine è testimonianza ti ho detto, ma è il fare che diventa cronaca e sbagliare e disfare. E così parlavamo di Milano, degli Arci chiusi e delle nuove aperture, ci faranno suonare, ci faranno cantare, ci faranno ballare? Per le nostre aspirazioni abbiamo bisogno spazio e orizzonti, cadranno i grattacieli ti ho detto, e vedremo finalmente le sirene e impazziremo quando ci diranno che bastava turarsi le orecchie per evitare il frastuono e dare ascolto alle nostre fragili intimità.

Così mi hai detto Hey man, questa sera c’è gente in un posto. Ti ho detto embé, e poi perché? Non so, andiamo, vediamo, ascoltiamo hai da fare? Io no. Io nemmeno. Precari i nostri vuoti dell’esistenza, precari i nostri silenzi e gli affetti, precari noi e i nostri lavori artistici e quando ci verranno a dire che quel termine è snob li tatueremo tra le labbra come un urlo. Artisti noi che non neghiamo quello che siamo. Artisti noi che ci proviamo. Artisti noi che ci creiamo. Artisti noi tutti, mondo, abbiate il coraggio, abbiamo le forze, questa è la nostra utopia e parole dense, che se non osiamo finiamo con l’accontentarci.

Le sedie in cerchio e i modi gentili, le nostre divise così diverse e sciarpe e taccuini per gli immancabili occhiali tondi. Che c’era un luogo della mente, che si chiamava Macao, che era un museo in movimento, forza d’urto e aria nuova, sguardo libero per scavalcare orizzonti. Mi son disegnato un punto di domanda sulla mano: cos’è? Perché? Com’è? E tutte quelle domande che servono all’armonia. Vorrei, ma si può? E la parola occupazione come un macigno, così attiva che pare un invito. Andiamo, facciamo, occupiamo. Si occupa quel che è vuoto, i pieni non hanno bisogno di nutrimento. E gli occhi belli e i sopraccigli impegnati, parole nuove e un alfabeto da ribaltare, che quando si fa gruppo c’è un codice che è uguale al linguaggio dei più, ma nasconde intese e progetti impensabili. E allora a culo i però e le perplessità immobili. Andiamo, facciamo, occupiamo, la parola diventa azione ed ora siamo tanti, siamo scalini e usiamo le nostre spalle per raggiungere altezze, che siamo un gigante su un grattacielo. E ci domandiamo il perché e davanti alla musica rimaniamo immobili, rimandiamo il ballo al futuro che ora nei nostri corpi viaggiano veloci i ragionamenti. Per ogni più un però. Mi piace, alla grande, cioè.

Andiamo a Macao! Andiamo all’isola che c’è, di piano in piano, di parola in parola e poi sguardo aperto, mente leggera, timone saldo e la trasparenza dell’acqua. Che siamo un mare e prendiamo il largo sui grattacieli, che se non li pensi ostacoli e ci sali, sudi e fatichi, ma si rompe il velo e prendiamo il largo su orizzonti nuovi.

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