Quel che mi spaventa, lo sai, sono gli imperativi, il dito puntato, il punto fermo. E faccio a botte col già detto, le frasi fatte. Le formule irriproducibili degli anni passati. I caratteri mobili dei quotidiani e il mare salato che tiene a galla le nostre parole di questi giorni.
E dalle iscrizioni sul marmo ricordo che Goldoni è morto povero, che Hemingway era ramingo e che la morte fa brillare le ossa e dimentica la carne.
E mi spaventa chi si affida soltanto alla compagnia di un cane o di un gatto, chi ha paura della lingua e degli occhi. Chi si dimentica del significato della parola uccidere, chi si rintana nella retorica del meno peggio e parla di democrazia rifiutando lo sguardo degli altri. Che una cosa è la cultura, lo stile, l’ostentata bellezza, la sapienza, altra cosa è il non avere rispetto dell’altro, il volerlo prendere di peso, inculturare, schiaffeggiare con fare da saputello. Non mi convince l’accusa, rimbocchiamoci le labbra amico, sleghiamo i muscoli, viviamo nel bello, lottiamo per noi, per l’altro e l’altro ancora, parliamo poco, vestiamo con cura, circondiamoci di cose belle, persone interessanti, incontri dal vero, musica viva.
E proviamo a spegnere le luminarie, le televisioni e le raccomandazioni. Impariamo a tenere la mano, a disegnare gli occhi.
Che uso troppo le parole del sempre e del mai. E nelle righe qui sopra ho abusato dell’imperativo, con la paura di diventare quello che temo. Mi dicevi dell’estinzione dei dinosauri, dicevi che erano soltanto sciocchezze, racconti da carta stampata.
Che dimentico sul comodino il caffè dell’altro ieri e credo torni presto il tempo della novità, del tuo sedere tondo e dei tuoi versi al risveglio.
Nelle tasche ho ancora coriandoli e stelle filanti. Ho perso leggerezza sfilando lungo le strade delle città grandi.
Nel mio cervello c’è uno spazio vuoto che riservo per te. Ho perso il senno tra le lenzuola, smarrito bussole tra le schede elettorali.
Continuo a scriverti lettere lunghe una pagine, aspetto risposte lunghe una riga.
Che prendo aerei per tornare al paese e afferro treni per andare in città. Gli abbracci lunghi degli amici di sempre, le novità delle vite nuove e di quelle passate. La malattia che affonda il piede in tristezze e le sabbie mobili della ricerca d’impiego.
Vorrei scriverti delle stelle, dei tramonti sudamericani e dello smantellamento delle dittature, di nuove libertà, del mare d’Eritrea e delle lance che solcano l’onda. E ancora delle tivù satellitari, dei quartieri ricchi e bianchi e fetenti delle provincie africane, invece guardo i risultati elettorali con lo smartphone e rispondo a chi mi chiede che accade: stringo le labbra dico, va tutto bene, va tutto bene per farmi coraggio.
Se fossi qui mi diresti di pensare in grande, di lasciar perdere le contingenze. Che Tutta la vita davanti è un film italiano.
Photo: Larry Burrows